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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

La buona tavola: Mercuri a Roma


Roma, come si sa, soffre di un suo basso livello enogastronomico.
E se è vero che - per citarne uno solo, e il più alto - conosce il trionfo della presenza di
Heinz Beck (sul link precedente un mio colloquio con lui) è pur vero che per godere della somma arte del grande Heinz è necessario accendere un mutuo, cosa questa che dissuade da pratiche frequenti. Inoltre, una città non può essere valutata sul metro di pochi locali, bensì del suo livello medio. A Roma è pressoché catastrofico. Per non dire del modo in cui è condotta la ristorazione: menu ripetitivi, approssimativa conoscenza enologica, prezzi sconvenienti, servizio zoologico che, assai spesso, s’annuncia bestialmente con “che vino porto a tavola in attesa che scegliete?”. Alla gogna! Alla gogna!
Voglio segnalarvi oggi un localino che, invece, senz’avere alcuna pretesa, anzi proponendosi come non più che una piacevole osteria, merita proprio d’essere visitato.
E’ condotto dalla famiglia Mercuri: il padre Benito dal quale deriva appunto l’insegna “Da Benito”, la signora Annamaria e la figlia Simona.
Sta in Via dei Falegnami, per chi non è di Roma: al ghetto, 2 passi 2 da Largo Argentina.
Ci vanno in tanti, da tanto tempo, da quando, nel 1984 s’è trasformata in osteria con servizio ai tavoli.
Cucina affidata a pochi piatti di tradizione romana, realizzati in modo ammirevole. Troverete sempre la scelta fra due tipi di primi che cambiano (vivaddio!... esclamazione che detta da un ateo come me non è poco) tutti i giorni, un discreto giro di secondi (e, accanto, la presenza diuturna delle polpette al sugo, sontuosamente ben fatte, che mai mancano). Servizio veloce ma non ansiogeno, rapporto qualità-prezzo eccellente. Vino non indimenticabile – Montepulciano d’Abruzzo e Rosso di Montefalco – ma di corretta bevuta; sarebbe bene però ampliare la scelta.
Invito che rivolgo a Simona, sicura guida di quel luogo, una dotata come poche di un’autentica vocazione alla direzione di sala. Le basterebbe un breve corso, e poi, ne sono certo, se la disputerebbero grandi locali a colpi di zecchini d’oro. Tant’è la grazia, la competenza, l’eleganza che possiede nel descrivere un piatto o nell’esporre la linea del locale, senza sussiegosi vanti e senza falsa umiltà.
Un consiglio a concludere: evitate d’andarci fra le 13.00 e le 14.00, non apprezzereste al meglio le pietanze per l’affollamento che si dispone intorno ai tavoli – unico difetto – assai ravvicinati. Se poi riuscite ad andarci addirittura alle 14.30, mi ringrazierete.

“Da Benito”, Via dei Falegnami 14, Tel. 06 – 68 61 508, chiuso la domenica


Lunga vita al Teatro delle Albe


Mi è arrivata una mail da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari che guidano il Teatro delle Albe di cui sono da tempo strenuo sostenitore.
Una mia prima ndr: A beneficio di chi, come me, non avesse completato la scuola dell’obbligo, ricordo che, lo stesso nome dell’astronave di Star Trek, Enterprise, ce l'ha anche una sezione di questo sito dove a conclusione degli incontri saluto gli ospiti con la nota locuzione startrekkiana che troverete ora citata da Marco.
Ecco la mail:

Caro Armando
visto che il saluto sull'Enterprise è "lunga vita e prosperità", non posso non mandarti questo mio “Lunga Vita” in un momento in cui tanti miei colleghi teatranti soffrono (a ragione, peraltro, se ci sono "ragioni" alla depressione...) di una crudele depressione. C'entrano i tempi, sicuramente. Io, noi-Albe, si reagisce alla depressione accumulando e spandendo energia vitale. Un abbraccio che sa di buon Sangiovese
.

Assai volentieri accolgo e v’invito a leggere quanto pubblico parzialmente perché non è breve e, inoltre, né qui, né in altre parti del sito propongo testi.
Quella di Marco è una riflessione prima di un appello. E', però, anche appello. All’intelligenza. Attraversa territori teatrali e non. E’ invettiva poetica. Apòstrofe morale. Indignatio sorniona. Possiede insieme grazia e rabbia.
Una mia seconda ndr: Il testo ha un sottotitolo, come leggerete, per me imbarazzante. Da ateo quale sono, diffido da sempre di ciò che dicono i santi, perché dicono una cosa e ne pensano un’altra. San Giacomo, detto il Minore, non fa eccezione. Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, invece, dicono una cosa per dire proprio quella. Dicono cose giuste. E le dicono benissimo. La prossima volta, li invito a prendere le distanze da santi e gente simile. La mamma non vi ha detto di non fermarvi a parlare con degli sconosciuti?

LUNGA VITA!
(rileggiamo l’epistola di San Giacomo)

Lunga vita al teatro, che da quanti decenni si dice che è morto
Lunga vita al teatro, che da quanti decenni si dice
Lunga vita al teatro che da sempre vive da sempre nel segno della morte (tragedia), è la sua gloria, nel segno da sempre dello sberleffo alla morte (commedia)
Lunga vita al teatro che si produce in un angolino, ma che da quell’angolo genera esplosioni
Lunga vita al teatro, alla misura oltrepassata, alla povera carne trasfigurata
Lunga vita al teatro, a certo teatro, quindi, non a tutto (mica si fa della beneficenza, qui!), ma solo a quello che sa essere veleno e farmaco allo stesso tempo
Lunga vita al teatro, lunga vita all’attore eretico che del teatro è il sale, il cattivo sangue
Lunga vita al teatro: rileggiamo San Giacomo, quel che dice su opere e fede, opere come azioni che certificano la fede, la rendono “visibile”, senza le quali la fede è un nulla ipocrita e altisonante
Lunga vita a chi non sta al ritmo dei gazzettieri, a chi non regola i propri giorni sulle nevrotiche chiacchiere del mondo, a chi non fa mercimonio della propria immagine
Lunga vita a quel teatro in cui i pensieri si incontrano, le generazioni si incontrano, gli spettatori franano: dov’è questo teatro? Non c’è? Lunga vita al teatro che non c’è
Lunga vita al teatro covato in solitudine, in una stanzetta fredda, lontano dal mondano, la testa piena di sogni confusi, nella fervida confusione della giovinezza, oh, voi piccoli e fiammeggianti, voi cui il mondo non basta, voi che non frequentate i salotti
Lunga vita ai critici che si spostano con i piedi e con la testa
Lunga vita ai critici che si spostano
Lunga vita agli ottimisti che ancora mettono il dito nella piaga, lunga vita ai pessimisti che ancora si accendono

Mai sia detto che di un testo pubblicato parzialmente non se ne conosca la fine:

Lunga vita a chi intuisce che il disgusto per le cose brutte è senz’altro rivolto a noi stessi, mentre il rapimento di fronte a quelle belle o significative oltrepassa chi lo prova

Da parte mia: Prosit!


