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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Arrivederci al 6 settembre

Cosmotaxi è in vacanza dall’1 agosto. Le pubblicazioni riprenderanno il 6 settembre.


Lamberto Pignotti a Brescia

E’ in corso alla Fondazione Berardelli un’antologica dedicata al padre della Poesia Visiva, Lamberto Pignotti, con un’ampia mostra curata in modo maiuscolo da Melania Gazzotti e Nicole Zanoletti.
Sono più di 200 le opere selezionate, fra disegni, collage, tele emulsionate, libri d'artista oltre a una ricca documentazione bibliografica, attraverso le quali viene ripercorsa tutta la carriera dell’artista fiorentino.
Dai disegni d'esordio degli anni Quaranta fino alle più recenti prove, dalle sperimentazioni degli anni Sessanta (collage di parole e immagini, la serie dei ‘Francobolli’, in foto un esempio in mostra) e anni Settanta (opere realizzate intervenendo su stralci di quotidiani, come nelle serie “Souvenir”,”Zero”, “Foto”, “Thrilling”) alle ricerche sulla mercificazione dell'immagine femminile (nelle serie “De-composizione” e “Visibile-Invisibile”).

Il titolo dell’esposizione: Lamberto Pignotti La poesia ve lo dice prima, la poesia visiva lo dice meglio. Opere dal 1945 al 2010.

La storica dell’arte Vania Granata è una tra le nuove voci più autorevoli nel panorama delle forme espressive contemporanee e, inoltre, ha studiato l’opera di Pignotti. Ecco perché l’ho invitata a salire su questo Cosmotaxi per rivolgerle alcune domande.

Prima di chiedere un tuo pensiero su quest’antologica di Pignotti, desidero partire da due riflessioni che possano contribuire ad inquadrare anche l’agire artistico verbo visivo.
Cos’è per te il concetto di Intermedia e delle pratiche artistiche ad esso connesse?

Se dovessi in poche parole descriverti l'intermedia prenderei di certo in prestito una frase di Lamberto Pignotti che lo definì come l'arte di passare attraverso.
Questa sua geniale schematizzazione descrive l’intermedia come una prassi artistica volta a “con-fondere” codici espressivi e media eterodossi in un’unica struttura inscindibile.
Più esattamente, nei processi artistici intermediali ogni linguaggio di cui si compone l’oggetto artistico – alias il codice espressivo di un medium - scivola in un altro simultaneamente perdendo dunque la propria “specificità” di campo e dispiegandosi processualmente nell’interstizialità del suffisso che lo connota: il “tra”. In questo orizzonte, la Poesia Visiva, sintesi di parola/immagine, è uno degli esempi artistici maggiormente esplicativi del concetto di Intermedia poiché dispone un unico oggetto artistico ad essere interpretato come codificazione di un sistema complesso ed eterogeneo distribuito equamente, e simultaneamente, sui piani logico, verbale ed iconico
.

Mi sembra che la poesia visiva – pur all’origine di molte esperienze dei nostri giorni proposte dai mixed media – abbia conosciuto le sue maggiori affermazioni su plurali supporti, ma meno sul web. E’ questa una delle mie solite cantonate, oppure no? E se, per caso, ci avessi preso, perché è finora accaduto?

Alla base di ciò c'è una confusione terminologica; il problema sta nel fatto che oggi, nella stretta contemporaneità, il nome “poesia visiva” si è trasformato in una sorta di contenitore i cui contenuti spaziano in molteplici direzioni che si relazionano, anche, al contesto del web ed alle estetiche che la virtualità e l'ipertestualità hanno innescato e di cui sarebbe impossibile qui, anche solo brevemente, parlare. La Poesia Visiva però nacque in Italia in seno alle sperimentazioni del Gruppo '70 formatosi a Firenze nel 1963. Lamberto Pignotti, come è noto, fu uno dei suoi fondatori ed uno dei suoi fondamentali interpreti. Nella prima metà degli anni Sessanta, l’intermedialità verbo-visiva imperava di fatto già nella semiosi pubblicitaria, nello slogan, nel giornale, poiché rispondeva alla necessità di mandare ad effetto un unico messaggio che, nell’immediatezza della percezione, colpisse ed attivasse l’attenzione del pubblico attraverso l’impiego simultaneo e sinergico di codici linguistici e media differenziati. La poesia visiva ne riproduceva criticamente la modalità comunicativa; non ne cambiava la prassi, bensì il messaggio che assumeva quindi valenza ironico-politico-demistificatoria. Le dinamiche espressive del tecnologico venivano allora “strumentalizzate” dal procedimento intermediale della poesia visiva, e non formalmente impiegate come componenti costitutivi e sintattici dell'opera; ecco perché i componimenti poetico visivi venivano compilati artigianalmente, senza l’impiego di elementi tecnologici.

Qual è l’importanza di Lamberto Pignotti nello scenario internazionale della poesia visiva?

Ho un debole per l'ironia colta e sagace di Lamberto Pignotti; lo ritengo uno dei più interessanti autori del panorama poetico-visivo. Gliene rende atto l'esauriente personale alla Fondazione Berardelli di Brescia (a cura di Melania Gazzotti e Nicole Zanoletti) che ne ripercorre l'intera carriera, dagli esordi “disegnativi” sino alle più recenti operazioni poetico-visive. Trovo che Pignotti, pur essendo presente in moltissime collezioni, pubbliche e private - al Mart è ora in esposizione, fino al 22 agosto, la collezione Gianfranco Bellora – meriterebbe maggiori attenzioni. Si dovrebbe investire di più, in termini culturali, su autori “di nicchia” che, come Pignotti, hanno contribuito in maniera sostanziale allo svecchiamento della cultura italiana nel decennio nodale degli anni Sessanta e che instaurarono scambi culturali (oggi parleremmo di networking) con il Fluxus, il Pop, il Nouveau Réalisme e il nostrano Gruppo 63. Lo studio di queste relazioni è ancora poco frequentato dalla critica.

Pignotti oltre che nella poesia visiva opera in più aree: dalla narrazione alla saggistica, dalla performance alla radio. Trovi un fil rouge che unisce questo suo percorso mediale? Se sì, in che cosa lo identifichi?

Fu proprio Pignotti, nel suo testo “La suggestione di Gordon Flash” apparso su “Marcatre” nel 1965, a indicare l'antispecialismo, l'interdisciplinarietà e l'interartisticità come caratteri fondanti del suo approccio all'arte per produrre “prodotti estetici che, pur essendo il frutto di un singolo artista, si pongono indifferentemente come poesia, saggio, spartito musicale, romanzo pittura, copione teatrale, e così via”. Questi concetti sono direttamente riconducibili a quel campo, l'intermedia, che non ascrive la creatività dell'artista all' “opera”, nel senso tradizionale del termine, ma che invece, avverando una nuova estetica, rende possibile l'espressione artistica come sconfinamento attraverso codici e media, arte e vita, solo apparentemente divergenti.

“Lamberto Pignotti”
Fondazione Berardelli
Via Milano 107, Brescia
Info: 030 – 31 38 88; info@fondazioneberardelli.org
Fino al 3 ottobre ‘10


Fringe Festival


Rammelzee non abita più qui

Ho appreso dal supplemento “Alias” del Manifesto di sabato 24 luglio che Rammelzee è morto nello scorso giugno. Aveva 49 anni.
Traggo dall’articolo, scritto da u.net, alcune note per chi non lo conoscesse.
Rammelzee, di origini ispaniche e italiane, nasce nel 1960 a New York: writer, rapper, video maker, è un esempio tra i più evidenti di quelli che vanno ricordati come ‘poliartisti’.
Dizione, forse, difficile, ma ci aiuterà a capirla meglio Vania Granata, storica dell’arte contemporanea, che rimorchierò a bordo domani su questo taxi spaziale, per altra occasione di cronache.
Conobbi Ramm nei primi anni ’80, era una carica esplosiva d’opera e vita.
La sua prima sostenitrice in Italia fu Francesca Alinovi.

Intervistato da Maurizio Torrealta, gli fu chiesto: “Perché non dipingi su tele di canapa?” Rispose “Perché io la canapa la fumo”.
Per altro su Rammelzee CLIC!

Conclude il suo documentato, e appassionato, articolo u.net: “Per Rammelzee la morte non rappresentava in alcun modo la fine di un percorso bensì solo un cambio di forma e stato; anche dopo la scomparsa il suo contributo nella storia della cultura hip hop continuerà a esercitare una forte influenza su molti artisti”.
E’ apparso come attore in uno dei film più importanti proprio del mondo hip hop e street, “Wild Style”, diretto da Charlie Ahearn
Ramm… se solo dio esistesse ti maledirebbe, ma nella sua giustificata assenza, ti maledico io perché andandotene ci hai lasciati più soli.


Vita da Palma

Nata a Roma nel 1910, allieva di Adolfo Venturi, Palma Bucarelli rivoluzionò in Italia il concetto museale dell’arte moderna visto fino al suo arrivo nel 1942 alla direzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna (la dirigerà fino al 1975) secondo antiquate modalità espositive.
La Bucarelli (in foto) si rese protagonista del salvataggio di molte opere d’arte durante il periodo bellico. I suoi meriti non finiscono qui, ma solo cominciano da qui perché dal 45’ in poi, accelerando il ritmo di nuove iniziative, e sempre più ispessendole qualitativamente, rese la Galleria Nazionale un centro aperto alle nuove tendenze, prese a fare mostre temporanee, decise acquisti d’opere in Italia e all’estero, inaugurò una stagione di collaborazione con grandi musei stranieri, stabilì – attraverso conferenze, presentazioni di libri, proiezioni documentaristiche – un nuovo rapporto col pubblico, dedicò energie alla didattica coinvolgendo le scuole e non soltanto quelle d’indirizzo artistico.
Un rinnovamento tanto forte, accanto a vigorosi elogi suscitò inevitabilmente anche molte critiche (ad esempio quelle che le rivolse De Chirico, ma non fu il solo), suscitò un’infinità di polemiche alle quali partecipò con piglio battagliero uscendone vincitrice sia sul piano espressivo e sia su quello riguardante i nuovi criteri museografici da lei inaugurati e ancora oggi d’attualità e praticati.
Morì a Roma nel 1998, all'età d’ottantotto anni.

Proprio in occasione del centenario della sua nascita, si terrà a Cortina, alla FarsettiArte, la mostra Omaggio a Palma Bucarelli.
Sarà riproposto, con una selezione di circa quaranta opere provenienti da collezioni private, un gruppo d’artisti da lei scelto per la riapertura della Galleria Nazionale fin dal 1944. Arturo Martini, Francesco Menzio, Mario Mafai, Scialoja, Morandi. E poi l’amore per la pittura di Casorati, Scipione e Mirko. Ma Palma Bucarelli fu all’avanguardia nelle scelte dell’arte nuova, nel prediligere l’astrazione, la pittura di Afro, di Capogrossi, la scultura di Consagra, e quella dei giovani astrattisti dell’Art Club, Turcato e Perilli, Dorazio e Carla Accardi, e pure per il primo Guttuso (poi i rapporti si ruppero e i due diventarono acerrimi nemici).
La mostra offre un panorama anche delle scelte successive della grande direttrice che organizzò le prime mostre in Italia di Picasso e di Pollock, nel 1953 e nel 1958, espose i sacchi di Burri guadagnandosi l’appellativo di “Palmina degli stracci”, le opere del giovane Pino Pascali e le famose scatolette con merda d’artista di Piero Manzoni nell’antologica del 1970 che suscitò interrogazioni parlamentari e grande scandalo.

