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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Tristanoil

Cosmotaxi, con la nota che segue, va in vacanza. Le pubblicazioni riprenderanno il 18 settembre.


E’ da circa mezzo secolo un protagonista di quanto di più nuovo e raffinato esiste nella sperimentazione espressiva in plurali campi artistici che vanno dalla letteratura alle arti visive: è Nanni Balestrini, in foto.
Ha anticipato correnti e stili, innovazioni di linguaggio ed esplorazioni del futuro della comunicazione senza sottrarsi all’impegno politico facendone anzi il motore di molte sue operazioni.
Tra i tantissimi esempi in Rete, ne scelgo uno che risale – e il tema è la scrittura elettronica – al 1996: un incontro con studenti in cui dice cose che in parte profetizzavano quanto sarebbe poi avvenuto e in altra parte afferma cose che dobbiamo ancora raggiungere: QUI.
Un elegante riassunto delle sue attività lo trovate sul suo sito web.

Ora ha fatto il film più lungo che mai sia finora esistito, dura, infatti, 2.400 ore il tempo della durata della mostra Documenta (13), una delle più importanti esposizioni al mondo sulle nuove tendenze delle arti contemporanee che si svolge ogni cinque anni a Kassel.
E’ intitolato Tristanoil (Tristan Oil è una multinazionale petrolifera) e fin dal titolo, con un gioco di parole, l’opera richiama il primo romanzo di Balestrini, “Tristano” (Feltrinelli, 1966), che agiva la narrazione articolandola attraverso un montaggio di schegge.
QUI trovate quel testo

Scrive Christian Caliandro su Artribune: “Una frase del film, in particolare, è in questo senso programmatica: “the chosen theme obliges me to restrict myself to decisive events”. Il ‘tema scelto’ è il presente, la storia, lo spirito del tempo; mentre gli ‘eventi’, i frammenti messi in sequenza, sono: spezzoni di serie tv americane anni ’70, Wall Street mediata dalla CNN, una piattaforma petrolifera incendiata in mezzo all’Oceano. E molto, molto altro ancora. Su tutto, scorrono suoni, parole, echi verbali. E un velo liquido, bituminoso, che connette e insieme separa le visioni”.
Per vederne sequenze: QUI.


La realizzazione video dell’opera è di Giacomo Verde, il soundscape è a cura di Morgan Bennett, mentre il software che regola la generazione continua dei contenuti è di Vittorio Pellegrineschi e della NABA – Visual, Multimedia and Performing Arts Department.


Un'idea dell'Italia

E’ nelle librerie, edito da Nino Aragno, Un’idea dell’Italia L’attualità nazionale nei libri.
Ne è autore uno dei migliori critici di cui disponiamo: Filippo La Porta.
Nato a Roma nel 1952, collabora a quotidiani e riviste, tra cui il ‘Domenicale’ del Sole24ore, ‘Il Messaggero’, l’’Espresso’, ‘XL’ di Repubblica, ‘Left’.
Tra i suoi libri: La nuova narrativa italiana, 1995; Dizionario della critica militante (con Giuseppe Leonelli), 2007; E' un problema tuo (con vignette di Dario Frascoli) 2009; Meno letteratura, per favore, 2010.
Di un altro eccellente libro, “Maestri irregolari” del 2007 me ne sono occupato, con un intervento dell'autore, in queste pagine web: QUI.

Questo suo più recente titolo, raccoglie poco meno di 140 recensioni (di romanzi, saggi e reportage) divise in due parti: “Fiction” e “Non Fiction” con un’appendice che riflette su riviste e audiolibri.
Sfilano nelle recensioni scrittori notissimi e altri decisamente meno noti e questo già dice parecchio sullo sguardo attento di La Porta che non si ferma (come fa la maggior parte dei critici) solo sulle firme di successo. Inoltre, le sue critiche esprimono costantemente – e in un’epoca in cui non era prevista la loro raccolta in volume – uno sguardo sui plurali legami che collegano l’oggetto letterario allo scenario sociale in cui è nato.
Un libro che, quindi, dice molto sul nostro più recente decennio e perciò interessa non soltanto chi pratica o segue da lettore la letteratura, ma è consigliabile anche a chi opera nei campi della politica, della sociologia, dell’antropologia perché serve a capire meglio i nostri anni.

