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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Oblio


Se sfogliamo un dizionario scientifico, la parola Memoria è così spiegata: “Funzione generale del cervello consistente nel far rinascere l’esperienza passata attraverso quattro fasi: memorizzazione, ritenzione, richiamo, riconoscimento”.
Le cose poi si complicano perché esiste una memoria genetica e ancora articolazioni di memorie di breve, media e lunga durata a loro volta distinte in memoria iconica, ecoica, sensoriale ed emozionale.
La memoria, insomma, è lo scrigno che contiene tutto di noi, tutto quanto sappiamo che ci ha preceduto e ci circonda.
Una riflessione di Umberto Eco: “La memoria è strettamente legata all’oblio e ha un senso solo quando è selezione; soffre di tre malattie: eccesso di ricordi, eccesso di filtraggio e la confusione delle fonti”.
Insomma, siamo sicuri che la Memoria sia solo un gran bene?
Una raffinata pubblicazione di Cronopio proprio questo si chiede.
Titolo Oblio, a cura di Walter Procaccio.
Qualche nota sul curatore. Psichiatra e psicoterapeuta. Docente a contratto di psicoterapia breve all’Università di “G. D’Annunzio” di Chieti e presso la scuola di psicoterapia Sspig di Palermo. Cofondatore dell’Istituto psicoanalitico di formazione e ricerca “Armando Ferrari”. Responsabile sanitario Comunità Terapeutica “L’Airone” di Orvieto. Il suo àmbito i ricerca è il rapporto fra temporalità e psicoanalisi.
Chiamati a riflettere sull’oblio un gruppo di saggisti: Daniela Angelucci – Paolo Carignani – Felice Cimatti – Antonio Ciocca – Alessandra Ginzburg – Silvia Vizzardelli.
Ognuno di questi studiosi fa seguire al suo saggio la bibliografia usata, sicché il volume contiene l’indicazione di una sterminata biblioteca sul tema trattato.
Il libro si compone di contributi del sapere filosofico, psicoanalitico e letterario, tenta di rileggere gli inganni e i tranelli della memoria, i servizi e le virtù dell'oblio o almeno di un certo oblio. I numi tutelari degli autori sono Proust per la letteratura; Freud, Bion, Matte Blanco, Lacan, Ferrari per la psicoanalisi; Deleuze, Bergson, Wittgenstein per la filosofia.


Una sterminata letteratura – scrive Procaccio nell’Introduzione – conferisce alla memoria, alla archiviazione diligente, alla testimonianza il rango di dovere etico e all’oblio quello di perdita tragica e colpevole di qualcosa che invece dovrebbe permanere. Questo lavoro intende esplorare le sfumature dell’oblio nel convincimento che il dispositivo obliante possa considerarsi, in un certo senso, una risorsa prosperosa, qualcosa che ci fa guadagnare piuttosto che perdere.

Mentre leggete queste mie righe, ci sono scienziati che studiano la maniera di cancellare i cattivi ricordi (… faccio per loro un tifo accesissimo), tanto per dire quanto la Memoria sia oggetto di attenzioni scientifiche con implicazioni filosofiche e sociologiche.
Ricordare tutto, ma proprio tuttotutto è un vantaggio?
Secoli fa Francesco Guicciardini ha scritto: “Più tengono a memoria gli uomini le ingiurie che i benefici”. E poiché ho citato Eco in apertura, lo faccio anche in chiusura. In una Bustina di Minerva di tempo fa scrisse che molte guerre si combattono ancora ricordando offese lontanissime nel tempo e sarebbe stato tanto meglio che su quei ricordi fosse sceso l’oblio a cancellarli.
A quando risale quella Bustina?... scusate, non lo ricordo.

A cura di Walter Procaccio
Oblio
Pagine 174, Euro 15.00
Cronopio


Il racconto della serva Zerlina


La casa editrice Adelphi ha mandato settimane fa nelle librerie Il racconto della serva Zerlina dello scrittore e drammaturgo Hermann Broch (Vienna, 1º novembre 1886 – New Haven -Connecticut-, 30 maggio 1951).
Per estese notizie biografiche, cliccare QUI.
Il racconto fu scritto nel 1949 e pubblicato l’anno dopo all’interno del ‘romanzo in undici racconti’ Gli incolpevoli.
Di questo scrittore, Adelphi ha in catalogo anche Hofmannsthal e il suo tempo.