Ufficio stampa:
Ester Di Leo: 055 – 22 39 07 e 348 – 33 66 205; esterdileo@gmail.com

“Palma Bucarelli”
FarsettiArte
Largo delle Poste (piano rialzato)
Cortina
Tel. 0436 – 86 06 69
dal 10 al 29 Agosto 2010
Ingresso gratuito


Io non lavoro

Comincio questa nota – e lo farò ogni volta che mi occuperò di Neri Pozza – ricordando che è, al momento, l’unica Casa Editrice che ha deciso di non partecipare a premi letterari di narrativa in Italia, si legga QUI . Insomma, invece di blaterare, lagnarsi, piangersi addosso sul malcostume imperante nei premi, fa seguire fatti concreti: chapeau!

“Chi lavora è perduto”, questo era il titolo del primo film, 1963, di Tinto Brass che la censura, insieme a tagli e modifiche, volle cambiato in “In capo al mondo”. Non so se Brass - uomo che possiede più letture di quante molti immaginino – conoscesse il saggio di Paul Lafargue Le Droit à la Paresse, ma dalle avventure che fa vivere nel film al giovane protagonista anarchico di quella storia, sono tentato dal pensare di sì.
Il libro attacca uno dei capisaldi, cosiddetti morali, del discorso sull’Uomo: il lavoro.
Lo fa esaltando l’ozio, vero nemico d’ogni padrone, d’ogni economista, d’ogni governante.
Né teme di farsi beffe dei lavoratori stessi, ignari schiavi di un concetto – il lavoro – voluto dai loro sfruttatori; inneggia alle macchine (e com’è attualissimo il discorso!) che pur dando la possibilità di liberare l’umanità dal giogo della fatica, vedono gli uomini avidi d’incatenarsi da soli affaticandosi per più ore, proprio quelle ore che l’automazione renderebbe libere.
Lafargue fa a pezzi l’ideologia capitalistica del sacrificio e del salario, e – fortuna o sfortuna che sia stata per lui – ignorava che di lì a poco anche il comunismo al potere avrebbe eletto sciaguratamente il lavoro come simbolo di redenzione del proletariato.

Il libro che presento oggi è intitolato Io non lavoro Storie di italiani improduttivi e felici. Ne sono autori: Serena Bortone e Mariano Cirino.
Si tratta della documentazione di sei veri casi in cui il lavoro più che mancato è stato disertato, ma con logiche e scelte lontane dalla temperie socio-culturale che animava l’immaginario personaggio protagonista del film di Brass.
Sono persone che appartenendo a condizioni sociali diverse fra loro, così come differenti fra loro sono le levature culturali e l’età (ma qui il dato si fa più sottile perché l’appartenenza anagrafica è prevalentemente giovanile), hanno deciso di non vendere il proprio tempo ad altri, di vivere secondo una libertà che fa scandalo e non rende loro la vita facile.
Un libro originale che indaga su di un aspetto poco esplorato della nostra società pronta a esaltare a parole il lavoro, ma a umiliarlo sia sul piano salariale (quando il lavoro c’è, e assai spesso non c’è) sia su quello della sicurezza (in Italia, dati Inail: nel 2009, 1050 morti sul lavoro, vale a dire 3 al giorno, e 790.000 infortuni cioè oltre 2.000 al dì)… a proposito!... gira per i tg un Ministro del Lavoro il quale va dicendo ch’è diminuito il numero di morti e incidenti sul lavoro… ma che bel furbo!... sì, è vero, è così, ma perché sono diminuiti i posti di lavoro, però questo non viene detto.
Tornando al libro, questo Io non lavoro ha la forza d’illuminare un tracciato sociale che pone domande esplicite e anche sottese sul senso e il sentimento della vita d’oggi, e ha – a mio avviso, s’intende – il limite di rendere romanzesco ciò che di vero racconta. Si direbbe che gli autori muoiano dalla voglia di scrivere un romanzo. Non ho la capacità di dare consigli, mi limiterò a citare, condividendo, quanto diceva Giorgio Manganelli: Basta che un libro sia un "romanzo" per assumere un connotato losco.

Ho cominciato questa nota ricordando Lafargue – nacque a Cuba nel 1842 – la concludo ricordando che, al contrario dell’eroe comunista Stakhanov, lavoratore indefesso che morì nel suo letto circondato da onori, Lafargue ebbe vita randagia, patì più volte il carcere; morì suicida, insieme con la moglie Laura, figlia di Karl Marx, nel 1911 all’età di 70 anni.
Ai suoi piedi la fossa comune di 147 comunardi fucilati il 28 maggio 1871, durante la repressione della Comune, seppelliti con gran fretta in ora notturna.
Duro lavoro scavare quella fossa. Nessuna pigrizia, roba da stakhanovisti.

Per una scheda sul libro e la biografia degli autori: CLIC!

Serena Bortone
Mariano Cirino
“Io non lavoro”
Pagine 235, Euro 16:00
Neri Pozza


La perspective du ventre

Il titolo di questa nota non tragga in inganno, non si riferisce alla gastronomia né a consigli salutisti, bensì a un grande artista francese che, come vedremo fra breve, ha innovato l’arte della fotografia: André Villers.
Fu fotografo di Pablo Picasso, e altre collaborazioni l’hanno legato a nomi quali Prévert, Cocteau, César, Hartung, Leo Ferré, Brassai, Doisneau, Ionesco, Aragon, e Butor, anch’essi fatti propri dalla Rolleiflex di Villers insieme a una foltissima schiera di altri protagonisti della cultura europea del secolo scorso: da Simone de Beauvoir a Le Corbusier, da Guttuso a Fellini, da Boulez a Ponge.
A presentarlo, in esclusiva per l’Italia, con una mostra di 120 opere - curata da Arte Communications, Fabbrica Arte e Musea – sono Debora Ferrari e Luca Traini dei quali ricordo ai più distratti una splendida mostra ('The art of Game') su arti visive e videogames tenutasi in Val d’Aosta.
L’esposizione è arricchita da “Album Villers” (150 immagini fra ritratti, fotoelaborazioni e découpages), edito da TraRariTipi, un volume d’arte che raccoglie per la prima volta in modo esaustivo l’opera di questo straordinario personaggio tuttora attivo in Provenza.

A Debora Ferrari e Luca Traini, ho chiesto di parlare del loro incontro con Villers, di tracciare un profilo stilistico del grande André, e chiarire il perché del titolo di questa mostra: “La perspective du ventre”.
Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia di cui dispone a bordo Cosmotaxi.

André Villers compie ottant'anni e collega due secoli di ricerca fotografica. Lavoriamo con lui dal 2007, quando lo abbiamo incontrato per produrre la monografia edita da TraRari TIPI e questa vicinanza ci ha fatto scoprire l'uomo, il fotografo, l'artista.
La sua importanza è data innanzitutto dal fatto che ha fotografato a partire da Picasso tutti i maggiori artisti del XX secolo - ma anche scrittori e musicisti, costituendo un archivio fotografico tra i più ricchi e preziosi del mondo, quindi anche perché già a partire dagli anni ‘60 sperimentava nuove tecniche fotografiche in camera oscura che ci permettono di leggerlo oggi come precursore della postproduzione contemporanea. Come fotografo ha sempre trattato le immagini come un pittore: ogni stampa è unica, anche se il soggetto può ripetersi in diverse di esse, alcune con dripping di acido rivelatore, altre manipolate con ombre di carte nell'ingranditore.
A Venezia, durante la Biennale di Architettura, lo celebriamo nel titolo proprio con la sua frase "La perspective du ventre", cioè la posizione di tenere la Rolleiflex ad altezza pancia per inquadrare i personaggi, gli amici, in modo naturale e mai scontato.
Villers non ama la 'fotografia telefonata', prevedibile, piatta. Nella sua vita ha messo l'amicizia con gli artisti al primo posto e questa è la cifra del suo lavoro, unitamente a ironia, comicità, dramma, vitalità.
Oltre 100 opere dai ritratti alle fotoelaborazioni, dagli atelier ai découpages, portano il pubblico a conoscere un genio della fotografia del Novecento oggi ancora attivo, con tutta la sua verve
.

Il luogo della mostra è il Fondaco dell'Arte, storico edificio veneziano sorto tra la fine del '500 e gli inizi del '600.

André Villers
“La perspective du ventre”
Fondaco dell’Arte
San Marco 3415
Dal 30 luglio al 17 ottobre


Fuori Fuoco


Nel momento nerissimo che, grazie agli attuali governanti, attraversa il cinema (e non solo il cinema) italiano, va ancor più vigorosamente lodato chi presenta iniziative le quali propongono – e gratuitamente – al pubblico occasioni per conoscere i nuovi talenti del nostro scenario filmico.
E’ il caso della manifestazione che mi accingo a segnalare.

Dall’esperienza del Festival internazionale del cortometraggio Visionaria (giunto quest’anno alla XIX edizione consecutiva dopo il debutto avvenuto nel 1991), nasce (nel dicembre 2008) Fuori Fuoco, rassegna cinematografica che premia il giovane cinema italiano, escluso dalla grande distribuzione e condannato all’invisibilità.

Dal 29 luglio al 12 agosto in cinque piazze della provincia di Siena, prende il via – coordinamento di Giuseppe Gori Savellini – questa rassegna che dà spazio a piccole produzioni indipendenti con il sostegno delle amministrazioni comunali di Sovicille, Monteriggioni, Chiusi, della Provincia di Siena, della Fondazione Monte dei Paschi e la Banca del Chianti Fiorentino.
La proiezione di ogni film sarà accompagnata da un cortometraggio scelto tra i premiati nelle recenti edizioni di Visionaria.

Per il programma, cliccare QUI.

Ufficio Stampa: Natascia Maesi, 335 – 19 79 414; info@agfreelance.it


American Art

“La mostra dedicata all’arte Americana tra il 1850 e il 1960” – dice Gabriella Belli direttrice del Mart – "è nata tre anni fa a Washington, in occasione di un mio viaggio, in preparazione di Giorgio Morandi. Master of Modern Still Life, curata dal nostro museo, che si è tenuta nella nuova ala della Phillips Collection, nel febbraio 2009. E’ stato proprio durante la visita all’allora direttore Jay Gates che ho avuto l’opportunità di scendere nei ricchissimi depositi del museo e di vedere con enorme emozione lo straordinario patrimonio di opere d’arte americana che Duncan Phillips aveva acquistato nel corso della sua lunga e appassionata vita di collezionista”.

Nasce così la mostra American Art 1850 – 1960, adesso in corso al Mart, a cura di Susan Behrends Frank e con la direzione scientifica di Gabriella Belli. Allo sguardo dei visitatori sono offerte oltre cento opere con capolavori di artisti da meno noti a noti e notissimi; da Edward Hopper (in foto un suo lavoro del 1926: “Sunday”) a Georgia O'Keeffe, da John Sloan ad Arthur Dove, da Stuart Davis ad Adolph Gottlieb, da Philip Guston a Jackson Pollock, da Robert Motherwell a Mark Rothko, a tanti altri ancora.

Scrive in catalogo Susan Behrends Frank: Nella visione di Phillips, il museo che portava il suo nome doveva essere un posto in cui l’unità poteva essere trovata in una pluralità di voci. Phillips argomentava appassionatamente contro un’arte americana intrappolata in un “nazionalismo adolescente”. Fermamente convinto che l’arte fosse un mezzo espressivo internazionale, universale, capace di trascendere i confini, le etnie, e i linguaggi, Phillips onorava il fatto che nella sua collezione ci fossero famosi artisti naturalizzati americani che provenivano da paesi come Russia, Ungheria, Romania, Italia e Giappone, perché questo significava che l’arte americana era autenticamente internazionale.