Non possiamo fare miracoli


Locuzione frequentemente usata (da artigiani, negozianti, impiegati di pubblici uffici) per dire dell’impossibilità di prodursi in un’azione che, per velocità d’esecuzione ed eccezionalità della stessa, sia apparentabile ad eventi di ritenuta origine divina.
E’ in libreria un volume delle Edizioni Dedalo guidate da Claudia Coga – “Spiegare i miracoli. Interpretazione critica di prodigi e guarigioni miracolose” - che dimostra come quel popolare modo di dire potrebbe, anzi dovrebbe, essere usato per onestà intellettuale anche da appartenenti ad altre categorie (santi, beati, donne e uomini di pia condotta in procinto di promozioni in area celeste) da molti ingenuamente ritenuti addetti ai lavori prodigiosi.
Già, perché neppure quei santi, quei beati, etc. possono fare miracoli e, in effetti, nonostante le apparenze, mai li producono, ma sarebbe bene lo dicessero.
Autore del libro prima citato è Maurizio Magnani. Laureato in medicina e chirurgia nel 1984, ha lavorato come medico d’emergenza e come ricercatore clinico sperimentale. E’ psicoterapeuta, autore di numerose pubblicazioni mediche e psicologiche, divulgatore scientifico e docente per l’industria di teorie e tecnica delle sperimentazioni cliniche.
Magnani, avvalendosi delle sue competenze professionali, muovendosi cioè dalle procedure d’indagine della realtà proprie del metodo scientifico, procede allo smantellamento di molti fenomeni ritenuti (o meglio, fatti ritenere) misteriosi, inspiegabili… miracolosi.
Ne fa le spese pure S. Gennaro protettore della mia città natale… sigh!
Invitato da me a salire su questo Cosmotaxi per fare una dichiarazione sul suo lavoro (Magnani, non S. Gennaro), mi ha detto come ora sentirete.
Di fronte ad immani tragedie naturali come un maremoto che distrugge decine di migliaia di vite o una pestilenza che causa la morte di intere popolazioni è legittimo domandarsi: “Signore onnipotente, perché lo permetti? Dov’è la tua mano?”. Un miracolo è per definizione teologica un evento empirico che richiede la sospensione delle leggi di natura o la loro violazione. In altri termini il divino, per intercessione della Vergine o di un santo, farebbe ogni tanto trasudare sangue da una statua, lacrimare un quadro, guarire da una infezione un bambino. Lo farebbe però sempre in assenza di testimoni affidabili, critici o di religioni differenti e di strumentazioni tecnologiche incontestabili. Così, mentre milioni di bambini muoiono di diarrea e polmonite sotto gli occhi di tutti, un ragazzo viene miracolato in un ospedale privato e benedetto; mentre l’odio razziale insanguina la terra della ex-Jugoslavia e del Medio oriente, la volontà divina farebbe sanguinare una statuetta in un giardino italiano. Questo libro vuole difendere la ragione umana dagli attacchi di un crescente irrazionalismo alimentato dall’ignoranza di masse con potenti tecnologie ma scarso esercizio dell’intelligenza; analizza numerosi miracoli di guarigione riconciliando il lettore con la propria razionalità, ridandogli fiducia nelle capacità delle logica e della scienza di squarciare le tenebre del mistero e della superstizione.
Ecco un libro che merita d’essere letto, regalato, diffuso. Si legge d’un fiato trascorrendo fra sangue fluido o rappreso, lacrime ora liquide ora cristallizzate, freddi sudori a gocce o in gel.
Già, perché una cosa che mi ha sempre colpito in tutti questi cosiddetti miracoli è la comune matrice di terribilità alla quale tutti appartengono. Mai che risuonassero, chessoio, un’allegra risata, un fischio alla pecorara o altri fenomeni acustici o visivi che, essendo prodotti da statue, quadri, teschi, muri, stoffe, pur sarebbero da considerare fenomeni quanto meno singolari. No, piangono tutti. E tutte. Effigi, statuine, strumenti.
Tempo fa appresi che perfino un oggetto presente in tutte le nostre case s’era messo a lacrimare, ce lo fece sapere Domenico Modugno: piange il telefono. Un altro miracolo?
La prefazione di “Spiegare i miracoli” è del grande Piergiorgio Odifreddi (forse è vicino il giorno in cui fonderò un Odifreddi Fans Club). Per la gioia dei viaggiatori di Cosmotaxi estraggo da quella prefazione intitolata “Alla corte dei miracoli”: .. di fronte ai miracoli veri che la scienza e la tecnologia quotidianamente ci forniscono, dalle medicine ai viaggi intercontinentali, quelli supposti che provocano la meraviglia, la sorpresa, lo stupore che costituiscono il significato etimologico sia del greco 'thauma' sia del latino 'miraculum', sono soltanto veri e propri ‘scherzi da prete’. E, come diceva Totò, se le cose vere le mettiamo di qua, quelle supposte dove dovremmo mettercele? ”.

Maurizio Magnani, “Spiegare i miracoli”, 292 pagine, 13:50 euro, Edizioni Dedalo


L’audiocchio di Riccardo Giagni


Tra le notizie che mi raggiungono di nuove imprese editoriali, ce n’è una che ha suscitato in me particolare interesse per le finalità espressive che si propone e, soprattutto, per il nome che la guida: Riccardo Giagni. Perché è un nome che a quell’impresa garantisce competenza sui contenuti e continuità qualitativa degli stessi.
Lo conobbi molti anni fa alla Rai… 25?... 30?... insomma, secolo più secolo meno, come date siamo lì (e da allora non ci vediamo), ed ebbi modo d’apprezzarne la vivacità intellettuale, la voglia e la capacità d’esplorare l’intersezione fra i nuovi linguaggi.
Non mi meraviglia, quindi, di trovarlo al volante di una neonata collana dell’Editrice Argo: "Ascoltare lo sguardo", dedicata alle relazioni tra suono e immagini.
Prima di dare altre informazioni su questa collana, un rapido sguardo alla bio di Riccardo.
E’ nato a Roma nel 1956 da genitori lucani. Laurea in filosofia, studi musicali presso il Conservatorio dell¹Aquila. Autore e regista radiotelevisivo. Ha lavorato in discografia in qualità di produttore e arrangiatore. Direzione di festival e convegni internazionali legati alla musica e alle arti della visione.
Collaboratore con musei e istituzioni nazionali e internazionali (Centre Georges Pompidou di Parigi, Museo d'Arte Contemporanea di Strasburgo, Sound Art Museum di Roma, Biennale di Venezia). Insegna Storia della musica per il cinema all'Università di Lecce e al Dams attivato presso quella stessa Università.
Ha lavorato con numerosi registi, da Luciano Odorisio a Mimmo Calopresti, da Carlo Lizzani a Massimo Costa, da Egidio Eronico a Guido Chiesa.
Con Sabina Guzzanti ha firmato le musiche originali del programma “Raiot” e dello spettacolo teatrale “Reperto Raiot”. Colonne sonore di Marco Bellocchio (“Sogni infranti”, “La religione della Storia”, “L'ora di religione” - per questo lavoro ha beccato il Premio Internazionale Ennio Flaiano nel 2002 – “Buongiorno, notte”; è alle prese con il prossimo film dello stesso Bellocchio “Il regista di matrimoni”).
E’ stato impegnato da Peter Greenaway a due distinti progetti visivo-acustici.
Mica male, no?
Ora, poiché come vedete del tempo gliene avanza, eccolo dirigere “Ascoltare lo sguardo” di cui vi dicevo prima. Collana che viaggerà nel Mare della Sinestesia di cui è bello vederne le onde con le orecchie e sentirne la risacca con gli occhi.
Stop. Passo a lui la parola affinché presenti questa sua creatura di cellulosa.
Caro Armando, la collana che dirigo per le edizioni Argo - e che vede la luce in questi giorni con l'uscita del volume di Luca Bandirali e Stefano D'Amadio "Buongiorno, notte - Le ragioni e le immagini" - mira soprattutto a dar conto di una nuova, diffusa sensibilità alle ragioni dell'incontro dialettico tra mondo delle immagini e mondo dei suoni, tra acustico e visivo, tra ascolto e sguardo. E proprio il titolo della collana - "Ascoltare lo sguardo" - disegna e promuove, nella sua implausibilità di ordine percettivo, questo strano crinale su cui si è ritrovata a camminare la sparuta, eterodossa, anarcoide pattuglia degli artisti-equilibristi, acustici dell'occhio e visivi dell'orecchio. E' qui, in questa terra di nessuno, che Paradjanov incontra Matthew Barney, che Debord e Tarkovski si ritrovano a studiare insieme l'iconologia, e che J.-L. Godard e la nuova musica elettronica tengono convegno e si danno bel tempo.
Da parte nostra, cercheremo soltanto di intercettare questi incontri paradossali, di documentarne l'impossibilità e insieme la necessità. Nonché di pubblicare e tradurre i libri che ci piacciono. Tra le future uscite:
- Jean-Yves Jouannais "Artistes sans ¦uvres"
- Attilio Coco "Cinema e meridione"
- Sergeij Paradjanov "Sept visions"
- Luca Bandirali "Mario Nascimbene"
- Pierre Berthomieu "La musique de film"
- Paola Marrati "Gilles Deleuze - Cinéma et philosophie"