A Filippo La Porta.ho chiesto: titolo e sottotitolo del volume sono eloquenti.
Quale idea dell’Italia ti sei fatta recensendo quasi 140 volumi nell’ultimo decennio?

ll titolo potrebbe sembrare paradossale, almeno considerando certe mie posizioni precedenti, ad esempio “La nuova narrativa italiana” da te citata prima. Ho spesso sostenuto infatti che i nostri scrittori contemporanei amano “travestirsi”, mettersi una maschera che li nobilita e li rende inafferrabili. Da cosa si travestono? Da scrittori radicali, mitteleuropei, sovversivi, pensosi, molto intensi, partecipi delle condizioni degli oppressi del pianeta, etc.(una volta ho usato polemicamente l’espressione “Kitsch dell’intensità”…). Tutte identità improbabili e assai spettacolari. Dunque la loro produzione letteraria non dovrebbe darci affatto una idea dell’Italia, della nostra società, di loro stessi come realmente sono dentro questa società. Eppure proprio questa attitudine alla maschera, alla dissimulazione, alla teatralizzazione dei conflitti, ad apparire migliori o più affascinanti, etc. li rende inequivocabilmente italiani. Alla fine i 130 libri che recensisco, tra fiction e non fiction (ma si capisce come la mia preferenza vada a questi ultimi), offrono alcune informazioni decisive sulla nostra mentalità, sull’ethos collettivo, sulle mode e sui vizi endemici, sui linguaggi che adoperiamo e sugli stili culturali predominanti (e un qualche caso anche gli “anticorpi” preziosi per criticare mode e linguaggi). Angelo Guglielmi, commentando il titolo, mi rimproverava un eccesso di nazionalismo. Tutt’altro! Metto l’accento sulla nazione perché occorre anzitutto capire la “attualità nazionale”, di cui facciamo parte, in cui siamo tutti invischiati, prima ancora di provare a capire la condizione umana, il senso della vita, la questione della “scaturigine” (come direbbe Emanuele Severino), le “cose ultime” (come direbbe Cacciari), il mistero della nostra effimera comparsa sulla terra, il linguaggio dell’Essere…

Dopo l’estate, alla ripresa delle pubblicazioni mensili della Sez. Enterprise, La Porta sarà ospite di questo sito e, in una più articolata conversazione, torneremo a parlare del libro che ho presentato oggi e del pensiero critico che lo ha ispirato.

Filippo La Porta
Un’idea dell’Italia
Pagine 370, Euro 18.00
Nino Aragno Editore


Spiral Jetty


L’artista americano Robert Smithson (1938-1973), partito da esperienze di Minimal Art, divenne uno dei massimi esponenti della Land Art. Questo termine fu coniato nel 1969 per designare l’opera di artisti la cui ricerca – affine a quella dell’arte concettuale – sviluppatosi dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa, porta a interventi nell’ambiente naturale.
Accanto ad una vocazione ecologica nella Land Art, si trovano anche un rifiuto dei mezzi tradizionali (pittura, scultura, e altre tecniche plastiche), una ribellione nei confronti del mercato dell’arte, una polemica contro i luoghi abituali di produzione e di esposizione delle opere. I lavori di questa corrente artistica, spesso dislocati in luoghi impervi, sono prevalentemente composti di materiali come sabbia, pietre, acqua, rami, foglie, fango e, talvolta, solo da segni lasciati nel paesaggio che ricordano quelle misteriose tracce esistenti in certi territori precolombiani.