E, ancora in catalogo, Elisabetta Barisoni nota: L’arrivo dell’arte americana in Italia costituisce uno dei temi più complessi della nostra contemporaneità e citando Boatto, così conclude Non capita di frequente di essere testimoni più o meno diretti della nascita di un nuovo continente artistico: quello Americano.

Il catalogo (240 pagine, 200 illustrazioni a colori, 35.00 euro) è pubblicato da Silvana Editoriale.

Concludendo questa nota, ricordo che al Mart è ancora in corso la mostra della Collezione Bellora; resterà aperta fino al 22 agosto.

Ufficio Stampa Mart
Luca Melchionna, 0464 – 45 41 27; mail: L.Melchionna@mart.tn.it
Clementina Rizzi, 0464 – 45 41 27; mail: c.rizzi@mart.tn.it

“American Art 1850 – 1960”
Info: 800 – 39 77 60
Fino al 12 settembre ‘10


Aboliamo la scuola

“La scuola è così essenzialmente antigeniale che non ristupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri”.
Così scriveva Giovanni Papini in “Chiudiamo le scuole”.
A distanza di quasi un secolo, un altro grido si leva, ma di diverso segno, in un libro, con dedica a Gianni Rodari, scritto da Marcello D’Orta intitolato Aboliamo la scuola; l’editore è Giunti.

"Fino a quando, su questa terra, esisterà un fabbricato denominato scuola, i ragazzi domanderanno al Padreterno perché mai li abbia messi al mondo se devono trascorrere una parte della stagione più bella della vita (l'infanzia e l'adolescenza, appunto) in cattività". Partendo da questa semplice considerazione che unisce i ragazzi di tutte le generazioni e i ricordi del ragazzo di ieri all'esperienza del maestro di oggi, D'Orta ripercorre gli anni della ''sua'' scuola, nella Napoli degli anni Sessanta e Settanta. Così prendono vita figure vivissime che accompagnano il lettore dalle elementari fino al liceo, sullo sfondo di una Napoli popolare per molti aspetti perduta per sempre. Compagni di scuola, bidelli, genitori, insegnanti, in un ritratto icastico e divertentissimo.

Marcello D’Orta è l’autore italiano che figura tra i primi dieci più venduti del ‘900 con il suo indimenticabile Io speriamo che me la cavo (tante le sue versioni anche in altri linguaggi, dal melologo al musical), ma larghi successi hanno ottenuto anche suoi lavori successivi ai quali ho dedicato, con piacere e convinzione, mie note in questo Cosmotaxi. Come, ad esempio, “Nero napoletano” che fu lo spunto per una chiacchierata nello Spazio; Fiabe sgarrupate; Nessun porco è signorina, e non escludo di averne dimenticato qualcuna sotto l’avanzare impietoso dei miei anni.

In occasione di “Aboliamo la scuola”, a Marcello D’Orta ho rivolto qualche domanda.
Come ricordi il tuo periodo scolastico?

Dalle Elementari fino alle Medie è stata essenzialmente paura: paura di essere interrogato, paura di essere sorpreso a chiacchierare, paura di essere colto in flagrante mentre copiavo. Solo alle superiori mi sono “sciolto”, vivendo quella goliardia senza la quale la scuola sarebbe stata solo un incubo.

Nel tuo libro ci sono molti episodi esilaranti, ce ne regali uno? Per conoscere i tanti altri, lo garantisco, si andrà in libreria...

Il maestro De Renzis, terribile, che arrivava a dare fino a 50 bacchettate sulla mano (come ricorda un suo “illustre” discepolo, l’editore Tullio Pironti) pretendeva che nel recitare le poesie, gli alunni mimassero i vari personaggi e non stessero lì impalati. Al momento di declamare “La cavalla storna”, un mio compagno, non potendo evidentemente emettere il grido del cavallo (lo avrebbero sfottuto per il resto della vita) si improvvisò poeta futurista e scotendo il capo così concluse il canto: “Sonò alto un nitriiiiiiiiiiiiiiiiiiito La classe si scompisciò, e con essa anche De Renzis. Fu l’unica volta che lo vidi ridere.

Il titolo del libro è "Aboliamo la scuola". Perché? Non basterebbe abolire la Gelmini?

La scuola da abolire è la scuola allogata in ex conventi, ex penitenziari, ex fabbriche, o condomini. Al suo posto vanno costruiti edifici che tengano in considerazione le esigenze dei ragazzi: aule grandi, palestre, spazi verdi, laboratori. La scuola da abolire è la scuola degli sprechi (corsi costosi quanto inutili, ad esempio: scrittura geroglifica) della burocrazia e delle ideologie (libri faziosi). La scuola da abolire è la scuola dove spadroneggiano i genitori degli alunni, impedendo ai professori di svolgere il loro mestiere. La scuola da abolire è quella che promuove tutti, anche gli asini. E tra gli asini ci sono pure i professori. La scuola da costruire è quella dove trionfa la creatività, così come voleva Rodari, cui il libro è dedicato; ma dove vige anche la severità. La Gelmini qualcosa di buono l’ha fatto, ma poi è stato solo un disastro. Non basta abolire lei per sanare la scuola, per sanare la scuola bisogn… eh no, leggetevi il libro e lo saprete.

E’ quello che in molti faranno, stanne certo.

Marcello D’Orta
“Aboliamo la scuola”
Pagine 192, euro 14.50
Giunti


Enni


Quando Debora Ferrari segnala un avvenimento, c’è da fidarsi. Perciò proprio di una sua indicazione qui riferisco.
Si tratta di Enni © - Tribute for Nature un’installazione interattiva di Luciano Finessi a cura di Philippe Daverio.
Finessi vive ad Aosta dov’è nato nel 1959.
Può vantare mostre in Italia (tra le più recenti: Torino, Roma, Verona, Milano) e anche in Russia dove il suo lavoro è stato apprezzato a "Saint-Petersburg” com’è scritto in un comunicato stampa e che oso immaginare sia la stessa località più nota in dizione italiana come San Pietroburgo.

Circa “Enni” (in foto, un particolare dell’installazione), così l’artista scrive in modo un cincinino criptico.

Enni è l’evento. E' il manifestarsi di un evento possibile che scaturisce dalla memoria del presente, dalle relazioni naturali e artificiali che gli elementi che ci circondano traducono in forme e suoni.
Enni è l’estensione del pensiero apparente, del limite fisico del nostro sguardo. E’ la mappa organizzata delle idee, delle interpretazioni, dei riferimenti ai luoghi della nostra esperienza.
Enni è la traduzione delle nostre conoscenze in simboli. E’ il riconoscimento dell’oggetto e confine estremo del sogno. E’ la rivelazione di ciò che si evidenzia come ricordo universale e immobile della natura.
Enni è il momento di incontro tra uomo e la natura. E’ l’ossessione dell’ambiente, di quel luogo privilegiato dove si rivela un percorso biografico attraverso l'essere che è fatto di evidenze naturali e umane.
Enni è il riconoscimento, l’elaborazione, di immagini e di immaginario. E’ un prolungato desiderio di essere dentro le forme naturali di un verde fisico che scorre senza fine. Corre e percorre il tempo generando un altro Enni: un altro spazio, un altro evento.
Enni è la forma instabile che ricerca la perfezione, la rivelazione, l’immanenza, eppure rimane sospesa e fragile a chiedere la sicurezza del nostro sguardo incerto.
Enni e la sua forma avvengono in una dimensione raccolta, chiusa, dove la memoria della natura è ancora presente. E’ un evidente stimolo per i nostri sensi ad appartenere all’Evento Naturale Non Identificato
.

Chi in Val d’Aosta vive, o in quello splendido luogo si trova occasionalmente per lavoro, turismo, sport o sesso, oppure è là nelle vicinanze per altre cause, non gli resta che recarsi nel luogo che appresso indicherò e visitare “Enni”.
Per colei, colui, coloro, che lì si recheranno, ho una laica supplica: al ritorno ditemi di che cosa si tratta perché il comunicato – riuscendovi pienamente – fa scendere fitte tenebre su “Enni” rendendo complicata la comprensione di quanto lì è pur valorosamente esposto.
E’ anche vero che quel tipo di prosa poetica, in alcuni, può esercitare seduttiva curiosità, ma su di me, che ho cuore ateo e malvagio, purtroppo, no.

Luciano Finessi
“Enni”
Espace: Porta Decumana
Biblioteca Regionale
Aosta
Fino al 3 ottobre 2010


Angeli caduti


“Gli angeli ancora risplendono, anche se é caduto quello più splendente”.
Così in Shakespeare.
Via, ammettiamolo, tra le tante svolazzanti creature angeliche le più simpatiche sono quelle finite a muso basso nella terra e, talvolta, spargendosi su di essa come bombe clusters.
Quelle unità di flotta celeste sono usate da più religioni talvolta come dei bombardieri, talaltra come dei caccia, talaltra ancora come velivoli spia che sorvegliano gli umani e allora sono chiamati “custodi” i quali oltre a sorvegliare (e riferire a chi di dovere) dovrebbero/potrebbero perfino aiutare colei/colui affidata/o loro a superare ostacoli, schivare pericoli, vincere al superenalotto.
Un gran bel libro, tanto piccolo quanto denso, è stata pubblicato da Bollati Boringhieri; si tratta di una piccola (solo per estensione di pagine) quanto godibilissima provocazione di Harold Bloom dal titolo Angeli caduti.
Tema obsoleto quello dell’Angelo? Per niente. I nostri anni hanno visto un revival dell’angelogia, lo ricorda l’autore citando molta narrativa e saggistica (mi ha sorpreso nel fitto elenco l’assenza del libro “L’Angelo necessario” di Massimo Cacciari); tanta manualistica da Sophy Burham con il suo “Book of Angels” (tradotto in Italia – “Il libro degli angeli” – dall’Editore Corbaccio nel 1995) e “Angelspeake” di Mark e Griswoold; la massiccia presenza dell’Angelo in cinematografia: da “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders a “L’ultima profezia” di Gregory Widen, da “Michael” di Nora Ephron a “Vi presento Joe Black” di Martin Brest.

Bloom (New York, 1930), Sterling Professor alla Yale University, membro della Academy of Arts and Letters e vincitore del MacArthur Prize, è uno dei maggiori critici contemporanei viventi. Tra i suoi testi più importanti in traduzione italiana: “Il libro di J” (Leonardo, Milano 1922); “Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età” (Bompiani Milano 1996); “Come si legge un libro e perché” (Rizzoli, Milano 2000); “Shakespeare: l’invenzione dell’uomo” (ivi, 2001).

Molti - scrive Bloom - confondono le questioni di rappresentazione letteraria con quelle, assai diverse, della fede (o della mancanza di fede). Da quest’assunto, l’autore parte in una ricognizione (e interpretazione) della presenza nella letteratura degli angeli nei secoli, lontano da tentazioni metafisiche, l’angelo di Bloom ha così le ali sporche d’inchiostro e, in particolare, quelle creature volanti che ribellandosi a Dio rispecchiano qualità umanissime.
Libro colto, non senza punte di divertimento, traccia un’inedita storia di un tema letterario affascinante. E qui, per risarcire parzialmente Cacciari dimenticato da Bloom (spero solo per distrazione) concludo questa nota proprio come Cacciari scrisse nel 1992: “Ormai sottratti a ogni stabile gerarchia, sedotti e quasi irretiti dall'umano, questi ultimi Angeli serbano in sé un riso, una disperazione e una paradossale libertà che ci sono più che mai essenziali”.