Per un pugno di web


Da conducente di questo Cosmotaxi, mi càpita di ricevere mail nelle quali si richiede di passare appelli ai miei lettori, affinché s’abbonino, o diano sostegno, alla rivista web ics o ipsilon. Declino quegli inviti. Troppo numerosi. E, spesso, goffamente autoreferenziali.
Oggi faccio un’eccezione. Non ne seguirà un’altra.
L’appello che mi giunge, infatti, espone motivazioni che mi pare valga la pena (o, forse, meglio: la gioia) di patrocinare. E mi fornisce anche l’occasione per una piccola riflessione su vita e destini dei siti culturali sul web, la farò in chiusura di questa nota.
Si tratta di Tuttoteatro.com – in un tempestoso mare con meteo vòlto al peggio, n’è al timone Mariateresa Surianello. Tuttoteatro.com, fu (e speriamo torni ad essere) un valoroso settimanale, ben fatto, articolato in molte sezioni, con finalità di servizio per lo spettatore e anche per chi professionalmente sta in scena o nei pressi.
A farsi testimonial dell’appello, con accenti ragionati, nessuna mozione sentimentale, con la dolcezza e la grazia intellettuale che gli sono proprie, è Claudio Facchinelli
Scrive fra l’altro:
Un mensile ha tempi diversi rispetto a quelli di una rivista web, dove uno spettacolo può essere recensito in tempo reale, e fornire al lettore delle indicazioni su cosa vale la pena di andare a vedere quella sera [...] credo che la voce di Tuttoteatro sia tanto più necessaria oggi, in un momento nel quale la cultura in generale, e quella dello spettacolo in particolare, sta facendo le spese delle scelte demagogiche di chi sta nella stanza dei bottoni […] Per questo mi faccio portavoce e, umilmente, testimonial di questo appello facendo voti che nel nostro paese, oltre al trash televisivo, oltre all'inglese, all'informatica e all'impresa, ritrovi un suo posto anche l'inutile cultura.
Un webmagazine professionalmente gestito – ne so qualcosa proprio perché ne conduco uno, questo su cui siete ora – ha dei costi, inferiori sì a quelli di una rivista stampata, ma non assenti. Francamente penso che l’abbonamento, pur essendo senza dubbio un possibile strumento cui far ricorso, prospetti, rispetto alle pubblicazioni su carta, minori garanzie amministrative. Del resto, il sostentamento attraverso la pubblicità (dopo l’accertata inutilità degli odiosi banners) è del tutto aleatorio, perché una forma di pubblicità adatta ad internet non è stata ancora trovata. C’è la via delle sponsorizzazioni, peraltro difficili da reperire, che, però, apre altri problemi.
Insomma, al momento allegria poca, ma molti stimoli a pensare, a inventare. Forse partendo dalla considerazione che, come inchiostro e bit praticano due diversi linguaggi, i due strumenti si diversifichino anche nella ricerca sul come realizzare profitto, parola che uso senz’alcuna ritrosìa.
Frattanto, trasmetto il messaggio a favore di Tuttoteatro pur con le perplessità poco fa espresse.
Indicazioni su come dare un contributo libero a quel webmagazine, cliccando sulla sezione il settimanale di Tuttoteatro


Todos Nòs


Tito Piscitelli è un giovane regista di Napoli che negli ultimi anni ha diretto spettacoli su testi di Tagore, Mishima, Müller, Bernhard, Fassbinder, per fare solo alcuni nomi. Nomi distanti fra loro per paese d’origine, predilezione di contenuti, stile espressivo, e questo la dice lunga sulla personalità di Piscitelli, vocata alla curiosità culturale, segnata dalla voglia d’esplorazione intellettuale.
Non sorprende allora – o almeno non sorprende troppo – allorché, come accade nel 2002, lo si trova a dirigere un laboratorio teatrale su Romeo e Giulietta con ragazzi delle favelas di Bahia. Da allora lavora con ragazzi in situazione di rischio sociale sia italiani sia brasiliani, realizzando seminari, spettacoli e scambi internazionali.
Il progetto “Todos Nòs – Tutti Noi”, di cui Piscitelli è fondatore, perciò agisce la cultura come strumento d’intervento nel sociale. In quest’ottica, negli ultimi due anni, si è svolta la collaborazione tra l’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli e diversi centri brasiliani che si occupano di minori in situazione di marginalità sociale.
Nel progetto “Todos Nòs -Tutti Noi”, sono presenti: le Organizzazioni Non Governative CRIA (Centro di Riferimento Integrale per gli Adolescenti), Bagunçaço di Salvador da Bahia, e il GTO (Grupo Teatro do Oprimido) del Comune di Santo Andrè - São Paulo.
I giovani brasiliani legati a queste istituzioni hanno lavorato con finalità pedagogiche insieme con giovani napoletani presso il centro ‘Mario e Chiara’ a Marechiaro di Napoli, mentre i giovani napoletani hanno sperimentato con le stesse finalità didattiche lavori brasiliani di musica e teatro.
L’obiettivo, pienamente raggiunto, è stata la formazione di un gruppo inter-istituzionale per la creazione di uno spettacolo di scena collettiva, che sarà presentato al Teatro Nuovo di Napoli il 24 e il 25 Marzo 2005. La rappresentazione sarà anche un’azione di mobilitazione per i diritti di tutti i minori, aldilà delle loro nazionalità d’appartenenza e aldiquà delle piaghe sociali che in tanti paesi (non escluso il nostro) ne segnano le vite.


Sex, Cyborg and Rock ‘n Roll


Giorni fa, recensendo in questa sezione “Homo Cyborg”, libro di Naief Yehya pubblicato dall’ottima casa editrice Elèuthera, rivolgevo un appello a Maria Turchetto pregandola... sono ateo sì, ma riconosco essenza divina alla Turchetto e quindi… di darmi lumi su quel libro circa un angolo che proprio non condivido. Allorché è tracciato, a proposito della diffusa pratica odierna di trasformare il nostro corpo (dettata da motivi estetici o funzionali, dalle labbra al collagene alle protesi di titanio), un temerario parallelo fra nuova scienza e religione cattolica che praticherebbero un’uguale forma di disprezzo per il corpo. Perché non mi pare proprio che da parte del transumanesimo ci sia disprezzo (come testualmente Yehya scrive), bensì superamento dell’attuale corpo, un viaggio verso un neocorpo.
Maria Turchetto, sulla sua home page ha risposto (e qui la ringrazio) a quel mio appello e s’è prodotta in uno dei suoi fulminanti microsaggi che potete leggere cliccando QUI.
Il suo scritto è un esempio di come si possa fare cultura alta tenendosi ben distanti dalla noia, divertendo addirittura il lettore lì condotto per mano (e anche per qualche altro sito anatomico) lungo ardue strade filosofiche illuminate a luci rosse.


Ruggero Jacobbi in scena e su pagina


L’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica ‘Silvio D’Amico’, all’interno del programma “Incontri con la drammaturgia”, ha presentato il libro “Brasile in scena” di Ruggero Jacobbi (Venezia 1920 – Roma 1981) edito da Bulzoni.
Il volume è a cura di Luciana Stegagno Picchio.
Conobbi molti anni fa alla Rai Jacobbi e posseggo una pubblicazione – “Teatro in Brasile”, edita da Cappelli nel 1961 – impreziosita da una sua dedica. Simpatizzammo trovandoci a discorrere di un autore a lui e a me caro, Antonio Pizzuto, cui dedicherà una monografia, pubblicata da La Nuova Italia nel 1975, testo ancora oggi indispensabile a chi voglia accostarsi alla storia critica dello scrittore siciliano.
Ruggero Jacobbi dal 1946 al 1960 ha vissuto in Brasile, contribuendo in modo rilevante allo sviluppo del teatro, del cinema e della televisione nella repubblica sudamericana e all’interscambio culturale fra questa e l’Italia, con traduzioni, antologie e articoli. Divenuto ben presto scrittore bilingue, pubblicò versi e prose in lingua portoghese, nella stessa lingua scrisse e fece rappresentare alcune opere teatrali e pubblicarne altre.
Fu anche direttore del Teatro Brasiliero de Comédia di San Paolo, del Centro de Estudos Cinematograficos, della stazione TV-Paulista Canal 5… no, niente a che vedere con la televisione di proprietà del noto piazzista col parrucchino… è stato direttore della Scuola del Piccolo Teatro di Milano e direttore dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica ‘Silvio D’Amico’.
Come accade a tutti quelli che praticano un generoso spreco di sé, Jacobbi, aldilà dei volumi, vede diffusa, e smarrita, l’opera sua in una sterminata serie di scritti critici e creativi, da poesie a saggi, da prefazioni ad articoli, che spaziano dalla letteratura al teatro. Chissà se un giorno riusciremo a godere di un’edizione che raccolga quelle disperse pagine. Ne dubito, vista la vastità degli scritti e il loro mercuriale scorrere.
Concludo ricordando a chi volesse saperne di più sul suo profilo intellettuale: “Diciotto saggi su Ruggero Jacobbi. Atti delle giornate di studio 23-24 marzo 1984”, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Gabinetto Vieusseux, 1987.
In perniciosa armonia con quanto prima dicevo, è una pubblicazione che avevo un tempo e purtroppo non posseggo più, perduta in uno dei miei traslochi. Quando Jacobbi non ce la fa a disperdersi da solo, ci pensa qualche fattorino di ditte di trasporto.