In quest’area espressiva, Smithson caratterizzò il suo lavoro sul territorio, con interventi tesi a modificarne intere porzioni con grandi movimenti di terreno, fino ad alterarne sostanzialmente la percezione.
Tante le sue opere famose, come, ad esempio, Yucatán Mirror Displacements (1969), in cui specchi quadrati erano inseriti in diversi ambienti naturali della penisola dello Yucatán.
Ma l’opera icona della Land Art americana, e certamente la più famosa di Smithson, è Spiral Jetty, in foto, una grande spirale di terra realizzata nel 1970, in parte basata sulla sezione aurea, simbolo di un percorso come movimento, tempo, materia, spazio che si moltiplica e si consuma.
Ora ne troviamo l’immagine in un libro – “Spiral Jetty” – edito da Photology e co-prodotto da Repetto Project e Jim Kempner con fotografie di Gianfranco Gorgoni e testo di Paolo Repetto.
Da quel testo: “La forma ipnotica per eccellenza: sempre diversa e sempre uguale, insieme statica e dinamica, simmetrica e irregolare. Il mondo che pulsa, che si trasforma. Un disegno, un grande quadro, una immensa scultura, in cui Smithson ha usato le pietre come matite, la terra e l’acqua come colori, il cielo e l’orizzonte come il più grande spazio disponibile. L’ininterrotta metamorfosi delle cose tra aria, acqua, terra e fuoco. La certezza di essere nel punto più intenso dell’universo, in un luogo insieme arcaico e avveniristico, vicinissimo come il battito del cuore e lontanissimo come la più lontana delle galassie”.

Cliccare QUI per visitare il sito web dell'artista.


Una curiosità spaziale

La notizia non poteva sfuggire a questo sito che s’avvale nelle sue sezioni di nomi che richiamano lo Spazio.
Il webmagazine Estropico informa del progetto di un ingegnere di costruire un’astronave simile a quella di Star Trek realizzata con motori ionici di ultima generazione alimentati da un reattore nucleare.

CLIC! per saperne di più.


Conversazione con Vittorio Storaro

Diceva Joseph Bédier: "Il cinema è un occhio aperto sul mondo".
Per tenere aperto quell’occhio, però, sono necessarie non poche mediazioni.
Le Edizioni Mimesis hanno pubblicato un libro che riflette su quelle mediazioni e presenta un lungo colloquio con Vittorio Storaro.
Titolo: L’immagine cinematografica come forma della mediazione Conversazione con Vittorio Storaro.
La prima parte illustra e inquadra il progetto Univisium (per saperne di più cliccare sul menu del sito web di Storaro) all’interno del dibattito sul carattere “espressivo del realismo cinematografico, contrapposto a quello ‘ontologico’ della riflessione baziniana e deleuziana”.
La seconda parte è dedicata a Storaro e ai tratti principali della sua filmografia.

L’autore di questo finissimo studio è Francesco Ceraolo (1980).
Ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca con una tesi sull’estetica del Gesamtkunstwerk presso il Queen Mary College dell’Università di Londra. Ha svolto attività di docenza presso la stessa università. Ha pubblicato saggi su riviste e volumi collettanei. È autore del volume Registi all’opera. Note sull’estetica della regia operistica (Roma, 2011).

Di Storaro, ricordo ai più distratti che è stato vincitore di tre premi Oscar per la fotografia (con “Apocalypse Now”, “Reds” e “L’ultimo imperatore”). “Cinefotografo” è il modo in cui ama definirsi. Un nome da abbinare a quello dal sapore antico di cinematografo. Letteralmente, cioè, il luogo dove si scrive, s’inventa e si crea con l’immagine del cinema. Così Storaro racconta il suo lavoro, svelandone un profondo rapporto con la filosofia. Si concede ai ricordi dei set famosi che ha calcato, accanto a Bernardo Bertolucci o a Marlon Brando. Il risultato è un prezioso libro di analisi del cinema e un documento d’intervista unico, per chi ha sempre pensato che il cinema sia molto di più di quel che vediamo.


A Francesco Ceraolo ho rivolto due domande.