Harold Bloom
“Angeli caduti”
Traduzione di Elisabetta Zevi
Pagine 50, Euro 8.50
Bollati Boringhieri


Twitter

Volete sapere tutto, ma proprio tutto tutto su Twitter e i suoi cinguettii?
C’è un sistema sicuro, acquistare il libro intitolato Comunicare con Twitter Creare relazioni, informarsi, lavorare, pubblicato da Hoepli.
Ne è autore Luca Conti e la cosa non sorprende perché è stato il primo giornalista a scrivere di Twitter sulla stampa italiana, nel gennaio 2007, in un articolo per Il Sole 24 Ore. Nel gennaio del 2008 è stato intervistato dal Tg3 per spiegare che cosa fosse Twitter, nel primo servizio della TV italiana dedicato all'argomento. Da allora segue il fenomeno studiandone la sua continua evoluzione. Consulente per l'uso avanzato dei social media in chiave marketing e comunicazione, collabora e ha collaborato con Nova24 del Sole 24 Ore sul tema ‘community e rapporto con le aziende’, Rai News 24, Buzzparadise, Mediaset, Liquida, Webank, Vodafone. Cura numerosi blog, tra i quali quello che l’ha fatto conoscere al grande pubblico: Pandemia.info. Ha insegnato Web 2.0 e nuovi indirizzi della rete presso le Università di Urbino e Macerata.

Scrive Luca De Biase nella prefazione: “Dalle origini fino al 19 novembre del 2009, la finestrella dove digitare i 140 caratteri su Twitter era stata pensata dai fondatori come lo spazio nel quale rispondere a una domanda personale, incentrata sulla vita vissuta degli iscritti a parlare: “Che cosa stai facendo?”
In origine, nel lontano 2006, quel che avevano in mente Jack Dorsey, Biz Stone e Evan Williams, gli inventori di Twitter, era di mettere a disposizione delle persone uno strumento per comunicare tra loro velocemente, un sistema per mandare qualcosa di simile a in SMS a diverse persone, contemporaneamente, dando per scontato che si conoscessero”.

Per saperne di più sul profilo di Twitter e sui suoi significati è qui con me Luca Conti al quale rivolgerò alcune domande.
Gradirei conoscere una tua definizione di Twitter… ovviamente non devi usare più di 140 caratteri…

Sistema di comunicazione multipiattaforma in 140 caratteri per comunicare, ascoltare e conversare

Quale paradigma del contemporaneo principalmente si riflette nelle pratiche di Twitter?...
E da qui in poi puoi usare più di 140 caratteri.

Twitter è la risposta alla voglia delle persone di comunicare, esprimere le proprie opinioni e condividerle con il mondo, in tempo reale. Dal lato dei media e delle aziende risponde ad una esigenza importantissima, quale quella di essere il primo oracolo dell'opinione pubblica globale. Poter accedere a questa massa di dati ha un valore inestimabile, per la piccola azienda, per la grande multinazionale e per chiunque è interessato a tutelare la propria immagine.

Il "Vook", sintesi multimedia tra video e book, interfaccia libro, internet e social network. Il 'keitai shosetzu' in Giappone è chiamato un romanzo scritto su telefonino, l'articuento' nato in Spagna da Juan Josè Millàs è fruibile solo via sms sui cellulari.
Su Twitter è nata - o pensi che possa nascere - una nuova forma di narratività? Intendo qualcosa che, sganciata dall'informazione, possa puntare a esiti estetico-letterari?

Ci sono stati già numerosi esperimenti in questo senso. Tra gli ultimi 128battute, raccolta di Feltrinelli che ha generato un libro, o Il Sole 24 Ore, per il suo sito web. Personalmente non li ritengo eccezionali, ma hanno avuto un certo impatto e non è detto che siano soltanto la testa di ponte di una nuova forma di espressione letteraria.

"Non riesco a capire perché le persone siano spaventate dalle nuove idee. A me spaventano quelle vecchie", così diceva John Cage.
Perché in molti hanno paura delle tecnologie e delle nuove forme di comunicazione da esse governate? Da dove viene quel panico?

La paura viene dall'ignoranza, dal non comprenderne la portata, pensando alle minacce e non alle opportunità che la tecnologia comporta. Una sorta di ansia dovuta alla paura di perdere il controllo e venire travolti. Forse dietro c'è una paura di perdere potere o doversi mettere in discussione.

Per una scheda sul libro: CLIC!

Luca Conti
“Comunicare con Twitter”
Prefazione di Luca De Biase
Pagine X – 326
Euro 24.90, su sito editore 19.92
Hoepli


Carlo Ludovico Ragghianti


Nel 2010 ricorrono i cento anni della nascita di Carlo Ludovico Ragghianti (Lucca 18 marzo 1910 – Firenze 3 agosto 1987), studioso e critico d’arte.
Laureatosi con Matteo Marangoni alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove insegnò poi fino al 1972, negli anni della Seconda Guerra Mondiale Ragghianti partecipò, in prima linea alla Resistenza e alla lotta contro il fascismo.

Fu tra i fondatori del Partito d’Azione, presidente del CLN toscano e capo del Governo provvisorio che l’11 agosto 1944 liberò Firenze. Sottosegretario al Ministero delle Arti e Spettacolo durante il Governo Parri, anche successivamente si occupò di problemi istituzionali inerenti alla riforma universitaria, la formazione dei docenti e la tutela del patrimonio artistico. Importante inoltre fu il suo impegno per l’introduzione dell’insegnamento della storia e critica del cinema nelle Università italiane che lo vide fondatore, nel 1950, dell'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Pisa, divenuto poi l'attuale Dipartimento di Storia delle Arti. I suoi numerosissimi lavori scientifici dedicati a tutte le manifestazioni del linguaggio visivo, sono tuttora attuali e di fondamentale interesse per studenti e studiosi.

Fra le iniziative promosse, nel 1980 ha fondato a Lucca il Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, divenuto poi Fondazione nel 1984, anche per volontà delle Istituzioni e degli Enti privati e pubblici che vi aderirono.
Alla direzione troviamo negli anni una galleria di nomi importanti di critici d’arti visive; adesso si distingue per competenza e operosità Maria Teresa Filieri.
Dal 2008 la Fondazione ha avviato laboratori didattici e creativi tesi ad avvicinare all’arte contemporanea i ragazzi dalle scuole materne fino alle superiori.
La Fondazione, inoltre, organizza periodicamente incontri e conferenze. Ha curato, ad esempio, il ciclo di appuntamenti “Le arti e il mondo delle immagini tra XX e XXI secolo” e una serie di proiezioni dedicata ai Critofilm di Ragghianti.

Tante le occasioni in cui grandi temi e grandi personaggi delle arti contemporanee sono stati presentati alla Fondazione. Per riferirmi solo ai più recenti: la più completa rassegna dedicata in Italia a Jonas Mekas; un'imponente mostra sul ritratto nella fotografia del XX secolo: Faces; "Passaggi", un'antologica delle video-installazioni di Robert Cohen.
Né è mancata attenzione agli artisti emergenti, ad esempio, attraverso il LookAt Festival.

Tutta la Fondazione è mossa da un affiatato gruppo di lavoro che vede agire nello strategico ruolo di rapporti con i media Elena Fiori; per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web: 0583 – 46 72 05; mail: elena.fiori@fondazioneragghianti.it


Itali@rte

Nel titolo di questa nota è citata una tra le più consolidate realtà italiane tra i festival della danza, Itali@rte giunge, infatti, quest’anno alla XXIV edizione consecutiva.
E’ ideata e realizzata dall’Ente di promozione dello spettacolo dal vivo Mediascena diretta da Danilo Esposito.

La rassegna presenta otto spettacoli che spaziano attraverso temi scenici e stili che, pur diversi fra loro, sono apparentati dalla nuova ricerca dei rapporti del corpo con lo spazio, la luce, la musica.
In quest’edizione largo spazio è riservato al flamenco. Un tempo danzato nella zona dell'Andalusia, oggi fa parte della cultura e della tradizione musicale spagnola; dalla seconda parte dell'Ottocento, infatti, il flamenco ha attraversato i confini iberici venendo rappresentato in tutto il mondo e, in questi ultimi tempi, sta conoscendo un momento di particolare fortuna.

Tra le altre interessanti proposte alla ribalta, scelgo tirannicamente di segnalarne una in particolare perché mi sembra particolarmente innovativa e frizzante: “Paracasoscia” presentata dalla Botega Dance Company. Di che cosa si tratta? Ce lo spiega il coreografo Enzo Celli che è anche direttore artistico della Compagnia: “Paracasoscia” (‘Sembra che soffi’) è un carosello delle arie più celebri che dal mondo della lirica ’soffiano’ verso il pubblico travolgendolo con un linguaggio contaminato tra break dance e arti circensi. Paracasoscia vuole procedere “soffiando via” il peso del tempo. Uno spettacolo che rivisita lo splendido patrimonio lirico nazionale, soprattutto verdiano e rossiniano, con un linguaggio giovane, energico e vigoroso.

Per il cartellone, cliccare QUI


Itali@rte ‘10
Istituto Nazionale di Studi Romani
Piazza Cavalieri di Malta 2, Roma
Info: 06 – 84 13 192
Inizio spettacoli ore 21:15
Dal 20 al 29 luglio ‘10


Scienza e fede


Scriveva Albert Einstein in una lettera a Max Born del 4 dicembre 1926: “Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato”. Ecco un buon esempio di umiltà (forse perfino eccessiva) che manca completamente fra i credenti, specie se monoteisti. Costoro, infatti, su di un episodio favolistico, quindi, del tutto inverificabile, pretendono di conoscere il mondo, le sue leggi fisiche, morali, sociali e, quel che è peggio, imporle anche a chi non crede.
Il contrasto fra scienza e religione sta tutto qui.

Un gran bel libro – Edizioni Dedalo – che esamina i rapporti proprio fra scienza e religione (soprattutto quella cristiano-cattolica), lo ha scritto Mario Grilli intitolandolo Gli scienziati e l’idea di Dio Pensiero scientifico e religioso a confronto.
L’autore è stato professore ordinario di Fisica generale presso l’Università «La Sapienza» di Roma. Ha condotto ricerche nel campo delle particelle elementari e in storia della fisica. È autore di diverse opere sia a carattere didattico sia divulgativo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “Imago mundi: rappresentazione del mondo da Aristotele ai nostri giorni” (2008); nelle Edizioni Dedalo, nel 2002, è uscito Oltre l'atomo.

Scrive Carlo Bernardini in prefazione: “... in fondo non è irragionevole presentare la fede come una necessità psicologica, una rassicurazione a buon mercato che ha origini storiche nella paura, nel bisogno di protezione, nel rifiuto della morte. Se serve a dormire meglio non farà più male della camomilla. Ma se addormenta anche il dubbio su ciò che veramente conosciamo del mondo, allora un certo danno lo fa: la civiltà, la cultura sono un continuo superamento dell’ingenuità del pensiero, il che si produce proprio nello scontro tra i dubbi e la ragione. Scienza è soprattutto questo”.

A Mario Grilli ho rivolto alcune domande.
Lei, con grande civiltà, per tutto il libro usa un linguaggio attento a non turbare il lettore, eventualmente credente. Ben diverso il comportamento linguistico (dai testi delle Scritture a quelli giornalistici di oggi) dei cattolici e, in generale, dei monoteisti.
Perché da quelli una scelta linguistica tanto violenta?

Il tono del mio discorso origina dalla lunga attività di ricerca scientifica, che mi ha insegnato a valutare opinioni e posizioni culturali diverse dalle mie. I toni "da crociata" di alcuni "monoteisti" derivano spesso dalla presunzione di possedere verità definite o, meglio, dal voler far credere che si possiedono tali verità.

Concludendo il suo libro, lei si sofferma sulla possibilità della convivenza tra il "ricercare" e il "credere". Ma possono stare sullo stesso piano?