Ruggero Jacobbi, “Brasile in scena”, 434 pagine, 30:00 euro, Bulzoni Editore


Editoriale Scienza: come istruire divertendo


Da anni l’Editoriale Scienza, guidata da Sabina Stavro, propone i migliori libri acquistabili in Italia di divulgazione scientifica per ragazzi.
Quello di cui ora vi dirò è un titolo maiuscolo, ma se scorrete il catalogo cliccando sul sito dell’Editrice, ne troverete altri.
Un regalino a uno dei vostri figli oppure figli d’amici che abbiano fra i 7 e i 9 anni (i loro figli, non i vostri amici)? Ecco: “L’officina della Scienza” di Gwen Diehn e Terry Krautwurst.
Segnatevi i nomi, sono parecchio ostici da ricordare (io a scriverli avrò sbagliato 23 volte circa), insomma se vi fidate della vostra memoria finirete col fare scena muta davanti al libraio.
“L’officina della scienza” è un libro incantevole, in meno di 150 pagine è capace di divertire e istruire i ragazzi. Attraverso i quattro elementi: terra – aria – acqua – fuoco, propone indicazioni per realizzare 50 progetti contenuti nel volume.
Si comincia con la preparazione del diario dell’officina che accompagnerà l’esplorazione.
Poi, inizia l’avventura.
Terra: costruzione del capanno d’osservazione, del periscopio, il muffario, il vermicaio, il radioscopio;
Aria: indagine su suoni con le campane e lo xilofono, sulle vedute con il fonovisore e il nuvoloscopio, costruzione di veicoli aerei, come la mongolfiera, l’aquilone a reazione, l’elicottero;
Acqua: onde e tornadi in bottiglia, ministagno, mulino ad acqua, motoscafi;
Fuoco: l’orologio solare, il forno solare, la pietra lucente, l’eliobussola, il calibro stellare.
Concludendo: un’officina completa, un libro da leggere e con cui giocare istruendosi.
Un libro utile, in una scuola che devastata dalla sciura Moratti è ogni giorno più inutile.

Gwen Diehn e Terry Krautwurst, “L’officina della scienza”
144 pagine, 19:90 euro, Editoriale Scienza


Quando ad Andrea Cernotto gli gira l’Elica


Su Cosmotaxi, mi piace ospitare notizie su produzioni meno note al pubblico ma che, almeno a mio insindacabile e tirannico giudizio, sono ben meritevoli d’essere citate.
E’ il caso oggi di una casa discografica: Elica .
A guidarne i giri: Andrea Cernotto.
A chi cerca sue note biografiche, succede d’imbattersi, com’è capitato a me, in una laconica, e un po’ enigmistica nota che così recita: “Nato nella città con il carnevale più bello del mondo l’anno prima del primo convegno italiano per un nuovo teatro che ivi si tenne, Andrea Cernotto sì è appassionato alla musica, al cinema, alle arti visive, alle fontane, alla consumazione di cibo e bevande, alla filosofia del piacere e ad altre cose, e già da qualche anno è ossessionato dall’opera di Roland Topor”.
Ma poi, in fondo, questa nota, a ben pensarci, tanto enigmatica non è perché dà il ritratto di un uomo che ha scelto per mestiere d’essere un curioso ed io uso dire: “In verità, in verità vi dico, beati i curiosi perché di essi è il cielo dei regni”.
Torniamo ad Elica e al suo Barone Rosso che ne manovra le imprese.
Gli ho chiesto di parlarmi di questa casa discografica e lui mi ha così risposto.
Nata dalla non morta Nepless, Elica è un’etichetta discografica che a differenza di sua sorella (che però non si chiama Luce) non attua alcuna documentazione rigorosa, ma propone registrazioni che ritiene importante che vengano ascoltate o ri-ascoltate. Per questo nel catalogo si può trovare del jazz rock italiano d’avanguardia (Confusional Quartet, Dedalus), la musica elettroacustica francese (Luc Ferrari, André Almuro), un’indescrivibile colonna sonora sperimentale (Tacet), l’eccentricità psichedelica inglese (Vitamin B12), la sperimentazione intuitiva italiana (Marco Bertoni) e l’improvvisazione competitiva americana (Coffee). E per questo i progetti in corso spaziano dalla ricerca vocale (Demetrio Stratos, New Machine Voice) all’improvvisazione elettroacustica (Gentle Fire), dalla musica ‘bruta’ di artisti visivi (Asger Jorn & Jean Dubuffet) al rock sperimentale (Metabolist).
Aspetto che Andrea salga presto per un’altra corsa su Cosmotaxi per raccontarci nuove cose di Elica, nel frattempo dalla radio di bordo sento provenire una canzone:
…e gira gira gira gira l'elica
e gira gira che piove e nevica
per noi ragazzi di terza classe
che per non morire si va in America...

Casa discografica Elica, per ordinazioni e contatti: eadelica@tin.it


Giordano Bruno 405 anni dopo


Questo mese ricorrono due date che riguardano due pilastri del pensiero laico: Darwin
(il 12 febbraio, anniversario della sua nascita) e Giordano Bruno (il 17, anniversario della sua morte). Di tali ricorrenze, con rimarchevoli scritti critici se n’occupa – et pour cause! – il più recente numero del bimestrale L'Ateo.
Ai più distratti ricordo che Bruno mentre si trovava nel 1591 a Venezia, lì invitato dal nobile (si fa per dire) Giovanni Mocenigo, fu denunciato dal Mocenigo stesso (…accidenti che ospitalità! direbbe Buster Keaton) all’Inquisizione. Processato a Venezia prima e a Roma poi, non avendo ritrattato le sue idee, fu condannato al rogo.
A Roma, giovedì 17, a partire dalle 16:30, L’Associazionale Nazionale del libero pensiero "Giordano Bruno", con il patrocinio del Comune, celebrerà il grande filosofo martire della libertà di coscienza.
Chi a Roma abita, o vi si trovasse di passaggio, può portare, com’è consuetudine ogni anno, un tributo di gratitudine al Nolano, unendosi alla manifestazione, e deponendo ai piedi della statua a Campo de’ Fiori, dove il rogo arse, un fiore, un proprio scritto, un pensiero, che ricordi Bruno ed il suo sacrificio.
Il programma – coordinato da Maria Mantello, Presidentessa della Sez. romana dell’Associazione – prevede un nutrito numero d’interventi e performances. Tanti i nomi. I pochi amici che mi conoscono lo sanno, sono uno scansafatiche, e rinuncio ad elencare. Fra i nomi, però, ne ho letto uno che tempo fa è salito per una corsa su questo mio veicolo spaziale e che, poi, non mi è più capitato d’averlo a bordo. Ecco Adriano Petta ora dove si trova, mi sono detto, hai visto mai gli servisse un Cosmotaxi?
Insomma, siamo intesi, in ricordo di Giordano Bruno: giovedì 17 febbraio a Campo de’ Fiori.
Se non mi vedete sotto la statua, don’t panic please!... mi troverete in una delle vinerie della piazza. E’ quello il mio modo di celebrare Giordano Bruno. Perché proprio in vineria? Beh… perché… ehm… insomma, via, si sa, per me ogni occasione è buona.


Elèuthera: l’isola che c’è


Esistono case editrici che accudiscono i propri clienti-lettori, e case editrici che vanno accudite dai propri lettori-clienti, come nel caso di Elèuthera.
V’invito qui a farlo, ne vale la pena.
E, forse, pronunciata tale esortazione da me, ha un suo piccolo rilievo proprio perché sono estraneo al pensiero politico che ispira Elèuthera e, quindi, voce non adepta.
In una delle stagioni più oscure per la comunicazione e la cultura, quale quella che stiamo vivendo in Italia (periodo peggiore, probabilmente, perfino di quello attraversato nei bui anni ’50 di strapotere dc), con giornali, editrici, radio, televisioni, oggi spadroneggiate da un parrucchino solo, ben vengano suoni antagonisti che con coraggio e qualità contrastino il coro impostoci.
Elèuthera, rappresenta una delle versioni di quel suono; è d’accogliere con gioia.
Vi confesso che quando ho letta quella parola – Elèuthera – non sapevo di che cosa si trattasse… devo vergognarmene?... vabbè mi vergogno e stopbasta… contenti ora?... non vi sapevo tutti così colti!… ma poiché immagino di non essere proprio il solo a non saperne, copio e incollo dal loro sito l’illuminante, e significativa, spiegazione. Ecco qua:
Elèuthera in greco vuol dire libera. Ma è anche il nome che diedero a un'isola delle Bahamas gli eleutheriani, eretici inglesi che, scappati dall'Europa a causa delle persecuzioni religiose, costituirono nel Seicento la prima Repubblica del mondo nuovo, formando una comunità di ‘liberi ed eguali’. Un'utopia realizzata che ben s'adatta allo spirito e alle intenzioni di Elèuthera.
Fondata nel 1986, conta oggi oltre 150 titoli articolati in una ragionata serie di collane immaginarie. Già, ragionate e immaginarie, proprio così. Perché essendo titoli che viaggiano in zone di confine tra più applicazioni, l’Editrice ha preferito giustamente indicare con la dizione “percorsi di lettura” la dislocazione in catalogo dei volumi. Libri che appartengono in massima parte all’area saggistica, ma è presente anche la narrativa, dove con mia grande felicità ho notato che l’autore più pubblicato – sei titoli finora – è il grande Kurt Vonnegut.
A concludere. Come ho cominciato. Ecco una casa editrice che va accudita dai lettori e da quanti – redattori della carta stampata, del web, dell’etere – hanno a cuore libri intelligenti e fuori del coro.