Scrivi nella Premessa: “Se riallacciandoci alla filosofia schellinghiana definiamo l’opera d’arte come mediazione, allora l’immagine cinematografica è cronologicamente l’ultima forma di mediazione”.
Mediazione fra quali componenti?

Rispondo cercando di sintetizzare i termini di un discorso complesso. Il volume tenta di svincolarsi da prospettive "epistemologiche" sull'immagine cinematografica, ovvero prospettive che vedono l'immagine unicamente quale "specchio" del reale, recuperando la definizione schellinghiana di opera d'arte quale "mediazione". L'immagine cinematografica è l'ultima forma dell'arte. Come tento di spiegare nel libro, essa è il prodotto di una mediazione tra sfera cosciente e sfera inconscia, ovvero il punto di intersezione tra un impulso emozionale, istintivo, e un impulso razionale. In altre parole tra natura, intesa come perenne tensione creativa, e storia, cioè lo spazio in cui si esplica la razionalità stessa. Detto in altri termini: l'impulso alla creazione è sempre inconscio, un'urgenza in seno all'animo di chi crea che non possiede un carattere definito. Esso è quindi un'entità a-storica, che contraddistingue l'uomo in quanto essere naturale. In sé ha il carattere della ripetitività, cioè non distingue tra luoghi e tempi. È invece solo la razionalità ad essere storica, ovvero a fornire all'opera quel carattere unico, dando forma all'impulso di natura. È questo che distingue una scultura di Fidia da un film di Coppola o Bertolucci. L'immagine cinematografica contiene in sé il conflitto tra cosciente e inconscio, proprio nel senso schellinghiano, perché essa è sempre un incontro tra natura e storia.

Qual è, fra le tante qualità, la prima che fa di Storaro l’artista entrato nella storia del cinema?

Anche qui, le qualità sono molte, e la mia risposta non può che essere sommaria e parziale. Vittorio Storaro è probabilmente l'unico grande direttore della fotografia ad aver elaborato una poetica dell'immagine e della luce. La grandezza di Storaro, che lo distingue da tutti gli altri, sta nell'aver pensato una teoria della luce nuova e originale che prendesse ispirazione dall'immensa e straordinaria cultura dell'immagine italiana, dal Rinascimento al Barocco. Nessun altro direttore della fotografia - o "cinemafotografo", come lui preferisce definirsi - si è fatto carico di questa enorme eredità. Se mi è consentito, io credo che il merito del volume, e della conversazione in esso contenuta, sia proprio quello di aver vagliato per la prima volta scientificamente la tenuta della poetica di Storaro e di aver fornito una sorta di compendio dei suoi punti fondamentali. Quello che ne esce fuori è un percorso omogeneo e complesso - che va da film come “Ultimo tango a Parigi” ad “Apocalypse Now” e “Reds” fino al progetto Univisium - che viene ripercorso da Storaro e dal sottoscritto cercando di coglierne, a posteriori, gli elementi salienti. Quelli che cioè, ripeto, vengono a costituire una poetica dell'immagine quale prodotto di una mediazione tra le componenti menzionate sopra. Partendo da qui si può tentare di formulare una nuova e diversa nozione di "realismo" dell'immagine - ovvero del suo rapporto con la realtà - che tenti di superare l'ontologia baziniana facendo seguito ad importanti e nuove prospettive sull'immagine che stanno emergendo negli ultimi anni (su tutte quella di Fredric Jameson). Questo credo sia, da un punto di vista teorico, l'interesse principale dell'esperienza poetica di Storaro..