Ricercare e credere riescono a convivere solo se – come ho scritto nel mio libro – "queste due attività vengono mantenute su piani differenti. Inoltre, non deve sussistere alcun presunto senso di superiorità del pensiero religioso su quello razionale, solitamente generato dalla falsa convinzione che quest'ultimo sia parziale e insufficiente a spiegare la realtà del mondo".

Qual è il significato positivo sul quale riflettere oggi di un'etica senza dio?

Riguardo all'influenza prodotta dalle religioni sull'etica sociale e individuale, mi sembra si possa dire, sinteticamente e amaramente, che millenni dominati dalle religioni monoteiste non hanno modificato il comportamento profondo dell'uomo. L'affermarsi di una etica laica porterebbe l'uomo a vivere in un mondo migliore dell'attuale (ci vuole poco!), in cui si agisce in base a intime convinzioni proprie e non alla minaccia di castighi o la lusinga di premi dopo la morte. Un tale clima aiuterebbe, inoltre, l'uomo a costruire una visione scientifico-razionale della realtà.

Per una scheda sul libro: QUI.

Mario Grilli
“Gli scienziati e l’idea di Dio"
Prefazione di Carlo Bernardini
Pagine 112, Euro 13.50
Edizioni Dedalo


Metamorphosis


Nonostante siamo ancora in estate, con gotico anticipo è già al via la V edizione del Festival Autunnonero.
E’ per domenica 18 luglio alle 18:30, infatti, ad Isolabona l’avvenimento inaugurale di questo Festival Internazionale di Folklore e Cultura Horror.

L’edizione 2010 è dedicata al tema “Metamorphosis. Miti, ibridi e mostri”.
Ignoro dove gli organizzatori sia siano riforniti di Miti (probabilmente all’estero), ma sono certo che degli altri due soggetti si saranno serviti in Italia perché noi di Ibridi e Mostri aBONDIamo.
Festival sopravvissuto – e ne ho gran piacere perché lo merita – all’estinzione di tante iniziative falciate dai tagli ai fondi destinati alla cultura apportati con sensibile tempestività dai nostri governanti; perché, come recita un vecchio proverbio, “Un Bondi al giorno toglie la cultura di torno”.
Il merito della sopravvivenza di questo Festival – direzione artistica di Andrea Scibilia, va detto, non dipende da un momento di distrazione del Ministero dei Beni Culturali, bensì dal patrocinio e il contributo di: Regione Liguria, Comune di Isolabona; Main Sponsor: Antico Frantoio, Tipolitografia Bacchetta.

L’appuntamento, quindi, repetita iuvant, è per domenica 18 luglio, a partire dalle 18:30.

Per il programma, cliccare QUI.

Per informazioni: info@autunnonero.com

Ufficio Stampa: Agenzia Freelance, info@agfreelance.it
Natascia Maesi: 335 – 19 79 414
Eleonora Sassetti, 335 – 19 79 742


Sonus Loci


E’ questo il titolo di un itinerario acustico-visivo allestito da radioPAN, la radio del Palazzo Arti Napoli.
L’originale iniziativa è promossa dall'Assessorato alla Memoria della Città in collaborazione con l'Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli e prodotto appunto dal PAN.
L’ideazione e la realizzazione del progetto è dovuto a Rita Chiliberti, Alessandro Inglima, Stefano Perna, e s’avvale della supervisione di Marina Vergiani.
Il logo (in foto ) della manifestazione è realizzato rielaborando un'illustrazione di Leonardo Coen Cagli.

Per saperne di più su “Sonus Loci”, mi sono rivolto a Stefano Perna.
E’ dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione all’Università di Salerno. Ha pubblicato saggi su design, teoria dei media e cultura visuale per diverse case editrici (Cronopio, Plectica, Meltemi, Liguori, Alos). Attualmente svolge attività di ricerca post-dottorato e si occupa di media digitali. Dal 2009 è curatore associato per i nuovi media, webradio e archivi digitali e multimediali del Centro di Documentazione del PAN - Palazzo delle Arti Napoli.
Cosmotaxi, tempo fa, ha ospitato un suo intervento sul nuovo ruolo recitato dalla radio nello scenario dei media oggi; lo ricordo fra i più interessanti che ho registrato su quel tema, ve ne consiglio la lettura cliccando QUI .

A lui ho chiesto: come nasce “Sonus loci”? Che cosa si propone?

“Sonus Loci” è un progetto a puntate nato con l'obiettivo di arrivare a costruire una sorta di "via dei canti" con la quale attraversare acusticamente la città di Napoli. L'elemento centrale è costituito da una voce narrante che di volta in volta è chiamata a raccontare un luogo (un edificio, una strada, un quartiere...) della città mescolando memoria collettiva e ricordi personali; poi ci sono i field recordings, ossia registrazioni dei suoni ambientali dei luoghi di cui si parla e la musica. L'idea finale sarebbe quella di riuscire a sfruttare la mobilità consentita dal podcasting: ci auspichiamo che gli ascoltatori, napoletani o forestieri in visita, scarichino le puntate sui loro lettori mp3 e li vadano ad ascoltare passeggiando per strada….

radioPAN rispetto ad altre radio esistenti in Italia all'interno di luoghi museali, in che cosa si distingue? Quale la sua particolarità?

Potrei dire che ciò che distingue radioPAN è una diretta conseguenza della struttura di cui la radio fa parte e di cui è emanazione, ossia il Centro di Documentazione dei linguaggi del contemporaneo del PAN. Come il direttore Marina Vergiani ama spesso sottolineare, il PAN non è un museo di arte contemporanea stricto sensu, ma piuttosto un centro multifunzionale per la ricerca, la diffusione, l'esposizione e soprattutto la documentazione dei linguaggi, non solo "artistici", della contemporaneità. In questo senso radioPAN trova una sua peculiare caratterizzazione proprio in questa dimensione di archivio, documentazione dell'uso e dello sviluppo dei linguaggi espressivi più diversi: dalla fotografia al teatro, dall'urbanistica al sound design, tutto questo cercando di usare il suono come strumento principale. E poi c'è l'apertura alla città, al suo vissuto culturale in senso ampio: radioPAN non si limita infatti a documentare ciò che accade o che viene prodotto all'interno delle mura del PAN, ma tenta di estendere il più possibile il suo raggio d'azione, cercando di utilizzare al massimo una logica di rete con altri operatori culturali del territorio.

Hai poco fa pronunciato la parola “archivio”. Vorrei che ti soffermassi su questo concetto e sul modo in cui è interpretato da radioPAN…

La centralità della documentazione trova nella dimensione dell'archivio la sua naturale espressione; radioPAN è infatti soprattutto un archivio acustico in espansione continua. Questo ha a che vedere anche con una più generale riflessione sulle trasformazioni del medium radiofonico nel suo passaggio al digitale e alla rete. A meno di non voler replicare la radio tradizionale via etere, le webradio sono soprattutto questo: al modello del palinsesto e del flusso continuo sul quale sintonizzarsi si sostituisce, almeno questa è la via scelta da radioPAN, quello dell'archivio in cui cercare, navigare e in un certo senso anche perdersi. Tutto è disponibile on-line: è una radio customizzabile, in cui ognuno costruisce il proprio palinsesto e i propri tempi di ricezione. E' anche per questo che radioPAN fa un uso molto limitato dello “streaming” preferendo un'operazione di selezione e filtraggio dei materiali d'archivio del Centro di Documentazione e più in generale dell'enorme quantità di elementi già disponibili nel mega-archivio che è la rete.


Cliccando QUI è possibile ascoltare suoni, parole e sensazioni lungo il percorso di “Sonus Loci” contenute in podcast.


Poesia dell'Universo

Quando ho finito di leggere Il libro che mi accingo a presentare oggi, mi è tornato alla mente un aforisma di Fernando Pessoa: “Il binomio di Newton è bello come la Venere di Milo. Il fatto è che pochi se ne accorgono”.
Un malinteso senso della Bellezza porta molti a consegnarsi a estenuanti file davanti a musei, a faticose letture di opere letterarie, all’assistere a impegnativi spettacoli teatrali, ma a escludere dallo studiare o a incuriosirsi a quanto la matematica propone sulla scena dei saperi e della godibilità estetica prodotta dall’ingegno umano.
Il libro cui mi riferisco l’ha pubblicato l’ottima Longanesi; titolo: Poesia dell’Universo L’esplorazione matematica del Cosmo; autore: Robert Osserman. E’ professore di matematica alla Stanford University e direttore del Mathematical Sciences Research Institute a Berkeley; ha scritto un imponente numero di articoli scientifici e conferma con questo volume le sue doti di didatta che gli hanno fatto guadagnare il prestigioso Dean’s Award for Outstanding Teaching.

Perché tanti studenti arretrano atterriti di fronte allo studio della matematica? Se lo chiesero un giorno Osserman e altri suoi colleghi della Stanford University, arrivando alla conclusione che la colpa era soprattutto dell’insegnamento. Se lo chiesero alla Stanford University… figuriamoci a quale rischio d’infarto sarebbero andati incontro se quella stessa domanda se la fossero posta in Italia afflitta da sempre dall’impostazione data ai programmi da Giovanni Gentile prima, competentemente peggiorati poi nei decenni successivi fino ad arrivare ai giorni nostri con la spensierata Gelmini la quale è riuscita a iscrivere le sue riforme nella storia del Varietà.
Dal programma d’insegnamento che Osserman fece seguire dopo aver costatato l’inefficienza dei programmi precedenti, nasce quest’affascinante libro che ci porta ad esplorare il mondo, dalle prime misurazioni della Terra nell’antichità fino alle più avanzate teorie cosmologiche di oggi. Ci fa assistere a creazioni bizzarre, a conoscere sorprendenti figure di scienziati.
Del resto, tutto ciò che ci circonda e usiamo quotidianamente è fatto di numeri: dal Bancomat alle conversazioni col cellulare, dal navigatore satellitare alle macchine fotografiche digitali, dalle più recenti attrezzature mediche che analizzano il nostro corpo alle mail che ci scambiamo, dalla musica che ascoltiamo nei compact disk ai film che vediamo nei Dvd... già, l'arte
Che cosa accade nelle nuove arti visive, negli effetti speciali di tanto teatro, di tanto cinema, di tanta musica?
Un giorno lo chiesi, durante un’intervista, all’amico Piergiorgio Odifreddi che così mi rispose: Tutta l'elettronica, e in particolare l'arte elettronica, è una riduzione del mondo ai bit, e dunque ai numeri 0 e 1. E' una versione moderna del pitagorismo, che sosteneva che "tutto è numero". Se Pitagora aveva ragione, l'elettronica è un ritrovamento della sua vera essenza numerica. Io tendo a condividere questa idea di Pitagora, che l'essenza dell'universo sia di natura numerica. L'essenza della vita è informazione, e l'informazione è riducibile ai numeri.

Ed ora un aneddoto riportato da Osserman in Poesia dell’Universo.
Un giorno il grande matematico David Hilbert notò che un certo studente aveva smesso di frequentare le sue lezioni.. Quando gli venne riferito che aveva deciso di abbandonare la matematica per diventare poeta, Hilbert rispose: “Ha fatto bene. Non aveva abbastanza immaginazione per fare il matematico”.

Concludendo, un libro che apre plurali orizzonti questo di Osserman, un discorso scorrevolissimo che c’illumina sul come e sul perché la matematica ci aiuta a conoscere la complessità delle cose, a spiegare noi a noi stessi.

Per una scheda sul libro: QUI.