L’Homo Cyborg su Elèuthera


Su Elèuthera, di cui prima vi dicevo, è sbarcato l’Homo Cyborg dell’ingegnere, giornalista, e scrittore Naief Yehya, nato a Città del Messico nel 1963.
“Homo Cyborg” è il titolo del suo libro che esplora in senso tecnologico e filosofico il corpo postumano tra realtà e fantascienza.
Libro interessantissimo, tanto documentato sulle ricerche che si svolgono ai nostri giorni in laboratori di genetica e d’informatica quanto sui risvolti del moderno dibattito d’idee sul futuro prossimo e meno prossimo.
Yehia si dichiara lontano dalla tecnofilia e dalla tecnofobia, ma con grande onestà intellettuale anticipa, in prefazione, il suo punto di vista politico avvertendo il lettore che sì “il metodo scientifico è per definizione esente dalle ideologie, ma non si trovano nella stessa condizione i direttori d’istituti e corporazioni scientifiche, né tanto meno coloro che sovvenzionano i programmi di ricerca”. Da qui discenderanno, nel corso degli avvincenti capitoli, accanto a esultanze per i possibili traguardi che gli umani (e i postumani) raggiungeranno, anche allarmi per l’uso di molti quei risultati da parte di circoli politico-militari internazionali e vertici affaristici. Del resto, però, aggiungo io, non mi sembra cosa nuova; il telescopio prima ancora d’essere usato in astronomia fu presentato, da Galilei in persona, il 25 agosto del 1606 ai capi militari veneti. Insomma, piaccia o non, larga parte della scienza e tutta la tecnologia nasce e s’afferma in area militare... sigh!
Yehya, grandissimo divulgatore, capace di rendere di facile accesso concetti aspri (splendida ad esempio la capacità di tracciare in pochissime righe la differenza fra androide, robot e cyborg), tratta la materia con esplorazioni non solo del campo scientifico, ma con dotti e godibili attraversamenti che spaziano dal cinema al fumetto alla letteratura.
Insomma un libro che consiglio anche a chi non è direttamente interessato al tema del cyborg, delle sue realtà e delle sue metafore, perché sono pagine che illuminano un dibattito ben più vasto: i contenuti e gli sviluppi del transumanesimo fra estropia e distopia.
Un elogio particolare lo voglio dedicare ai due traduttori dallo spagnolo – Carlo Milani e Raul Schenardi – che hanno reso il testo di scorrevole lettura pur operando su di un lessico che, incrociando umanesimo e scienza propone, specie alla lingua italiana, parecchi problemi, da loro risolti benissimo.
Solo applausi dunque? No. C’è una cosa nelle pagine di Naief Yehya che mi vede assolutamente in disaccordo. Allorché, a proposito della diffusa pratica odierna di trasformare il nostro corpo (dettata da motivi estetici o funzionali, dalle labbra al collagene alle protesi di titanio), si produce in un temerario parallelo fra nuova scienza e religione cattolica che praticherebbero un’uguale forma di disprezzo per il corpo. Leggo, infatti, con disagio: “Il rifiuto della carne peccatrice si è introdotto nella dottrina cristiana e sopravvive nella cultura che ha inventato i missili, le comunicazioni digitali, la bioingegneria…” no, non mi pare proprio che da parte del trasumanesimo ci sia disprezzo (come testualmente lui scrive), bensì superamento dell’attuale corpo, un viaggio verso un neocorpo.
Su questo sdrucciolevole sentiero, Yehya scivola nuovamente quando azzarda paralleli fra la vita sessuale cibernetica e i sessuofobici assiomi cristiani. Da ateo e tecnofilo quale sono, leggendo quei passaggi mi sono sentito male e, per riprendermi, mi sono affidato a una flebo di Nebbiolo, Castello di Verduno, 2003.
Se Maria Turchetto che dirige il bimestrale “L’Ateo” è in ascolto, prego quella Maestra Sulfurea di recensire quest’angolo del pensiero di Yehya.
Aldilà di questa mia dissidenza, torno a consigliare la lettura di questo volumetto perché ha numerosi e notevoli pregi di documentazione e interpretazione sul futuro che ci attende.

Naief Yehya, “Homo Cyborg”, 160 pagine, 14:00 euro, Elèuthera Editrice


Le strategie del testo


Di Francesco Muzzioli seguo da anni il lavoro critico felicemente alternato a quello creativo… chissà perché si dice così… ma la critica se innova (è il caso di Muzzioli) non è forse essa stessa creativa?...boh!... rinuncio ad andare avanti su questo tema, correrei troppi rischi di balbutire.
Muzzioli, ecco un nome che stimo molto e con gioia apprendo ogni sua nuova produzione.
Insegna Teoria della letteratura all’Università di Roma “La Sapienza”. La sua ricerca sulla letteratura ha riguardato sia la discussione e il confronto delle posizioni teoriche, sia il riesame critico del Novecento letterario italiano, privilegiando le punte di avanguardia e di sperimentalismo. Ha pubblicato numerosi libri di critica su autori novecenteschi. È autore de “La letteratura italiana del primo Novecento“ (con Marcello Carlino), 1986, e “Le teorie della critica letteraria“, 1994 (entrambi i titoli per La Nuova Italia Scientifica), “Teorie letterarie contemporanee” (Carocci, 2000). Per Meltemi: “L’alternativa letteraria” nel 2001, e ora questo volume di cui parleremo: Le strategie del testo.
Suoi scritti anche su "Quaderni di critica" e riviste web, quali "Karenina" e "Mu”.
Ricordo, inoltre, ‘una specie di romanzo’, “Il bizzarro caso dell'uomo ameboide”, Latium, 1988; un libro di poesie, “Materiale comune”, Fermenti, 1999; e una raccolta di scritti da lui detti ‘teatraleggianti’, “Recitazioni”, stampato nel 2000 da Le impronte degli uccelli.
Un’interessante intervista con Muzzioli - oltre quella già segnalata in apertura di questa nota - la potete trovare anche cliccando su Mediamente, non è recente, è del ‘97 (ve l’immaginate la Rai di Gasparri e Cattaneo che mettono su alla Rai un sito come quello che ho ora indicato?... no?... neppure io); l'intervista però, nonostante il tempo trascorso, è ancora attuale, cosa questa che la dice lunga sullo sguardo d’aquila posseduto dall’intervistato.
Veniamo a “Le strategie del testo”.
Vi propongo estratti dal quarto di copertina che – ogni tanto succede – non è un bugiardino, dice la verità. E così la dice: “Dalla pubblicità ai talk show politici, dall’organizzazione del lavoro alla conversazione quotidiana, siamo avvolti da messaggi densi di intenzioni pragmatiche, che continuano a utilizzare, anche se non ce ne accorgiamo, le risorse della antichissima “arte della parola”: la retorica […] Questo libro si propone di partire proprio da un riesame degli strumenti offerti dall’antica retorica, passati però attraverso il filtro degli sviluppi moderni e del dibattito teorico più aggiornato […] Il volume passa in rassegna una nutrita serie di brani provenienti da epoche e da aree geografiche disparate, ricavandone un parco-esempi rimesso a nuovo rispetto a quello, un po’ trito, passato da un manuale all’altro. Le nozioni e i procedimenti esposti in ciascun capitolo vengono poi utilizzati per avvicinare la materia viva della scrittura in alcune letture-campione di testi tratti da opere di spicco delle letterature contemporanee, di genere poetico, narrativo, dialogico e saggistico”.
Fin qui il quarto di copertina, ma per saperne di più ho chiesto all’autore di aggiungere qualcosa a quello scritto. Sì, lo ammetto, sono vorace. Muzzioli, così mi ha risposto:
A lungo la teoria della letteratura ha discusso sull’oggettività o meno dell’interpretazione, senza riuscire a decidere se il significato debba essere assodato con metodo scientifico, oppure se sia quello che a ciascuno viene in mente leggendo. Per uscire da questa impasse, mi sono affidato alla nozione di “strategia”: pensare strategicamente significa ipotizzare un’intenzione, però sempre “relativa” e solo probabile (se giochi a carte, cerchi di indovinare cosa fa l’avversario). Pensare strategicamente i testi letterari significa considerarli come insiemi di mosse, tese a valorizzare certi segni e certe idee implicite. Per capirle, può tornar utile il vecchio armamentario della retorica. La retorica ha il vantaggio di unire lo sguardo microscopico (che vede in una singola parola una metafora o una metonimia) con lo sguardo ampio della persuasione sulle grandi questioni del mondo. Inoltre, la retorica attraversa tutti i discorsi e ci può aiutare a tenere insieme l’analisi della letteratura e quella della comunicazione di massa, che oggi si tende troppo a separare. Infine, ho voluto aggiungere alcune letture-campione di testi moderni, perché credo sia importante toccare con mano, in concreto, a cosa può servire il lavoro di scavo all’interno del testo.