Francesco Ceraolo
L’immagine cinematografica come forma della mediazione
Pagine 96, Euro 12.00
Mimesis


Re-Generation

A Roma, nei due padiglioni e gli spazi esterni del Macro Testaccio è in corso una mostra che presenta una ricognizione stereoscopica delle nuove energie che operano nelle arti visive.
L’esposizione è intitolata Re-Generation ed è a cura di Maria Alicata e Ilaria Gianni.
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Una grande collettiva con più di cinquanta artisti che contribuiscono — o hanno contribuito in anni recenti — a rinnovare il fermento artistico e culturale romano, sostenuti dai nuovi musei, fondazioni e gallerie che richiamano in città critici, curatori e altre figure chiave del settore, riposizionando così la capitale sulla mappa del circuito dell’arte contemporanea internazionale.
Nuove figure, quindi, ma non debuttanti perché ognuno di loro vanta un’articolata bio artistica in campi che vanno dalla fotografia al video, dall’installazione alla performance.
Non a caso le curatrici pongono i loro lavori accanto alla mostra di un nucleo d’opere di artisti storici che hanno lavorato e vissuto in città: Gianfranco Baruchello (Livorno, 1924); Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994); Eliseo Mattiacci (Cagli, 1940); Fabio Mauri (Roma, 1926 – 2009); Luigi Ontani (Grizzana Morandi, 1943); Pino Pascali (Bari, 1935 – Roma, 1968).

Tra i tanti nomi, ognuno con interessanti novità espressive, noto con piacere quello di Marta Roberti, (in foto), che è stata di recente ospite di questo sito e potete trovare la sua biografia, dichiarazione di poetica e opere cliccando QUI.
M’interessa il suo lavoro sull’icona elettronica che presenta un originale tessuto concettuale in cui ordito e trama sono dati dalla filosofia e dalle neuroscienze; riesce a rappresentare con un segno impalpabile e profondo motilità drammatiche e fissità dolorose.
L’opera che presenta al Macro – intitolata “Lacuna” – è un video che vinse il primo premio del concorso “Metrocubo” della Galleria anconetana 400metriquadri.
Basta un CLIC per trascorrere 5 minuti 5 ben spesi nella vostra giornata.

“Re-Generation”
a cura di Maria Alicata e Ilaria Gianni
Macro Testaccio
Piazza Orazio Giustiniani 4, Roma
Fino al 9 settembre 2012


L'operAzione concettuale


A Foligno è in corso al CIAC (Centro Italiano Arte Contemporanea) una mostra dedicata a Vincenzo Agnetti (Milano, 14 settembre 1926 – Milano, 2 settembre 1981) nome maiuscolo dell’arte concettuale, movimento internazionale degli anni ’60 e ’70 che fa propria la propensione alla smaterializzazione dell’oggetto artistico, enfatizzando il ruolo dell’idea
La mostra intitolata L’operAzione concettuale e curata da Italo Tomassoni e Bruno Corà.

In foto: “Libro dimenticato a memoria”, 1970.

Agnetti, diplomatosi all’Accademia Brera di Milano, dopo l’esordio nell’àmbito della pittura informale, fu tra i fondatori nel 1959 della rivista “Azimuth”. Accostatosi all’arte concettuale, ne divenne presto un protagonista in Italia e all’estero sviluppando in particolare il concetto di assenza, elaborando un’idea di arte come pura analisi di teorie, giocata su paradossi verbali (non va dimenticata la sua pratica della letteratura e del teatro) e sul rapporto tra senso e non senso come in “Libro dimenticato a memoria” un volume con le pagine tagliate in corrispondenza del testo; “Entropia” in cui la parola è resa illeggibile; “Telegrammi” spediti dall’artista a se stesso; “Progetto per un Amleto politico” che fa riferimento all’omonimo testo pubblicato da Agnetti nel 1973.
In mostra anche altre sue famose opere: “Macchina drogata” (1968), “l'Apocalisse” (1970), gli “Assiomi”, 1969-70, su bachelite, i “Feltri”, pannelli incisi a fuoco e altri lavori tra i quali “Surplace”, 1979-80, quattro sculture e le “Photo-Graffie”, 1980.

Il catalogo – edito da 3Arte – comprende saggi critici dei curatori, un testo biografico redatto da Germana Agnetti, figlia dell'Artista, documenta oltre 60 opere con foto di Ugo Mulas, Salvatore Licitra, Oliviero Zanni, e apparati biobibliografici aggiornati.
Mi piace concludere questa nota con parole di Tomassoni che ben sintetizzano l’opera di Agnetti: Egli si preoccupa di rendere possibile un equilibrio tra supporto e superficie, lingua e parola, sincronia e diacronia, dimenticanza e scoperta.