Robert Osserman
“Poesia dell’Universo”
Traduzione di Libero Sosio
Settanta illustrazioni
Pagine 208, Euro 17.00
Longanesi


Il mare di mezzo


Quel mare è il Mediterraneo.
E’ diventato una tomba d’acqua come documenta Fortress Europe, Osservatorio sulle vittime dell’emigrazione fondato nel 2006 da Gabriele Del Grande.
“Giorno per giorno” – com’è scritto su quel sito web – “quel mare è divenuto una grande fossa comune, nell'indifferenza delle due sponde del mare di mezzo. Dal 1988 almeno 14.995 giovani sono morti tentando di espugnare la fortezza Europa. Ne abbiamo le prove. Sono migliaia di articoli recensiti negli archivi della stampa internazionale. Potete consultarli per area geografica e per anno di pubblicazione.”

Gabriele Del Grande, nato a Lucca nel 1982, si è laureato a Bologna in Studi Orientali. Scrive su L’Unità, Redattore Sociale, Peace Reporter e collabora con Lettera27.
Giornalista di razza, ha pubblicato, per le Infinito Edizioni, due grandi inchieste: Mamadou va a morire e Roma senza fissa dimora.

Il suo più recente titolo, è Il mare di mezzo Al tempo dei respingimenti - volume uscito con il patrocinio di Amnesty International, di Asgi, di Cric.
Si tratta di una coraggiosa esplorazione sulle due sponde del Mare Mediterraneo lungo le rotte dei viaggiatori di ieri e di oggi, di donne, uomini e non di rado bambini che cercano un futuro e si trovano alla mercé di feroci mercanti, di terribili carcerieri e crudeli accordi internazionali, come quello tra Italia e Libia.
Tre anni d’inchieste costati all’autore un’espulsione dalla Tunisia e l’iscrizione nella lista nera dei servizi segreti di più paesi africani e non solo africani.

A Gabriele Del Grande, ho chiesto: qual è il principale motivo che ti ha spinto – com’è tuo tradizionale impegno d’inchieste in tanti drammatici problemi dei nostri giorni – a occuparti di ciò che accade nel mare di mezzo?

Sempre più è necessario raccontare. Raccontare la realtà. E se è vero per tutti i temi del giornalismo lo è in particolare per il tema della frontiera. Il Mediterraneo è diventato una fossa comune, luogo di quotidiane stragi alle porte d’Europa che non indignano più nessuno. I pescatori siciliani e tunisini finiscono in galera dopo aver salvato la vita ai naufraghi al largo di Lampedusa. I giovani eritrei e somali sono respinti in Libia e mandati a marcire nelle galere libiche nelle mani di una polizia abituata a torturare e a violare. E anche sul fronte interno l’Italia è teatro ogni giorno di retate, di arresti e di espulsioni, che non colpiscono criminali come si vuol far credere, quanto piuttosto lavoratori onesti che vivono da anni in questo paese e che un bel giorno si vedono mandare via, magari con moglie e figli che rimangono qui in Italia, e quindi con una famiglia che viene divisa in due. Raccontare le loro storie, in modo approfondito, dopo tre anni di viaggi e di inchieste lungo tutta la frontiera Mediterraneo, serve a restituire un elemento in più alla costruzione dell’opinione pubblica su questi temi, e allo stesso tempo serve a ridarci umanità, a restituirci la consapevolezza che di uomini e donne stiamo parlando, e non di “clandestini”, motivo questo per cui in tutto il libro non pronuncio mai la parola “clandestino”, ma nemmeno “immigrato” o “rifugiato”. I nomi propri sono più che sufficienti. E l’intreccio delle loro storie, fa la Storia con la s maiuscola di questi anni di politiche razziste in tutta Europa.

Come spieghi che nonostante la ferocia dei traghettatori, in tanti accettino di correre il rischio di morire pur d’arrivare nel nostro inospitale paese?
Da quali condizioni provengono questi migranti?

La risposta è semplice, ed è che non si può privare l’essere umano della libertà di movimento. Soprattutto dove esiste un mercato del lavoro che chiede fortemente l’ingresso di molte persone dall’estero. La gente viaggiava, viaggia e viaggerà. Se però l’Italia e l’Europa rendono impossibile prendere un visto regolare in ambasciata, è normale che qualcuno proverà a attraversare il mare o a passare via terra senza un documento. Sanno che è pericoloso, ma evidentemente hanno abbastanza coraggio per sfidare la sorte, puntando lo sguardo ai sogni che inseguono piuttosto che ai rischi che attraversano. Da quali condizioni partono? C’è di tutto. Ho incontrato contadini analfabeti e giornalisti plurilaureati. Disertori dell’esercito e profughi di guerra. Ragazzi adolescenti all’avventura e pensionati. Uomini e donne e bambini. Oppure italiani. Italiani tra virgolette intendo, gente che in Italia aveva vissuto vent’anni e che dall’Italia era stata espulsa e tornava a salire su una barca per riprendere le redini della propria vita, che era in Italia ormai e non più in Tunisia.

Puoi, in sintesi, tracciare la principale differenza che segna i viaggi migratori di ieri da quelli di oggi?

Ci sono tante cose in comune e tante cose diverse. Forse la principale differenza è che oggi il mondo è molto più piccolo. Chi parte non dice addio ai propri cari, perché sa che ritornerà, magari ogni anno, in vacanza, con un treno o un low cost. Ormai il mondo è piccolo e collegato bene. A poter viaggiare bene però sono solo i turisti del ricco nord. Chi nasce nei paesi poveri deve prendersi il rischio e sperare che vada bene.

Gabriele Del Grande
“Il mare di mezzo”
Pagine 256, Euro 15
Infinito Edizioni


Unitube - Unical

Per difendere il paesaggio in Calabria, gli studenti raccontano per immagini errori e orrori commessi sul loro territorio.
L’iniziativa nasce presso l’Università della Calabria (che ha il merito d’ospitare il progetto sul proprio sito web) ed è dovuta all’antropologa Paola De Sanctis Ricciardone docente di Storia della Cultura Materiale alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Rende.
Ecco come è presentata la proposta già in corso di realizzazione.

Secondo il Sistema Informativo Turistico della Regione, la presenza media di turisti in Calabria ha registrato una flessione nel 2009 di circa il 2% rispetto all’anno precedente. Il dato più sconfortante riguarda la loro permanenza: da 6.8 giorni nel 2008 a 6.6 giorni nel 2009. Per di più si è registrato un calo soprattutto delle presenze straniere (circa il 10%). Allora viene da chiedersi a cosa servano i milioni e milioni di metri cubi di cemento che sfigurano i paesaggi calabresi e la micidiale corsa al consumo del suolo che non sembra rallentare neanche davanti a dissesti idrogeologici, frane, inquinamento estetico, desertificazione. La Regione Calabria nel documento “Urbanistica e tutela del territorio” del gennaio 2010 segnala un territorio martoriato da 800 milioni di metri cubi di fabbricato (400 per ogni abitante), a fronte di una popolazione in tendenziale calo demografico.
Gli ultimi dossier di Legambiente (“Tutti giù per terra”, 22 maggio 2009; “Mare Monstrum”[, 26 giugno 2009) mostrano in dettaglio la disastrosa situazione dei territori calabresi. E non è solo responsabilità della malavita, che magari si occupa di ecomostri, di medie e grandi operazioni speculative. La devastazione del paesaggio è prevalentemente dovuta ad azioni dal basso, ad una disseminazione anarcoide di strade, sfregi ambientali, piccoli e grandi abusi, orride concatenazioni cementizie senza alcuna fisionomia urbanistica e storica […] Michael Herzfeld, in un saggio del 2006 dedicato ai processi di occidentalizzazione degli spazi, fa un parallelo tra “pulizia etnica” e “pulizia spaziale”: quasi che cancellare le tracce materiali del passato, attraverso la rimozione di quell’”orientalismo” urbanistico degli antichi centri storici, fatto di vicoli, mercati rionali, architettura vernacolare, corrisponda ad un riscatto sociale, ad un’adesione all’”occidentalismo”. Insomma, errati concetti di modernizzazione hanno portato ad una sorta di analfabetismo visuale, etico ed estetico, che non fa riconoscere, nel comune sentire, quei valori storici e paesaggistici locali, quei “patrimoni” che potrebbero portare verso forme dignitose di autorappresentazione, oltre che a strategie di sviluppo efficaci e sostenibili.
Il sito “Unitube” a cura della Cattedra di Storia della Cultura materiale, che la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria ha benevolmente voluto ospitare nella sua homepage, vuole offrire un piccolo spazio di risposta all’indifferenza nella quale si sta consumando la tragedia paesaggistica in Calabria. Qui si può vedere una prima tranche di contributi, dove gli studenti raccontano per immagini il proprio paese con passione ed ironia, facendoci così ben sperare in una controtendenza nel futuro.
Ma il sito vuole aprirsi presto anche a contributi del corpo docente e di altre realtà regionali: la ‘colata’, infatti, non conosce confini, non è federalista né separatista, e sta stravolgendo il nostro intero Belpaese
.

QUI i primi video pervenuti.


Il Papa non deve parlare


Il titolo non spaventi i baciapile. Il libro che sto per segnalare non è un incitamento a far tacere oggi il Papa, anche se, in molti casi, qualora così fosse, rappresenterebbe verso il Pontefice un atto d’amicizia onde evitare dica cose che non troppo giovano a lui e ai credenti che rappresenta. No, il Papa in questione non è Ratzinger bensì Pio XI, e il perentorio invito gli proviene da Mussolini e dai suoi compari. Modi spicci per zittirlo, infatti, si verificarono al tempo dell’aggressione italiana all’Etiopia, quando il Papa manifestò avversione alla guerra fascista contro l’Impero cristiano di Haile Selassie.

E’ questo il tema del libro Il Papa non deve parlare Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, pubblicato da Laterza; in copertina l’immagine di una cerimonia svoltasi a Guidonia nel 1937 che vede monsignor Bartolomasi esibirsi in un ispirato e competente saluto romano.
A scrivere questo saggio è una tra le più valorose storiche italiane della più recente generazione: Lucia Ceci.
Insegna Storia contemporanea all'Università di Roma Tor Vergata.
Ha svolto studi in Perù, Francia e Belgio concentrando le proprie ricerche su temi che ruotano attorno al nodo dei rapporti tra religione e politica nel Novecento, studiando in particolare alcuni momenti del caso latinoamericano e italiano.
Tra le sue opere: Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903 - 1924) (Carocci, 2006); La teologia della liberazione in America latina. L'opera di Gustavo Gutiérrez (Franco Angeli, 1999).

La prefazione è firmata da Angelo Del Boca, ospite nel febbraio di quest’anno in Cosmotaxi quando uscì il volume La storia negata che, tra gli studiosi intervenuti in quelle pagine collettanee, vede un intervento della stessa Lucia Ceci di cui parliamo oggi.
Scrive Del Boca: “Bisogna convenire con Lucia Ceci, che ha fatto ampi e fortunati scavi documentari, che tutti i tentativi operati da Pio XI per impedire a Mussolini di realizzare il suo folle progetto di aggredire e conquistare uno Stato sovrano come l’Etiopia furono velleitari”. Accadde, quindi, che “Il Vaticano” – ancora Del Boca – "portò avanti una linea di legittimazione delle imprese imperiali rinunciando a intervenire persino dinanzi a gravissimi episodi come l’uso di armi chimiche o il tentativo di azzerare i vertici della Chiesa etiopica con il massacro di 2.000 abitanti della città conventuale di Debra Libanos”.

A Lucia Ceci ho rivolto alcune domande.
Perché hai scelto d’occuparti proprio dei legami tra Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia? Quale particolare interesse storico riveste per te quel momento della politica vaticana?