Francesco Muzzioli, “Le strategie del testo”, 264 pagine, 20:50 euro, Meltemi


Ovidio in Motion Capture


Maurizio Grande anni fa si chiedeva: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?”
A quelle domande mi ha fatto pensare l’annuncio che ho ricevuto di un’impresa scenica, proposta dal Progetto Enigma, di cui dirò appresso, che promette assai bene. Si tratta di “Mutatas Dicere Formas”, episodi multimediali dalle ‘Metamorfosi’ di Publio Ovidio Nasone, il grande poeta latino nato a Sulmona nel 43 a.C. e morto a Tomi, Mar Nero, nel 17 o 18 (la data è, infatti, incerta) d.C.
Nello spettacolo gli attori – Simona Generali, Edmarcia Andrade, Alessio De Caprio – sono in scena a Roma, al Museo Civico di Zoologia (niente battutacce, please!), l’11 febbraio alle 21:15 e il giorno dopo alle 17:30, proponendo un originale percorso espressivo. Agiranno, infatti, non solo con le tradizionali tecniche fisiche, ma anche con l’ausilio della Motion Capture - elaborazioni interattive d’Andrea Brogi – che, lo dico a beneficio dei non addetti ai lavori, è una macchina in grado di rilevare il movimento del corpo trasformando le sembianze degli interpreti.
Giusta scelta di regìa di Gabriele Ciaccia, su drammaturgia ideata da Luigi Maria Musati, perché tra i grandi testi della cultura classica, le Metamorfosi d’Ovidio sono la porta dell’immaginario; miti, dèi e semidei appaiono coinvolti nel gioco dei nascondimenti e delle epifanie, delle passioni e delle finzioni, delle metamorfosi appunto, dove la psiche diventa simbolo materico, animale, vegetale, e dove la dimensione del tempo è quella delle vite che continuano da uno stadio all’altro dei mondi naturali e soprannaturali. E così, com’ebbe a dire Italo Calvino, “le forme e le storie terrestri ripetono forme e storie celesti ma le une e le altre s’avvolgono a vicenda in una doppia spirale”.
Questi confini indistinti sono i confini indistinti del teatro, si sono detti Musati e Ciaccia, di un teatro che vive di metamorfosi della sua struttura vitale così come delle sue forme. La ricerca sulla scrittura scenica, sulla figurazione, sulla multimedialità sono, quindi, al centro dell’allestimento di “Mutatas Dicere Formas”.
Enigma, è il progetto di formazione sulla scena immateriale, l'applicazione al lavoro dell'attore del sistema Motion capture, che l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica, promotrice dello spettacolo, ha istituito nel 2002.
Al progetto concorrono una serie di sigle, un intricato quanto valoroso intreccio di produzioni, coproduzioni, patrocinii, rinuncio ad elencare. Anche perché, Cosmotaxi, come sanno i generosi lettori di queste mie note, più che riferire in senso strettamente informativo, predilige riflettere su quanto propongono le occasioni editoriali, stampate, audiovisive, sceniche, etc.
Ecco perché presto tornerò ad occuparmi di quest’argomento con alcuni dei protagonisti di quest’impresa.

Ingresso gratuito con prenotazione al numero 06 - 36 000 151, dalle ore 11 alle ore 18
Ufficio stampa e promozione: Emanuela Rea, 06 - 68 61 219 oppure 333 – 85 37 295


L’urlo e il furore dei KK


A Roma, all’Auditorium, domenica 13 febbraio s’avrà la serata inaugurale della rassegna "Equilibrio”, in collaborazione con il Festival Uovo. Si tratta d’un percorso di performances e installazioni negli splendidi spazi progettati da Renzo Piano.
Danzatori, performers, artisti di circo, videomakers, musicisti, presenteranno progetti già esistenti o creati per l'occasione, in un itinerario che rifletterà la diversità e la ricchezza dei tracciati di sperimentazione legati al corpo.
Per maggiori informazioni sul programma, cliccate con fiducia QUI.
Tra i protagonisti – tutti selezionati ad alto livello - che sarà possibile vedere all’opera, c’e un gruppo che da tempo sostengo con convinzione: Kinkaleri.
Produrranno un’installazione sonora – e forse felicemente assordante – che rappresenta una versione acustica del lavoro che da anni svolgono su più registri e più media.
Titolo: “Auditorium”, omaggio al luogo che li accoglie perché si tratta di un’impresa fonica realizzata proprio a Roma, per le sue strade, e luogo più adatto dell’Auditorium di Viale de Coubertin non potevano trovarlo per presentare questa raccolta di voci, echi e suoni.
Ho chiesto loro di parlare di questa fatica per gole e orecchie, così hanno risposto.
Posso urlare in un microfono portatile collegato ad un sistema di registrazione digitale. Posso farlo per la durata che mi riesce pensando di essere in montagna e spingere la mia voce verso la valle, oppure imitando la rabbia dell’incredibile Hulk.
Posso non pensare a niente quando lo faccio. Urlare è più facile che cadere.
Un gesto compiuto, un urlo raccolto in strada tra la gente; raccolto, dunque inscatolato, in un apparato tecnico e differito nel tempo collocandolo in una Serra chiusa ma accessibile. Dell’interno si vede tutto: mucchi di casse acustiche sovrapposte, cavi e lettori sotto la luce usuale. Un sistema di amplificazione adeguato allo spazio, e oltre quello spazio, che lo possa travalicare insomma, che possa udirsi compresso e dilagante allo stesso tempo.
L'installazione si fa vedere e ascoltare e il suo dire è un urlo che ci riguarda: forma di rivolta o sofferenza. Un segnale. Un ritmo diseguale tra soggetti diversi, e urla come di richiamo, distanza e vicinanza dalle cose di questo mondo.
Un segnale di violenza, senza retorica e senza stile
.
Tutto chiaro? Forse sì, forse no. Ma una maniera per saperne di più c’è: andare a sentirli.
Io, ve lo consiglio.


Attenti a quei due!


Sono fra quei fortunati che nel 1987 lessero “Il fermo volere” di Gabriele Frasca edito dalla casa milanese ‘Corpo 10’.
Molto mi piacque quella scrittura veloce e cantata, tutta immagini, con la profondità narrativa volutamente affidata alla superficie ritmica della grafia. Conclusa la lettura, mi dissi “Sembra un fumetto”. Ora, si sa, io non ne azzecco una che è una, e tutta la mia vita è trascorsa tra tanti abbagli e alquanti sbagli, ma stavolta (quando la Fortuna vuole, t’aiuta), ci ho preso. Roba da segnarsela in un diario. E, infatti, “Il fermo volere” è uscito, 17 anni dopo la prima edizione, in una forma originalissima - per le Edizioni d'if guidate da Nietta Caridei - laddove alla pagina scritta segue un’altra disegnata in un violento b/n (con molto bianco e tanto noir) dovuto alle matite di Luca Dalisi.
Scrive acutamente Gino Frezza nella postfazione: “…ma sarebbe ingiusto e miope pensare che le immagini di Dalisi siano un semplice supplemento o complemento. Questa seconda versione de ‘Il fermo volere’ è da ritenersi opera soltanto sulla base degli incroci fra la scrittura di Frasca e i disegni di Dalisi, unitariamente strutturata, anzi tessuta, su di un piano intermediale/intramediale, fra visivo e testualità, senza alcuna subordinazione o dominanza dell’uno sull’altra.
Luca Dalisi è nato a Napoli nel 1969, disegnatore e grafico, ha creato i personaggi di Da Silly Cowboy, il Fa, l’Orlando Matto, ha illustrato copertine per le case editrici Cronopio, L’isola dei Ragazzi, Massa e la rivista Chaosmos.
A lui ho chiesto di parlarmi di questo libro e del suo lavoro. Così mi ha risposto.
Pagina pari, pagina dispari…. una tavola vorticante di parole, una pagina vorticante di vignette… l’occhio del malcapitato lettore è costretto a rimbalzare costantemente tra immagine e suono, a seguire lo sdoppiamento del protagonista Daniele Beretta/Spirit tra i piani contrapposti e sequenziali di una tavola a fumetti e una pagina scritta che si alternano in un’opera anfibia, che si può leggere e guardare, leggere o guardare, con messa a fuoco doppia ovvero strabica: è questa la scommessa, o l’esperimento, nato dalla penna di Gabriele e dai miei pennelli. Scrittura e disegno richiamano l’occhio a ricomporre la vicenda noir di un tizio non troppo sano di mente che nell’allegra e feroce Italia degli anni Ottanta smette i panni dell’archivista Daniele Beretta per assumere per sempre quelli di Spirit, popolare eroe di carta del grande e compianto Will Eisner: e pertanto vive la sua vita come un personaggio dei fumetti, in un mondo che lui vuole bidimensionale e univoco, senza l’ambiguità dei volumi (e del desiderio). Ma “Dio non ha un piano”… e dunque tra scienziati pazzi, psicoanalisti craxiani e femmes fatales con relativo doppio si vorticherà ineluttabilmente verso la catastrofe finale. Sdoppiamenti e dissoluzioni dell’io che il lettore/spettatore “vede” nello specchiarsi delle due forme letterarie (romanzo e fumetto), poi nello sfaldarsi delle vignette e nell’andamento del ritmo narrativo, ciclico come la (incestuosa?) sestina di Arnaut Daniel 'lo ferm voler qu’el cor m’intra'…
Ancora una cosa: a conferma dell’intermedialità di cui dice Frezza, il libro è accompagnato da un CD (‘Merrie Melodies’) con parole di Gabriele Frasca, musiche e voce di Steven Brown. E leggo, senza sorprendermi, che dietro l’edizione integrale di questa eccellente operazione verbomusicale, c’è il mio amico Pinotto Fava, profeta laico della multimedialità, che la volle produrre anni fa per Radio Rai.