Ufficio Stampa, Lucia Crespi: lucia@luciacrespi.it
Tel. 02 . 89415532- 02. 89401645 fax 02 . 89410051; Cell. 338 - 8090545

Vincenzo Agnetti
L’operAzione concettuale
Ciac di Foligno
Via del Campanile 13
Info: +39 0742 357035
Fino al 9 settembre ‘12


FuocoFuochino


“La più povera casa editrice al mondo” – così la definisce il suo fondatore, l’artista patafisico Afro Somenzari che per le sue mostre ed i suoi scritti può vantare il sostegno di nomi che vanno da Enrico Baj a Edoardo Sanguineti, da Ugo Nespolo a Gillo Dorfles.
Da qualche tempo ha messo su una piccola editrice: FUOCOfuochino.
Specialità della casa: le micronarrazioni.
Da qui un ricco catalogo-menu che vede scritti, ora dolci ora piccanti, di Gianni Celati, Lorenza Amadasi, Ugo Nespolo, Roberto Barbolini, Alberto Casjraghy, Giovanni Maccari, Brunella Eruli, Cristiana Minelli, Pupi Avati, Paolo Colagrande, nonché dello stesso editore e altre penne impegnate in rapidissimi saggi, miniracconti, raccolte di aforismi.

L’Editrice fu presentata da Gino Ruozzi che così scrisse: FUOCOfuochino è un piccolo segno di vita di una letteratura del tutto gratuita, un omaggio alla meraviglia della scrittura. Nasce da un'intuizione di Afro Somenzari, dai suoi rapporti di amicizia, dal desiderio di riunire amici a una comune tavola letteraria. Un gesto gratuito di scrittori che hanno voluto regalare ad Afro e alla sua minuscola neonata casa editrice racconti, poesie, pensieri. Per amore della letteratura, per amore dell'amicizia, per amore di fare e di offrire qualcosa fuori dai circuiti mercantili.
La nascita di una casa editrice è sempre un miracolo, perché è il luogo attivo di un nuovo punto di vista sul mondo
.

Ora FUOCOfuochino si è fornita di un sito web nel quale si può passeggiare lungo i suoi avvampati percorsi letterari; basta un CLIC!

Le più recenti pubblicazioni: Carlo Battisti con “Vite segnate” tra le quali tragica è quella di uno zero; Renzo Butazzi presenta tragedie bovine e torbidi intrecci in “Bovi, pie donne e nonni”; Camillo Cuneo esibisce paradossali avvisi pubblicitari.


Democrazia


L’ Editore Add, dopo aver pubblicato Gesù (libro certamente poco amato in Vaticano) del filosofo e giornalista Paolo Flores d’Arcais, manda nelle librerie un nuovo lavoro di questo autore che è tra i più vivaci protagonisti del dibattito politico dei nostri giorni.
E’ intitolato Democrazia! con il punto esclamativo che è (discutibile) abitudine della casa editrice accompagnare i propri titoli.
Ve ne presentiamo l’incipit.

Ha ancora senso parlare di democrazia? E soprattutto ha ancora senso rivendicarla come bandiera di eguale libertà? Tutti sono democratici e se ne riempiono la bocca, anche quando la detestano, la vogliono su misura, o magari la massacrano. Del resto liberali e democratici si proclamavano già i Thiers e i Gambetta, che un secolo e mezzo fa, con decine di migliaia di esecuzioni sommarie, affossarono (alla lettera) la Comune di Parigi, il momento di più autentica democrazia che abbia conosciuto la storia. Oggi, più che mai, “democrazia” rischia di non voler dire più nulla.