“Broch fu una figura profondamente austriaca per formazione intellettuale e sensibilità culturale” – scrive Paola Quadrelli – “nato in una famiglia della borghesia ebraica assimilata, svolse un percorso di studi tecnici coltivando nel frattempo interessi nell’ambito della matematica, della filosofia e della letteratura a contatto con il vivacissimo ambiente culturale dei caffè viennesi. Negli anni della giovinezza Broch seguì le celeberrime conferenze di Karl Kraus, che rappresentò, anche negli anni successivi, un modello di opposizione e resistenza etica alla cultura estetizzante e filistea della Vienna di inizio secolo".
«Kraus», ebbe a dire Broch ancora nel 1950, un anno prima della sua morte, «fu una delle grandi emozioni della mia giovinezza, una di quelle che è persistita senza affievolirsi mai».

“Broch” – scrisse Benedetta Centovalli nel 2007 su Stilos – “scrittore realista con alle spalle un vasto mondo di pensiero, uno dei più straordinari della prima metà del Novecento, lavora tra il 1930 e il 1949 agli Incolpevoli, «la sua parola definitiva ed umanamente più compiuta» (Ladislao Mittner), pubblicato un anno prima della sua scomparsa a New Haven, dove si era rifugiato dopo essere scampato, ebreo austriaco, alla Gestapo.
Gli incolpevoli ci stupiscono per la loro capacità di fornirci ragioni assolute sulla genesi dell'ascesa nazista individuando nell'essere piccolo borghese l'elemento significativo della mutazione antropologica in atto”

Fu lo stesso Broch in uno scritto intitolato “Nota sulla genesi del romanzo” a delineare il lavoro svolto negli Incolpevoli: Il romanzo descrive situazioni e tipi del periodo pre-hitleriano. Le figure scelte allo scopo sono completamente “apolitiche” in quanto arrivano ad avere idee politiche, queste ondeggiano nel nebuloso e nel vago. Nessuno di loro è direttamente “colpevole” della catastrofe hitleriana. Donde il titolo “Gli Incolpevoli” tuttavia è appunto questo lo stato d’animo e di spirito da cui il nazismo ha tratto le sue vere energie. L’indifferenza politica è, infatti, strettamente apparentata con l’indifferenza etica. Insomma i non-colpevoli affondano per lo più già piuttosto profondamente nella colpa etica […] Questo tipo di non colpevolezza non è in nessun luogo tanto chiaramente visibile come nel piccolo borghese, persino come criminale, il piccolo borghese agisce costantemente per motivi nobilissimi.

Il racconto della serva Zerlina è sostanzialmente un monologo di una fantesca che ad un pensionante narra la passione che la travolse, racconta una storia demoniaca, svelando nel finale la sua perfida vendetta ai danni del Signor von Juna, seduttore che già nel nome ricorda il Don Giovanni, così come la stessa Zerlina e la padrona Elvira.
Essendo un monologo, sia pure non scritto per la scena, non poteva che affascinare più di un’attrice. Zerlina, infatti, è stata interpretata da Hilde Krahl a Vienna, da Jeanne Moreau a Parigi e poi in un tour europeo; ne esiste anche un’edizione italiana in cui la serva è stata portata alla ribalta da Giovanna Daddi.

Quando Hannah Arendt lesse questo racconto, scrisse a Broch: «È una delle più grandi storie d'amore che io conosca e personalmente quella che mi è forse più gradita. Qualcosa di così meraviglioso, scritto interamente dalla prospettiva di quell'indimenticabile che risalta solo nel materiale di ciò che si è dimenticato».
“Non è la morte qui a vincere, ma la forza dell’eros che rende più lieve il suo inesorabile appello, così nella sua acuta postfazione Luigi Forte.

Hermann Broch
Il racconto della serva Zerlina
Traduzione di Ada Vigliani
Postfazione di Luigi Forte
Pagine 78, Euro 10.00
Adelphi


La critica come critica della vita


In un convegno tenutosi all’Università di Sassari nel febbraio 2015, Massimo Onofri lanciò una riflessione sulla critica come critica della vita soffermandosi tra critica della vita e storiografia letteraria.
Da quell’occasione è nato un libro, pubblicato da Donzelli, che da quel ragionamento trae il titolo: La critica come critica della vita La letteratura e il resto a cura di Silvia Lutzoni che insegna Critica letteraria e Letterature comparate presso il dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’Università di Sassari.
Tra i suoi libri: Altri orienti. Trentaquattro scrittori arabi in trasferta; (Settecittà, 2011), L'Oriente allo specchio (Settecittà, 2012).
Ha curato per l’editore Il Maestrale il volume "I romanzi di Grazia Deledda" e per l’editore Medusa la raccolta di interviste a Cesare Garboli intitolata Garboli. La critica impossibile (2014).