Sul piano personale mi ha sempre appassionato l’azione multiforme della religione cattolica nell’agire politico. Anche i miei libri precedenti ruotano intorno a questo nodo, pur essendo dedicati a momenti storici e contesti geopolitici diversi.
Attraverso il conflitto italo-etiopico mi interessava capire e raccontare come la Chiesa cattolica, nelle sue diverse articolazioni, avesse affrontato il fascismo, la guerra coloniale, la delicatissima situazione internazionale, i linguaggi della nuova politica, il razzismo. Era uno snodo su cui lavoravo da qualche anno, ma c’è stata un’accelerazione decisiva dopo l’apertura nel 2006 dell’Archivio Segreto Vaticano alla consultazione delle fonti relative al pontificato di Pio XI. Le carte riservate del papa e dei suoi più stretti collaboratori hanno portato alla luce scenari inediti, mostrando una forte contrarietà del pontefice alla guerra di aggressione fascista. Una contrarietà che però non riuscì a tradursi in prese di posizione pubbliche di denuncia
.

Cambiano i tempi, cambiano i linguaggi diplomatici, cambiano i Papi.
Rispetto a quanto preso in esame nel tuo volume, esistono ancora oggi, sia pure in nuove forme, elementi di continuità nel rapporto fra Vaticano e Stati autoritari governati da cattolici?

La questione continuità/discontinuità è uno dei grandi nodi intorno cui si costruisce e si dibatte la storia del cattolicesimo del Novecento. Il legame esistente tra la Chiesa e il fascismo non fu solo il frutto di una reciproca strumentalizzazione, ma fu più intimo e sostanziale. Si fondò su consonanze essenziali e nemici comuni: il culto dell’autorità, il bisogno di disciplina, la diffidenza per ogni forma di discussione costituirono i pilastri di una sintonia rafforzata dalla percezione dell’esistenza di nemici comuni come la massoneria, l’anglicanesimo, il liberalismo, il comunismo. È impensabile individuare oggi in quegli stessi punti consonanze e avversari comuni in quanto trasformazioni cruciali hanno investito la società e la Chiesa. Ma è vero che la prospettiva di modellare la legislazione civile secondo regole peculiari della religione cattolica – fondamentale nucleo di continuità nel magistero pontificio – ha indotto a stabilire rapporti preferenziali con quei governi, generalmente di destra, più propensi ad accogliere rivendicazioni in tal senso.

Se esistono elementi di discontinuità, in che cosa li identifichi?

La discontinuità riguarda l’idea, che si afferma, lungo un itinerario tortuoso e tormentato, ma inesorabile, a partire dal celebre radiomessaggio di Pio XII del Natale 1944, che i sistemi democratici siano da preferire a quelli autoritari. Riguarda poi la condanna della violenza bellica, che diventa un tema centrale nell’insegnamento dei pontefici, soprattutto dopo la messa in causa della dottrina tradizionale della «guerra giusta» da parte di Giovanni XXIII nella nota enciclica “Pacem in terris” (1963). Certo, non si è pervenuti a una negazione assoluta della liceità morale della guerra e si è lasciata aperta, attraverso gli interstizi di alcuni documenti, la legittimità della guerra di difesa, su cui ad esempio si sono appuntati i cattolici americani, nel 1991 e nel 2003, per giustificare, contraddicendo il papa, gli attacchi all’Iraq. Tuttavia è innegabile che i costanti interventi di Giovanni Paolo II contro la guerra, gli incontri per la pace promossi su sua iniziativa abbiano contribuito a eliminare tra i cattolici la possibilità di giustificare la violenza bellica in nome di Dio.

Per una scheda sul libro e l’Indice: CLIC!

Lucia Ceci
“Il papa non deve parlare”
Prefazione di Angelo del Boca
Pagine 288, Euro 20.00
Editori Laterza


Decameron Pop !

Tempo d’estate, tempo di Festival.
Grazie ai vigorosi tagli apportati con tempestiva sensibilità da questo governo ai finanziamenti alla cultura, molte iniziative - naturalmente quelle di migliore qualità - più non esistono. Come dice un vecchio proverbio: "Un Bondi al giorno toglie la cultura di torno".
Inoltre, c'è da mettere in conto che fra quelle sopravvissute c'è parecchio grigiore, troppa ripetitività, troppa supponenza.
Ecco perché oggi ho deciso di segnalare un Festival che, invece, è imperniato su di un’idea frizzante e originale, “colta e non culturale” – come Angelo Guglielmi definiva le cose che preferiva sulle scene e in tv – insomma lontano dalla cultura come noia e vicino all’idea di cultura come gioia.
Si chiama Decameron Pop!… come dite?... sì, sono d’accordo con voi, il punto esclamativo potevano risparmiarselo; chi ha ideato il tutto, però, sostiene che conferisce vitalità all’evento. Sarà. Per me, ha più vitalità il punto interrogativo. In questo caso, bastava, forse, “Decameron Pop”.
Sia come sia, i dieci giorni di spettacoli, in rima con le dieci giornate narrate in quel capolavoro del Trecento italiano (cliccate QUI e apprenderete anche della persecuzione operata dal Vaticano contro quell’opera meravigliosa del Boccaccio... a proposito, nell'Indice dei Libri Proibiti c'è il 'Decameron', però manca il 'Mein Kampf' di Hitler), si presentano ricchi d’inventiva spaziando tra più codici espressivi, proponendo una visitazione stereoscopica dei percorsi del nostro vivere oggi, delle dinamiche che lo attraversano, dei tic e dei tabù dei nostri giorni trasformati da chi è al comando del nostro paese in un’arcadia sanguinosa.

"Decameron pop!" è un progetto ideato da Nicoletta De Biasi, organizzato e realizzato assieme con Raffaella D’Angelo.
Impossessatomi in Questura delle schede segnaletiche delle due, le trascrivo qui.

Nicoletta De Biasi: laurea in Architettura, inizia il suo percorso artistico come scenografa teatrale e di eventi, grafica, designer e pittrice.
Raffaella D’Angelo: laureata in psicologia, con un master in interculturalità, ha esplorato i linguaggi del mimo e dell’espressività corporea, i temi dello psicodramma e del linguaggio scenico; collabora con associazioni culturali in qualità di performer teatrale e di formatrice. Fa parte del Collettivo Teatrale ISOLA_13.

A De Blasi e D’Angelo ho rivolto un paio di domande.
Le sentirete rispondere con una voce sola: prodigi delle avanzate tecnologie di cui a bordo dispone Cosmotaxi.

Com’è nata l’idea di “Decameron pop!”?

Il nostro intento è quello di promuovere il senso dell’Arte in modo non convenzionale. Progetti, quindi, che sappiano coinvolgere arti visive, fotografia, teatro, letteratura, musica, ballo e cuore. Progetti che possano coinvolgere la mente e l’anima del pubblico e che siano piacevoli momenti di riflessione sulla vita quotidiana.
Il Decameron di Boccaccio, con la sua spettacolare modernità, ci ha offerto un’ottima base sulla quale lavorare. I temi delle dieci giornate sono stati aggiornati, in maniera “pop!”, col punto esclamativo per marcare la vitalità dell’evento. Come nel Decameron le giornate saranno allietate da interventi teatrali, musicali, coreografici, reading e sorprese.
Performers, fotografi, scrittori, si faranno ispirare dai temi e dall’atmosfera proponendo i loro lavori. Una cornice conviviale dentro la quale rigenerarsi e raccontarsi!

Perché fra tanti autori che pure hanno dato struttura alle loro opere per giornate, o per altre scansioni orarie, la vostra scelta ha privilegiato Boccaccio?

Le novelle del Decameron colpiscono per la sorprendente varietà di personaggi descritti, di ambienti sociali e geografici, di situazioni e di atteggiamenti psicologici. L’Amore è il tema ricorrente, ma non manca la celebrazione della sagacia, della follia e della beffa. Il tutto rappresentato senza alcuna preoccupazione di ordine morale, con estremo realismo. Se si aggiunge che l’allegra brigata di giovani che fugge da Firenze trascorre le giornate tra canti, balli, conversazioni e piaceri, come un entusiasmante inno alla vita, la scelta per il Decameron è naturale e stimolante, una sfida e un omaggio. E’ un modello ante litteram di festival artistico-culturale!

Per conoscere giornata dopo giornata i temi trattati: CLIC!

Info e Ufficio Stampa: 328 – 65 75 999; folle.volo.info@gmail.com
www.follevolo.jimdo.com

“Decameron Pop!”
Spazio Libero
Via Cafiero 21, Milano
Dall’8 al 18 luglio 2010


Il buono in vigna

Anche quest’anno torna Il buono in vigna, manifestazione proposta da un grande dell’enologia italiana: Michele Chiarlo che si circonda di un gruppo , composto dai familiari e da altri collaboratori. I suoi vini, apprezzati in Italia e all’estero, nascono nei vigneti - estesi per 110 ettari - dislocati in tre aree piemontesi di produzione: Monferrato, Langhe e Gavi con i tre grandi vini bandiera: Barolo, Barbera e Moscato.
“Il buono in vigna” avrà il suo primo cin cin sabato 17 luglio; per conoscere il programma dettagliato: QUI.

Segue ora un breve incontro con Laura Botto Chiarlo che in azienda si occupa dei rapporti con i media. A lei ho rivolto alcune domande.

Qual è l’elemento che distingue un vino Chiarlo nello scenario enologico italiano?

Oserei dire lo Stile di riconoscibilità del vitigno con un’eleganza particolarmente invitante e complessa.

Qual è la cosa che quando bevete un vino (ben evidentemente non vostro) vi rende furiosi o, a scelta, vi fa venire la scarlattina?

Non è più ammissibile l’appiattimento di vini “ipermuscolosi”, “iperotondi” o… “body builder” costruiti per un consumatore o giornalista che non conosce la peculiarità di un grande terroir o vitigno.

Avete associato alle vostre vigne un parco artistico. Quando è nata l’idea, com’è stata realizzata, a quale principio vi siete ispirati nello scegliere gli artisti?

Inaugurato nell'estate del 2003 il parco a tema “Orme Su La Court” nasce da un'idea dell'Associazione O.R.M.E. su di un progetto dallo scenografo Emanuele Luzzati; il Parco è ubicato a Castelnuovo Calcea, circa 15 kilometri da Asti. Si tratta di un percorso d'arte nella scenografia naturale dei luoghi. Segue le “orme” dedicate ai quattro elementi fondamentali, traccia un itinerario tra sentieri, vigneti e cascine, punteggiato da installazioni colorate, sculture suggestive, opere d'arte che nascono e vivono nella natura.
Tutto ciò è stato realizzato anche da molti artisti/artigiani della zona, guidati dalla regìa di Giancarlo Ferraris. Il loro aiuto è stato determinante per integrare il tutto al paesaggio, far sentire, come volevamo, il loro lavoro, presente e attivo in ogni parte del territorio
.

All’interno della Cascina Castello esiste un archivio multimediale.
A quale tema è dedicato?

L'Archivio è dedicato a piemontesi che hanno lasciato un segno, un'impronta indelebile nel tempo. L'archivio si arricchisce di continuo con nuovi personaggi e con nuovi materiali ad essi dedicati. Un apparato multimediale consente ai visitatori approfondimenti sui vari personaggi.