Gabriele Frasca & Luca Dalisi, “Il fermo volere”
Edizioni d'if, 316 pagine+Cd, per chi ordina via mail 25:00 euro invece di 35:00


Il primo dell’anno


E’ uscito il primo numero del 2005 de L’Ateo bimestrale dell’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.
Se gli atei fossero animali, che animali sarebbero?, parte così il funambolico editoriale di Maria Turchetto che dirige la rivista. Non svelerò a quale conclusione arriva la fascinosa penna che traccia quella graffiante domanda, per saperlo abbonatevi alla pubblicazione, più avanti segnalerò le modalità per farlo.
Larga parte della rivista è dedicata a Darwin (il 12 febbraio, anniversario della sua nascita) e a Giordano Bruno (il 17, anniversario della sua morte) con articoli del cartoonist Maurizio Di Bona (sta lavorando ad un “romanzo grafico” su Giordano Bruno), Marco Accorti che traccia una storia del monumento di Campo de’ Fiori al Nolano, dell’entomologo Giorgio Celli, di Paolo Coccia specialista d’informazione scientifica, e ancora di Flavio Pietrobelli, di Maurizio Marconi.
Bruno e Darwin hanno provocato, dice Celli, “un vero e proprio cataclisma rifondatore, ponendo di nuovo in causa il senso, e il posto, dell’uomo nel cosmo”.
E Maria Turchetto: La detronizzazione di Dio passa per la detronizzazione dell’Uomo: ciò che si fa togliendolo dal centro del cosmo aristotelico-tomistico, per scaraventarlo su una palla di fango persa fra gli ‘infiniti mondi’.

L’Ateo, CP 749 – 35100 Padova, tel-fax: 049 – 876 23 05,
Abbonamento, per 1 anno (6 numeri), 15:00 euro


Billi the King


L’editore Bruno Mondadori ha pubblicato “Architettura, Tempo, Eternità: il simbolismo degli astri e del tempo nell’architettura della Tradizione”, di Adrian Snodgrass. L’autore, nato nel 1931, ha vissuto in India, in Giappone, a Hong Kong e in Indonesia, ha praticato come architetto e insegna Architettura e filosofia ermeneutica all’Università di Sydney; ha pubblicato nel 1985 un libro fondamentale sullo Stupa buddhista, 'The Symbolism of the Stupa', e, nel 1988, un vasto studio sui Mandala del buddhismo Shingon.
Questo libro studia le relazioni fra l’eternità degli astri e la misura del costruire.
Le grandi architetture del mondo – Stupa, Templi in forma di Mandala, Piramidi, edifici a pianta centrale, Moschee e Cattedrali - vengono mostrate come simboli, riflesso e miniatura dei fenomeni cosmici.
Il libro è a cura di Gugliemo Bilancioni, per gli amici Billi, che firma anche la prefazione dalla quale estraggo un passaggio: L’architettura, come il fuoco di Prometeo, separa la cultura dalla natura, il discreto dal continuo, e unisce il tempo e lo spazio mentre estrae l’oggetto definito dall’indistinto indifferenziato; essa è universale particolarità, entità separata e limite misurato, ed è sacra in quanto tale per questo: nei testi più antichi dell’umanità è già scritto che l’esistenza è tratta dalla non-esistenza attraverso la misurazione. Nell’architettura dei tempi remoti si cela la matrice matematica dell’essere. […] Questo libro di Snodgrass, studia forme determinate nel vortice roteante di differenti miti cosmogonici, proiezioni e irraggiamenti, orientamenti verso gli dèi, teoremi astrali e rituali ciclici di fondazione. Esso è, in senso proprio, una storia dell’archetipo, dei suoi molti nomi e della sua unica Forma.
Billi Bilancioni ha pubblicato precedentemente: “Il primo Behrens. Origini del moderno in architettura” (Sansoni, 1981); “Achitectura esoterica. Geometria e teosofia in J.L.L. Lauweriks” (Sellerio, 1991); “Aedilitia di Piero Portaluppi” (Città Studi, 1993); “Eugenio Fuselli. Poesia e Urbanistica (Pendragon, 1994); Spirito fantastico e architettura moderna” (Pendragon, 2000).
Tale imponente apparato di dottrina può far pensare ad un autore raccolto solo su pergamene e incunaboli e, invece, si muove con la stessa destrezza fra bytes e frames; riferisce una visione di Graham Hancock con la stessa competenza di cui vi parlerà di un video dell’omonimo Herbie; analizza cinema, fumetto, rock, con la medesima agilità intellettuale che ha nell’interpretare Akasha, Vahâna e Rajas. Uomo quindi dalle plurali epifanie, possiede una scrittura corsiva e corsara capace d’illuminare più angoli di mondo.
Mi vanto di conoscere Billi da anni, e da anni di questo moderno Mevlana (nostro Maestro) ne ammiro la magistrale danza derviscia fra luci soffuse di lontani ipermondi e lampi stroboscopici da discoteca.
Mi piace chiudere questa nota con una frase che concludeva un suo saggio di anni fa dedicato all’alchimia del mattone: Nel mattone, che è cortina e fondamento, pietra fabbricata e minerale vegetale, giace, assieme alla voragine rutilante dei compossibili, la calma grande di ciò che Sta .

Adrian Snodgrass, “Architettura, Tempo, Eternità”, prefazione di Gugliemo Bilancioni, Bruno Mondadori editore, 596 pagine, 45:00 euro