Nel volume di Donzelli, saggi di Alfonso Berardinelli, Paola Cadeddu, Alessandro Cadoni (giorni fa ospite di questo sito QUI), Monica Farnetti, Alessio Giannanti, Silvia Lutzoni, Matteo Marchesini, Alessandro Marongiu, Giuseppe Mussi, Salvatore Silvano Nigro, Massimo Onofri, Raffaello Palumbo Mosca, Laura Antonella Piras, Sergio Sotgiu.

Dalla presentazione editoriale.
“La critica letteraria può essere anche critica della vita? È questo l’interrogativo, lanciato da Massimo Onofri, che anima la discussione ospitata nel volume […] Alcune tra le più autorevoli voci contemporanee fanno qui il punto sullo stato dell’arte della critica letteraria, partendo dalle sue radici antropologiche e filosofiche per riflettere sui concetti di impegno e democrazia, di giudizio di valore e di canone, di vita e di senso comune cui la critica militante è costitutivamente e imprescindibilmente legata, laddove questa resta, nonostante tutto, l’unica forma di resistenza a un totalitarismo, quello della teoria, che ha provato a cancellare, nel nome del metodo e della scienza, i diritti del lettore in carne e ossa; e al contempo l’unica possibilità dell’uomo e del cittadino per uscire dal suo stato di minorità […] A esemplificare il confronto tra le diverse impostazioni, un gruppo di giovani studiosi traccia in queste pagine il ritratto di coppie antitetiche di autorevoli critici, come Garboli/Baldacci, Raboni/Siciliano, Cases/Segre. Un libro che si annuncia già come un sasso nello stagno della critica militante”.

A Silvia Lutzoni ho rivolto alcune domande.
Qual è il più importante tratto che deve possedere un critico per essere “un critico della vita”?

Se partiamo dal presupposto che la critica letteraria sia quell'attività che, parlando di qualcosa, e cioè di un libro di narrativa o di poesia, non può non parlare dell'esistenza e del mondo degli uomini, direi che il critico della vita deve avere la capacità di trovare un equilibrio dialettico tra vita e letteratura e tra critica e vita. Anche perché, non dimentichiamolo, il rischio maggiore che il critico corre è quello di fare retorica della vita - anch'essa una pericolosa astrazione. La critica, quella vera, non è un atto vitalistico, ma piuttosto un atto di humilitas, un subire, come sosteneva Giorgio Ficara nel convegno dal quale, come hai ricordato, questo libro prende spunto.

La critica letteraria – intesa come recensione che possa anche essere occasione di dibattiti – da molti è considerata estinta. Il tuo pensiero al proposito?

È da almeno vent'anni, in effetti, che si proclama la morte o il declino della critica letteraria: niente di più rassicurante, potrei dire. Se, per certi aspetti, non posso fare a meno di concordare con Franco Cordelli, il quale recentemente parlava di “malattia dell'affiliazione”, riferendosi alla critica scritta in nome dell'amicizia, dell'ammirazione o della deferenza, non posso tuttavia dimenticare tutti quei critici – e sono tanti – i quali con devozione e serietà si dedicano a un'attività effimera come quella militante, e lo fanno respingendo proprio quell'idea di critica corporativa, di celebrazione incondizionata dell'esistente. Ne sono un esempio i critici che hanno partecipato a questo volume, ai quali aggiungerei, tra gli altri, i nomi di Raffaele Manica, Massimo Raffaeli e i più giovani Chiara Fenoglio, Paolo Febbraro e Gabriele Pedullà; tutti critici che sostengono la necessità di un'“ecologia del libro e della letteratura", se vogliamo utilizzare la significativa formula di Ferroni, capace di operare distinzioni nello smisurato accumulo del materiale librario prodotto.

Il web può sostituire con la stessa efficacia lo spazio che un tempo occupavano le riviste stampate; se sì oppure no, perché?