Se possono invocarla indifferentemente George W. Bush e Aung San Suu Kyi, Václav Havel e Vladimir Putin, Stéphane Hessel e Silvio Berlusconi, vuol dire che il significato della parola ha ormai la precisione della nebbia e del fumo. Se la possono sbandierare i giovani di piazza Tahrir e i militari che li assassinano o le barbe e palandrane islamiche uscite vincitrici dalle urne dopo essere rimaste acquattate nelle moschee senza rischiare nulla, se possono proclamarla tanto i manifestanti di Zuccotti Park quanto i Le Pen padre e figlia, forse è ormai solo un logoro flatus vocis.

E tuttavia la democrazia resta oggi imprescindibile, anzi l’”imprescindibile”.
Intanto perché è l’orizzonte di legittimità unico cui far riferimento per avvalorare le istituzioni politiche, da quando il crollo del muro ha distrutto, anche presso chi non voleva udire né vedere, l’ultimo coriandolo di credibilità ‘progressista’ dei totalitarismi dell’Est. Al punto che perfino chi vuole annegare la democrazia nella teocrazia è costretto a invocarla come strumento e procedura decisionale, dai partiti islamici (tanto ‘moderati’ quanto fondamentalisti) fino al pontefice di Roma felicemente regnante. Ma, soprattutto, perché è sempre e comunque in nome della democrazia e dei suoi valori costitutivi e fondanti, libertà ed eguaglianza, che donne e uomini di ogni condizione e in ogni continente scendono in rivolta e rischiano anche la vita contro lo screziato mostro delle oppressioni.

Eppure è sotto gli occhi di tutti che una democrazia degna di questo nome è oggi introvabile. Le democrazie realmente esistenti sono sempre più un pallido simulacro dei valori solennemente ricamati nelle Costituzioni, più spesso una parodia: negli angiporti dell’establishment o nelle suburre dell’attività di governo, i politici infangano e calpestano ogni giorno i diritti dei cittadini di cui dovrebbero essere emanazione. Per questo sono ricambiati dai cittadini con dosi industriali di disaffezione e disprezzo […] Le parole sono pietre. Le parole sono armi. La filologia è una spina nel fianco di ogni governo, perché le parole/valore sono «posta in gioco» dello scontro tra oppressori e oppressi […]
Perché non è affatto vero che “demos-kratia” non voglia dire nulla, che sovranità popolare – la sua traduzione moderna, sulla scia delle due rivoluzioni che inaugurano il nostro tempo, quella americana e quella francese – sia assolutamente generica, e possa dunque essere piegata a qualsiasi «sostanza» del reggimento politico. Sulle antinomie teoriche, le contraddizioni pratiche, le difficoltà istituzionali cui dà luogo la sovranità popolare discuteremo a lungo nelle pagine che seguono, ma esse nascono proprio dalla precisione e dallo spessore del concetto e della ‘cosa stessa’ cui ineludibilmente si riferiscono: il potere che fa tutt’uno con l’intero popolo, quest’ultimo che fa tutt’uno con ciascuno dei cittadini, nessuno escluso
.

Questo è L’Indice.
Democrazia e definizioni
Antinomie della democrazia
Democrazia e legalità
Democrazia e verità
Democrazia e ateismo
Democrazia e illuminismo di massa
Democrazia e denaro
Democrazia ed eguaglianza
Democrazia e morale
Democrazia privata
Democrazia e rivolta

Paolo Flores d’Arcais
Democrazia!
Pagine 128, Euro 7.00
Add Editore


Nakis Panayotidis


Alla Galleria Civica di Modena è in corso una personale di Nakis Panayotidis.
Nato ad Atene nel 1947, nel 1966 intraprende gli studi di architettura a Torino, presto abbandonati per trasferirsi l’anno successivo a Roma, attratto ora dall’arte, dal cinema e dal teatro. Comincia ad esporre in mostre collettive dal 1970.
L’anno del suo trasferimento a Berna, il 1974, coincide con la prima personale alla Galerie Wahlen in quella stessa città. Nel 1977 ottiene una residenza artistica presso il Centro di sperimentazioni artistiche a Boissano assieme a Maurizio Mochetti, Mario e Marisa Merz. Da allora si sono susseguite numerose mostre collettive e personali.