Azienda Vitivinicola Chiarlo
Strada Nizza – Canelli
14042 Calamandrana (Asti)
Mail: info@chiarlo.it
Tel: (+39) 0141- 76 90 30
Fax: (+39) 0141 – 76 90 33


Il primo sorso


“Il primo sorso affascina, il secondo Strega”, così recitava uno slogan pubblicitario del famoso liquore che dà il nome a un altrettanto famoso premio letterario.
Lo slogan risulterebbe convincente anche se fosse usato con riferimento alla gara che si svolge ogni anno al Ninfeo di Villa Giulia, solo che qui andrebbe detto più lungamente (contraddicendo le leggi della sinteticità reclamata dal claim) che anche il terzo e il quarto – forse il futuro quinto – sorso (d’inchiostro nel caso del Premio) continua a stregare, ma non a stupire. Pochi giorni fa, infatti, per il quarto anno consecutivo, il gruppo Mondadori si è aggiudicato lo Strega.
Il vincitore, Antonio Pennacchi, dopo le frasi di rito e la comprensibile felicità espressa, ha, poi, dichiarato con scarsa prudenza: “State sempre a parlare dello strapotere delle case editrici, ma hanno votato il libro non l’editore”.
Eppure in molti ormai, scherzando s’intende, hanno proposto di cambiare il nome a quel celebre Premio, chiamarlo insomma non più “Strega”, ma “Premio Mondadori”.
C’è di più. C’è stato chi aveva previsto, non consultando tarocchi e sfere di cristallo, la vittoria di Mondadori… pardon!... di Pennacchi pur non facendone il nome: Raffaello Avanzini, editore dell’ottima Newton Compton, una casa che i suoi successi se li guadagna meritatamente con eccellente intuito, uno staff di prim’ordine, un Ufficio Stampa con i controfiocchi.
Intervistato da Maurizio Bono su Repubblica, il 22 aprile di quest’anno, Avanzini (uno che non la manda a dire) richiesto su come si svolgessero le cose al Premio Strega, dichiarò: Prendi l’elenco dei 400 e telefoni… si sa che metà dei votanti non vale nemmeno la telefonata. Ora l’elenco aggiornato finalmente è sul sito della Fondazione, e anche se in sostanza non cambia nulla, almeno è evidente: Mondadori ha potenzialmente tra 110 e 140 nomi di collaboratori a vario titolo delle varie case editrici del gruppo. Rizzoli tra 80 e 100. Per dare un’idea delle proporzioni, noi quando partecipiamo contiamo su un voto di mio padre Vittorio, che ce l’ha da 23 anni, e su 15-18 persone che hanno rapporti di lavoro con noi. Poi facendo pressing a seconda del libro, possiamo aggiungerne 10, 15.

L’intervista va avanti con Avanzini che snocciola altre cifre e considerazioni che portano il giornalista Bono a concludere quel suo articolo scrivendo: “La profezia è che la “lobby del presidente” – chi sarà mai quel Presidente? mi chiesi io – sarà di nuovo al centro delle strategie per cinquina e finale”.
Così è avvenuto, e quella strategia – per il quarto anno consecutivo, repetita iuvant – è stata vincente.

Pennacchi, il suo sarà senz’altro un libro valoroso, ma non sia ingrato fino a non riconoscere meriti anche al suo editore che tanto s’è battuto, ma proprio tanto, affinché le fosse riconosciuto il valore letterario che lei merita.
Conclusioni: ma se gli editori decidessero di non più partecipare allo Strega – Neri Pozza lo ha fatto, negandosi addirittura a tutti i premi di narrativa in Italia – lasciando che se la vedessero fra loro quelli lì? Che cosa cambierebbe?
Forse una cosa soltanto: svuotare di significato qualcosa che già ne ha di scarsi e vanificare pretese di scelte culturali che non sono tali.
Io non sono contro l’”industria culturale”, purché sia tale, anzi: avercene!
Ma da noi l’industria culturale non c’è, esiste solo un inaffidabile suk.


La Collezione Bellora


Nel 1971 il collezionista e gallerista milanese Gianfranco Bellora scriveva: Il mercante, il collezionista, i musei sono i termini di verifica del pensiero umano. Il resto, si sa, è cronaca .
Scomparso nel 1999, lasciò la gestione della propria raccolta alla moglie, l’artista Anna Spagna, la quale nel 2003 decise di donare circa 140 opere al Mart.
La collezione è dedicata alla poesia visiva e ai suoi maggiori esponenti: da Emilio Isgrò ad Adriano Spatola, da Lamberto Pignotti a Mirella Bentivoglio (di quest’ultima è qui in foto l’opera Il cuore della consumatrice ubbidiente).
Ora il Mart, ha allestito, con la direzione scientifica di Gabriella Belli direttrice del Museo (vanta oggi oltre duecentomila visitatori l’anno), l’esposizione What to do with Poetry La collezione Bellora al Mart, una ragionata panoramica – curata da Giorgio Zanchetti e Daniela Ferrari - che esplora l’opera di alcuni artisti impegnati nella ricerca verbovisiva italiana.

La storica dell’arte Vania Granata (QUI un suo breve saggio dedicato ai vertiginosi stravolgimenti della scrittura operati dal lettrismo), tempo fa, nel corso di un’intervista chiese a Lamberto Pignotti (artista in mostra al Mart) di dare una definizione della Poesia Visiva. Così le fu risposto: “La Poesia Visiva è una forma, una corrente artistica, che coniuga, in varia misura, il codice verbale a quello visivo. Mette ovvero in collegamento l’àmbito di quella che è la letteratura, la poesia, la narrativa, da una parte, con quello delle arti visive, pittura, disegno. Qualcuno potrebbe anche affermare che la poesia visiva è sempre esistita, dal momento che simili associazioni di parole e immagini si ritrovano spesso durante i secoli.
A quest’osservazione, io rispondo: sì, però c’è la consapevolezza che questi due codici – della parola e dell’immagine - quando entrano in funzione insieme, fanno sì che ciò che viene fuori - ovvero, l’oggetto artistico, l’opera d’arte - sia una cosa diversa dai codici di partenza; ecco, tale fatto non era stato molto ben compreso, in termini di consapevolezza... E neanche da qualcuno che era arrivato molto vicino a questo tipo di rapporto, di relazione, come i futuristi e in particolare Marinetti, nonostante tale tema fosse stato trattato in modo pertinente perché approcciato dallo sfondo, dalla piattaforma dei “media”, delle comunicazioni di massa”.

Giorgio Zanchetta, nel presentare “What to do with Poetry”, scrive: “In un’intervista inedita del 1990 Bellora riconosceva ad Emilio Isgrò il merito di averlo sedotto alla poesia visiva insistendo subito – evidentemente in una prospettiva dialettica e non di coincidenza o di reciproco esaurimento rispetto al panorama del concettualismo internazionale – sulla propria personale prospettiva di allargamento dell’indagine, oltre la dinamica dei particolarismi locali e al di là dei raggruppamenti generazionali: Avevamo riuniti artisti che lavoravano separatamente, senza un manifesto, ma che operavano nello stesso ambito del segno-scrittura. Il mio desiderio era, ed è ancora, quello di inglobare le opere di scritturisti veri e propri e di pittori-scrittori. Una visione globale e non settoriale.

Ufficio Stampa Mart
Luca Melchionna, 0464 – 45 41 27 email: L.Melchionna@mart.tn.it
Clementina Rizzi, 0464 – 45 41 27; mail: c.rizzi@mart.tn.it

L’angolo del collezionista
“What to do with Poetry”
Al Mart
Info: 800 – 39 77 60
Fino al 22 agosto ‘10


Chiavi di lettura


Nata tre anni fa in casa Zanichelli la collana Chiavi di lettura – curata da Lisa Vozza e Federico Tibone – ha conosciuto un crescente successo tanto da vincere, per il secondo anno consecutivo, il Premio Galileo .
L’edizione 2009, infatti, era andata a un altro libro della raccolta: “Energia per l’astronave Terra” di Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani. Quest’anno si è affermato il volume I vaccini dell'era globale di Rino Rappuoli e Lisa Vozza.
Un libro che racconta una storia e tante curiosità; parla infatti di come la peste nel 1348 abbia bloccato lo sviluppo di Siena e di come già nel 500 a.c. in Cina si praticasse una sorta di protovaccinazione, fino ad arrivare a temi e problemi dei nostri giorni.

A Lisa Vozza ho rivolto qualche domanda.
La collana da te diretta con Tibone sta dando grandi soddisfazioni alla casa editrice e a voi curatori. Qual è la formula che permette tutto ciò?

Sono libri che parlano di temi attuali e importanti, come gli OGM, i vaccini, l’energia, vicini all’esperienza di ognuno di noi. Sono facili da capire, pur essendo autorevoli. Costano poco, stanno in una tasca e si leggono in un pomeriggio. In quarta di copertina descriviamo questi libri con tre aggettivi: chiari, esatti, rapidi.

Tra le tante responsabilità che il nostro sistema scolastico ha verso il mondo scientifico, quale, a tuo avviso, è la più grave?

Un insegnante che instilla nei propri allievi curiosità verso la comprensione della vita, del mondo che ci circonda, dell’universo, oggi non ha alcun modo di distinguersi rispetto a un collega che quelle curiosità le spegne. Intendiamoci, la scuola non è un’isola malata in un paese virtuoso. In Italia raramente vi è il coraggio di riconoscere chi è bravo rispetto a chi non lo è: una mancanza che non è certo uno stimolo ad acquisire una formazione scientifica impegnativa e faticosa. Questo è uno dei motivi di fondo per cui il numero di laureati che escono dalle facoltà scientifiche resta basso e non contribuisce a rimpinguare le nuove leve di insegnanti. Ma neppure di giornalisti, dirigenti o di semplici cittadini dotati di conoscenze essenziali per capire il mondo di oggi e fare scelte consapevoli.

Ho nella parte iniziale accennato al libro che hai scritto con Rino Rappuoli, ora una domanda che mi sorge dalla lettura del volume.
Si dice spesso che uno dei disastri che potrebbe subire l’umanità è la diffusione di virus voluta da gruppi terroristici o anche piccoli Stati. È vero? Oppure c’è intorno a questo tema qualche forzatura giornalistica per attrarre lettori?

La tecnologia indispensabile ad attrezzare un semplice laboratorio di biotecnologia nella cucina di casa è alla portata di uno studente di liceo, come pure le informazioni per fare qualche tentativo sofisticato. Tuttavia tecnologia e informazioni non bastano necessariamente a mettere a punto un virus o un batterio davvero “cattivo”. L’evoluzione ci ha messo milioni di anni ad affinare le armi di piccoli mostri come il vaiolo o il poliovirus, ed è certo che la maggior parte dei tentativi è fallita. Dubito che un germe uscito dalla mente e dalle braccia di un bioterrorista, seppure determinato, possa avere al primo colpo la fortuna di passare attraverso le forche caudine della selezione naturale. Soprattutto se pensi che un mago della tecnologia come Craig Venter ci ha messo ben 15 anni per sintetizzare il genoma di un batterio e far sì che, inserito in una cellula, questa si riproducesse. Tieni anche conto del fatto che la diffusione delle tecnologie ha migliorato i sistemi di sorveglianza epidemiologica e molecolare. Se ricordi il breve tempo con cui qualche anno fa è stata bloccata l’epidemia di SARS, capisci bene che il germe del bioterrorista, seppur dotato di fortuna evolutiva, rischierebbe di essere fermato nel giro di pochi giorni o settimane. Dunque qualche timore c’è, ma mi pare più probabile che un virus pandemico emerga dal serbatoio animale: un laboratorio millenario, ben più efficiente e rodato rispetto a quello nuovo di zecca di un potenziale bioterrorista.

Per leggere alcune pagine del libro “I vaccini dell’era globale”, e vedere due video in cui intervengono gli autori, cliccare QUI.

Rino Rappuoli – Lisa Vozza
“I vaccini dell’era globale”
Pagine 200, Euro 10.20
Zanichelli


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