Può di sicuro integrarlo. Molte riviste stampate, anche le più prestigiose – penso per esempio all'imprescindibile “Indice dei libri del mese” -, hanno già cominciato a dotarsi di un proprio spazio online: espediente che garantisce loro maggiore visibilità e velocità di diffusione rispetto al cartaceo. Altre sono nate sul web e talvolta sono diventate cartacee (“Il primo amore” è forse quella più nota). Per non dire poi dei numerosissimi blog che presentano spesso una vivacità impensabile in altri contesti. Però, per la stessa natura del web, aperto a tutto e specialmente a tutti e troppo spesso senza controllo, ho l'impressione che l'espansione dello spazio di discussione sul web abbia in certi casi autorizzato l'idea che l'atto critico possa anche compiersi come un libero esercizio della superficialità, del disprezzo e dell'offesa: cosa che la critica non è mai.

La critica come critica della vita
A cura di Silvia Lutzoni
Pagine XVI-128, Euro 28.00
Donzelli


Il pensiero dei suoni (1)

Non tutte le culture possiedono il concetto di “musica”.
Se ne ha una gustosa esemplificazione nell’episodio di Star Trek Voyager, stagione VI episodio 6 ("Virtuoso”). Lì, il Dottore, per le sue doti artistiche, diventa l'idolo di una specie che non aveva mai conosciuto la musica. Inorgoglito dei suoi successi di cantante decide quindi di lasciare la Voyager per restare sul loro pianeta. Ci vorrà del bello e del buono per riportarlo a bordo.
Ma senz’andare nello Spazio, esistono esempi anche sul nostro pianeta.
“La musica ha carattere culturale, non solo naturale: è un’attività tecnica intenzionale che può essere eseguita unicamente da esseri umani. Su questa base si può intendere la musica come ‘l’arte dei suoni’. Sembra una definizione scontata, ma non lo è”.
Questa è una riflessione che si trova in apertura di un’eccellente pubblicazione edita da Bruno Mondadori intitolata Il pensiero dei suoni Temi di filosofia della musica.
Ne è autore Alessandro Bertinetto.
Insegna Estetica e svolge attività di ricerca presso l’Università di udine e la Freie Universität di Berlino. Tra i volumi più recenti: “Lineamenti di storia dell’estetica (con F. Vercellone e G. Carelli, Il Mulino, 2008); “Leggere Fichte” (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, napoli 2009); “La forza dell’immagine” (Mimesis, 2010).

Dalla presentazione editoriale.
La musica seduce la nostra sensibilità, ma eccita anche la nostra attività intellettuale, offrendo alla filosofia un campo particolarmente ricco e stimolante su cui esercitare le proprie riflessioni. Alessandro Bertinetto si interroga su alcuni tra i principali temi dell’estetica musicale: che cos’è la musica? La musica è l’unica arte dei suoni? Qual è il rapporto tra la musica e le altre arti? La musica è un puro gioco di sensazioni sonore o può comunicare contenuti e significati? Si può parlare di rappresentazione e di narrazione musicale? In che senso un brano musicale può essere allegro, triste, malinconico, irriverente? La musica ha una dimensione etica? Il libro discute, confronta e critica le risposte che le teorie oggi più accreditate danno a queste e ad altre domande. Dal confronto con i filosofi il lettore è così sollecitato a proporre soluzioni argomentate anche in base alle sue esperienze di pratica e di ascolto musicale.

Segue un incontro con Alessandro Bertinetto.


Il pensiero dei suoni (2)

Ad Alessandro Bertinetto (in foto) ho rivolto alcune domande
Nel “Preludio” al libro scrivi: “Il titolo del volume ‘Il pensiero dei suoni’ è volutamente ambiguo”. Perché lo definisci “ambiguo”?

La risposta è semplice. È ambiguo perché possiamo intendere il genitivo in senso sia oggettivo sia soggettivo. Nel primo caso, l’espressione significa che l’oggetto del pensiero, ovvero della filosofia, sono i suoni, l’arte dei suoni, la musica. Nel secondo caso, invece, si darebbe a intendere che sono i suoni a poter elaborare e comunicare un pensiero. Come se con i suoni si potesse pensare e filosofare. Ora, indipendentemente dalla possibilità di “pensare con la musica o in musica”, nel libro l’ambiguità si risolve a favore del primo corno dell’alternativa. Infatti, anche la stessa possibilità di pensare in musica è una questione filosofica; quindi ricade sotto il primo corno dell’alternativa. Insomma, nel libro la musica è oggetto, non soggetto, di riflessione filosofica, ma ciò non esclude che si possa pensare musicalmente, con i suoni. Lo fanno appunto certi musicisti, non i filosofi.

Due domande in una.
La filosofia può ispirare la musica? È possibile anche il contrario?