Il senso della posizione


“Che senso ha oggi leggere i romanzi? O meglio, che senso ha leggere i romanzi contemporanei? Perché un motivo per leggere Cervantes, Kafka, Musil, Melville, Garcia Marquez, Joyce, Calvino, in una parola “i classici”, anche in questi tempi dominati dai flussi digitali e telematici, lo si trova sempre. Che senso ha invece leggere i romanzi che parlano del presente, delle nostre vite, del mondo che abitiamo?”
Queste le domande dalle quali è partito Emiliano Ilardi nello scrivere “Il senso della posizione” che indaga su ‘romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard’ così come recita il sottotitolo di questo interessante saggio, da poco in libreria, edito da Meltemi che da tempo ci vizia con pubblicazioni di gran pregio.
Emiliano Ilardi ha conseguito il dottorato in Teoria della letteratura e Letterature comparate a Barcellona. Attualmente è assegnista di ricerca presso l¹Istituto di Comunicazione e Spettacolo della Facoltà di Sociologia dell¹Università di Urbino. Collabora con il modulo di Letteratura e comunicazione della stessa università e con riviste specialistiche.
Mi trovo qui a parlare, e ad elogiare, questo lavoro pur essendo lontano dall’amore per il romanzo che trovo, oggi, forma obsoleta d’espressione alla stessa stregua del teatro di parola, dei quadri pittati, della poesia lineare, e via disco-orrendo. Mai perdonerò, ad esempio, all’amico Marcello Baraghini di avere impresso (nonostante lo scongiurassi di non farlo) la dizione ‘romanzo’ sulla copertina del mio “Film senza Film” che ha tantissime colpe – prima fra tutte d’esistere - ma tranne quella d’essere un romanzo!
Credo che avesse molta ragione Giorgio Manganelli quando affermava: “Basta che un libro sia un ‘romanzo’ per assumere un connotato losco”.
Cosmotaxi, però, mai si macchia di fondamentalismo perciò mi piace ospitare anche voci diverse (italoforzuti a parte, s’intende) dai cattivi pensieri del suo conducente.
Soprattutto – anzi solamente – quando si tratta di voci intelligenti com’è quella di Ilardi che ha scritto un saggio con un originale punto di vista sulla questione che è trattata in modo dotto, e mai pedante, con un valoroso apparato di note ai capitoli e un’accuratissima bibliografia che dice della serietà con la quale è stata affrontata la materia.
Compratelo, e leggetelo, questo libro perché esprime un punto di vista nuovo sul tema, attraverso una scrupolosa ricognizione storico-critica sulle motivazioni che portano l’autore alle conclusioni cui arriva. Un libro importante per gli addetti ai lavori, ma anche per i lettori di romanzi (esclusi, è ovvio, quelli che frequentano Tammaro o Faletti) cui fornisce inediti strumenti di riflessione su quel genere letterario.
Ho chiesto ad Emiliano Ilardi di offrire ai miei 26 lettori… sì, io ce ne ho uno in più, mbè?...
una dichiarazione sul suo lavoro. Così mi ha risposto: Con la definitiva messa in crisi del concetto di produzione che aveva dominato tutte le grandi categorie interpretative del Novecento, oggi assistiamo a un proliferare di paradigmi (individuo, comunicazione, rete, consumo, moltitudine, globalizzazione, virtualità, desiderio, corpo) che si pensano come assoluti e lottano per prendere il posto di cotanto illustre antenato. La metropoli sembra essere lo scenario di questa battaglia concettuale per la definizione del mondo attuale. Essa viene descritta in mille modi diversi e tutti in contrapposizione: rete di connessioni e ghetto, spazio dei flussi e spazio dei luoghi, identità plurime e nazionalismi, sprawl e città prigione, non-luogo dell’accesso e fortezza inaccessibile, società del rischio e ossessione per la sicurezza, devianza e militarizzazione. Il romanzo è oggi più che mai uno strumento capace di fare chiarezza, di far confliggere, mediare o connettere tra loro i diversi campi semantici e livelli di realtà che caratterizzano lo spazio metropolitano. Il romanzo concretizza l’astratto, scaglia i paradigmi sulla strada, dà un nome e cognome all’individuo, lo situa in un luogo e in una situazione concreta, lo espone alle tante derive della metropoli contemporanea e lo aiuta a ritrovare il senso della posizione.

Emiliano Ilardi, “Il senso della posizione”, 237 pagine, 19:50 euro, Editore Meltemi


Geometrie di libertà


Su questo sito, ho già parlato una volta di Antonio Barocci – nato a Cesena nel 1971, laureato a Bologna in Storia Contemporanea – in occasione di “Editori a perdere” (Stampa Alternativa).
A quel libro, in due parti e non a quattro mani, partecipò con il suo beffardo ‘Manuale per non farsi pubblicare’, pagine divertite e sagge che riflettevano sul mondo dell’editoria italiana.
Diceva Achille Campanile: “Quando ti nasce un figlio non sai mai chi ti metti in casa”. A questo sembra pensare Barocci quando, nel 2003, pubblica, sempre per Stampa Alternativa, “Parto di testa. La gravidanza del padre”. Il racconto della sua esperienza fra trepidazioni, speranze, paure, ipotesi lussuose e miserie quotidiane dettate dalla condizione di padre in attesa. Pagine condotte fra luci grottesche e lampi di comicità. Se fra i lettori di questa nota, c’è uno che sta per diventare padre, compri quel libro, mi ringrazierà. “Parto di testa” fu presentato con una performance di voce e suoni intitolata ‘Un tuffo nella placenta’; l’autore: voce, Olivia Bignardi (musicista allora in gravidanza): clarinetto ; feto: in feedback.
Finalmente un volume presentato senza critici e l’immancabile tavolo dietro il quale siede un compunto scrittore!
Recentemente in libreria: “Geometrie di libertà” edito dall’ottima Editrice Zona. Per saperne di più cliccate QUI.
In “Geometrie di libertà”, Luca Panzavolta intervista Albero Masala e, dieci anni dopo, Barocci colloquia con lo stesso Masala sul tema dell'ecologia dell'azione intellettuale. Con un linguaggio assolutamente accessibile, lontano dal gergo degli addetti ai lavori che sono, spesso, anche addetti all’incomunicabilità con i lettori, i tre protagonisti di questo volumetto agile e necessario (100 pagine, 10:00 euro), operano una riflessione sempre più attuale, attorno al perché, come e dove fare arte oggi.
Fin qui le prove pubblicate da Barocci. Tutte godibili, lontane da narrativa, trame, e altri ‘mpicci, tutte improntate ad un’originalità di scrittura fra più registri: dal diario al pamphlet al saggio critico. L’ho incontrato a Bologna dove mi trovavo per il Future Film Festival e lì, mentre ero felice fra manga ed effetti speciali, film splatter e videogames, purtroppo mi ha detto che sta scrivendo un romanzo. Quei pochi che mi conoscono lo sanno, temo i romanzi più dello tsunami, ho tentato di dissuaderlo, so di non esserci riuscito… sigh!


Le ore del dolore di Günter Brus


Tra le istituzioni culturali bolognesi, un ruolo protagonista è recitato dalla Galleria d'Arte Moderna.
La GAM – diretta da Peter Weiermair – conserva oltre 3.500 opere, periodicamente esposte a rotazione, per nuclei tematici, nella sede principale di Piazza della Costituzione. Fra i più importanti gruppi di opere in possesso della Galleria vi è la più ricca collezione pubblica di opere di Giorgio Morandi, visibili nel Museo a lui dedicato a Palazzo d’Accursio, in Piazza Maggiore.
L’attività prevalente della Galleria è tuttavia l’organizzazione di mostre temporanee personali e collettive e di eventi culturali riguardanti ogni aspetto della creazione artistica contemporanea, ospitati, oltre che nella sede principale, anche al Museo Morandi e a Villa delle Rose.
Splendido esempio di questo programma culturale è l’imponente esposizione – aperta fino a domenica 27 febbraio – di Günter Brus.
Si tratta della prima mostra (a cura di Monika Faber e Peter Weiermair) esaustiva di questo artista in Italia e l’ho ammirata - guidato dall'efficientissima Simona Di Giovannantonio dell'Ufficio Stampa della GAM - in un lodevole e ampio allestimento: 400 pezzi fra dipinti, disegni, fotografie, documenti e filmati, provenienti da numerose collezioni pubbliche e private.
Günter Brus (nato nel 1938) è fra gli artisti che, intorno agli anni ’60, attraverso il superamento dei confini fra i generi e la disinvoltura nell’uso di mezzi espressivi diversi tra loro, crearono soluzioni estetiche assolutamente innovative per l’epoca, condizionando fortemente le successive evoluzioni della ricerca artistica.
Scrive Weiermair: Nella Vienna dei primi anni Sessanta Brus non era isolato, ma faceva parte del cosiddetto “Azionismo Viennese”. Rudolf Schwarzkogler era il poeta di questo gruppo, Otto Mühl ne era il satirico, Hermann Nitsch il drammatico, e Günter Brus l’esistenzialista.
La mostra documenta il passaggio dell’artista dalla pittura Informale alle ben note “azioni”, utilizzate per attuare una sovversione, anche in chiave politica, dei valori dominanti. Abbandonata le performance, durante le quali Brus, infliggendosi ferimenti e torture, era giunto al limite dell’autodistruzione fisica, l’artista si è dedicato dagli anni settanta soprattutto al disegno e alla pittura, sviluppando immagini sempre più fantastiche e fiabesche. Forte è anche il suo impegno letterario e teatrale.
Dice Monika Faber: Anche in presenza di motivi apparentemente inequivocabili, con Günter Brus conviene guardare un po’ più avanti. Mitre e rappresentazioni della croce, autolesioni o automutilazioni sono facilmente identificabili ed è altrettanto facile liquidarle con spiegazioni religiose o freudiane; in realtà dovremmo piuttosto attenerci a ciò che afferma Ferdinand Schmatz: ‘la sua è stata una rivolta contro le regole delle parole e delle immagini che incatenano il corpo nel diktat della follia figurativa e cognitiva’. Brus lavora ormai da decenni, sempre trasformando e precisando se stesso, alla rimappatura di parole e motivi, alla creazione di nuovi sorprendenti simboli e immagini-significati.
La mostra, realizzata in collaborazione con l’Albertina di Vienna, dopo le tappe di Vienna, Graz, Zug e Bologna approderà al MACBA di Barcellona e alla Tate Modern di Londra nel corso del 2005 e del 2006.
L’esposizione bolognese si avvale del contributo di BolognaFiere, ASCOM, Forum Austriaco di Cultura.


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