L’attuale esposizione - curata dal direttore del museo Marco Pierini e da Mathias Frehner direttore del KunstMuseum di Berna - è organizzata e coprodotta dalla Galleria e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena con il sostegno di Pro Helvetia, Fondazione Svizzera per la cultura.
Il percorso espositivo presenta un repertorio pressoché completo delle tecniche predilette da Panayotidis, dalle scritte al neon ai disegni retroilluminati, dalle installazioni alle fotografie. Influenzato dalla particolare morfologia dello spazio, l'artista in questo caso ha sfruttato dimensioni, proporzioni, pregi e difficoltà dell’edificio barocco per conferire ritmo alla sequenza delle opere e perfetta aderenza delle stesse ai singoli ambienti.

In foto: Nakis Panayotidis, "Nasconditi sapere", 2011; tavolino, graffiti, vapore, lampadina rotta.

Scrive in catalogo Marco Pierini: Nonostante la varietà delle tecniche impiegate, dal pastello all’installazione, dalla scultura al disegno, la poetica dell’artista emerge dalla sequenza delle opere in mostra con rigorosa coerenza, esaltando il dialogo costante, tanto formale quanto simbolico, tra oscurità e luce, visibile e invisibile, oblio e memoria. E se la memoria, per Panayotidis, è sempre il terreno sul quale l’artista costruisce le fondamenta della propria opera, la luce ne rappresenta l’aspirazione alla compiutezza (come prospettiva, però, mai come raggiungimento definitivo) e il segno vibrante del nostro stare al mondo qui e ora, del nostro essere, appunto, contemporanei. Due piccole carte, realizzate con piombo e catrame negli anni Ottanta, denunciano già nel titolo (Luce e Illuminare) quanta attenzione l’artista rivolga da sempre alla luce, elemento che più tardi ha fatto la propria comparsa nell’opera non più riprodotta ma addirittura prodotta, in una prima fase attraverso l’utilizzo di ordinarie lampadine a incandescenza, meno occasionalmente poi grazie a un sapiente uso del neon, talvolta celato sul retro della superficie o in vista sul fronte a marcare un accento sull’immagine, in altri casi, come Katharsis e Kabul, esso stesso costituitosi forma plastica, scultura.

Il catalogo bilingue italiano/inglese, edito da Silvana Editoriale, comprende – oltre ai testi dei due curatori – una biografia e una bibliografia completa dell’artista, un album fotografico della mostra allestita e riproduzioni di opere di repertorio.

Altra notizia dalla Galleria.
Grande partecipazione all’asta benefica promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Modena-Fondazione Fotografia e dalla Galleria civica di Modena in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni storici artistici ed etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia che si è tenuta mercoledì scorso nella sede dell'ex Ospedale Sant'Agostino alla presenza di intenditori, collezionisti e appassionati di fotografia. Il battitore di Sotheby’s Filippo Lotti ha “piazzato” quasi tutti i 91 lotti per un ricavo complessivo di 115 mila euro destinati al restauro di opere d’arte danneggiate dal terremoto.
L’opera che ha raggiunto una maggiore quotazione – 7500 euro – è stata "Il tuffatore", una foto del 1951 del bolognese Nino Migliori. Buona anche la quotazione finale delle due fotografie di Franco Fontana: "Basilicata" del 1986, e "Ibiza" del 1992, battute a 4700 euro. "U.A.P. Walker", New York, 1978 di Hiroshi Sugimoto è stata assegnata a 3 mila euro.

Ufficio Stampa Galleria civica di Modena, Cristiana Minelli
Tel:+39 059 2032883; galcivmo@comune.modena.it

Nakis Panayotidis
Galleria civica di Modena
Corso Canalgrande 103
Info: 39 059 2032911/2032940 - fax +39 059 2032932
Ingresso gratuito
Fino al 16 settembre 2012


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