Risponderei sviluppando quanto già detto in risposta alla prima domanda: la filosofia può senz’altro ispirare la musica, nella misura in cui la filosofia può essere non soltanto un particolare tipo argomentativo di discorso o di conoscenza, ma anche una visione del mondo, una “Weltanschauung”. In tal senso, come concezione generale del mondo, della vita, della realtà, dell’umanità, la filosofia può ispirare la musica, come ispira le altre arti. Nelle pratiche artistiche si presentano, esprimono, comunicano visioni del mondo in modi diversi da quelli concettuali della filosofia. In fondo è quanto aveva già detto Hegel con la sua definizione dell’arte come “apparizione sensibile dell’idea”. La particolarità della musica è che la sua articolazione temporale e sonora la rende un medium molto simile al linguaggio, che la filosofia usa per elaborare i propri concetti. Solo che, mentre il suono del linguaggio veicola significati e contenuti, la possibilità che il suono musicale veicoli significati e contenuti è un problema filosoficamente interessante. Direi comunque che in musica l’aspetto del “significante”, se vogliamo usare una terminologia strutturalista, diventa preponderante, perché – come del resto nelle altre arti – l’articolazione formale e la dimensione sensibile dei significanti acquisisce qui una potenzialità espressiva al di là del semplice riferimento semantico. D’altronde anche la musica può ispirare la filosofia, e lo possono fare anche le altre arti. Pensiamo a quanto la musica abbia ispirato la filosofia dei romantici o di Schopenhauer; o a quanto le avanguardie abbiano ispirato riflessioni come quelle di Adorno. Tuttavia, il problema è che cosa significhi “ispirare”: “guidare”, “suggerire”, “destare interesse”, “infondere un sentimento”, “affascinare”; sono tutti significati del termine che possiamo reperire in un dizionario. Riassumendo, direi allora che la filosofia può ispirare la musica e viceversa. Tuttavia, ciò non è sufficiente a capire la relazione tra musica e filosofia, perché il significato di “ispirare” è così ampio che quasi tutto può ispirare quasi tutto.

Accanto alla musica in quali altre espressioni artistiche è più evidente un ponte fra scienza e arte?

Mi verrebbe da dire in tutte, ma sicuramente ci sono pratiche artistiche in cui questo è più evidente. In architettura la dimensione non soltanto pratica, ma scientifica, è evidente e necessaria. In letteratura abbiamo esempi antichi (uno per tutti: Lucrezio: “De rerum naturae”), moderni (mi viene in mente tra gli altri il Galileo de “Il saggiatore”) e contemporanei (certi racconti di Calvino per es.); e ci sono anche diversi trattati sull’argomento: pensiamo al caso esemplare della “Lettera sopra l’uso della fisica nella poesia” (1765) di Giambattista Roberti. La pittura è un campo decisamente ben disposto per la scienza: da Leonardo a Seurat, per non dire poi di espressionismo, futurismo, cubismo, la dimensione estetica della pittura si intreccia nei modi più vari con la ricerca scientifica: per capirci, dall’anatomia alle indagini sulla chimica e la fisica del colore. Mi viene in mente, tra l’altro, un biologo-artista-filosofo come Ernst Haeckel (l’inventore del termine “ecologia”) che nell’Ottocento, sulla scorta di Goethe, applicava l’arte pittorica al servizio della sua ricerca sulla natura. Ma ci sarebbero molti altri esempli.

L’intreccio fra suono, gesto, danza e parola è una delle tendenze più significative della nuova musica. Lo propone in teatro Bob Wilson, tanto per fare un solo nome, ma anche, partendo dall’area musicale, Philip Glass collabora a performances multimediali. Un teatro della mente che provoca il desiderio di ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie. Questo desiderio sinestesico è suggerito dalle nuove tecnologie oppure è cosa che viene da lontano?

Entrambe le cose. Il teatro greco rispondeva già al desiderio di ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie. La greca “Mousiké” non era solo “arte dei suoni” come la intendiamo noi. Il ballo, la ginnastica, e persino la medicina erano sue componenti importanti. Il wagneriano “Gesamtkunstwerk” (opera d’arte totale) è una ripresa di questa concezione antica, riadattata alla Germania del XIX secolo. Tuttavia, è vero che le tecnologie hanno cambiato molto. Oggi musica, teatro, performance art non soltanto si fondono in eventi artistici multimediali, ma la loro trasmissione può essere universale e immediata. E nascono nuove modalità di espressione artistica. I sound artists applicano sensori sul corpo delle ballerine e lavorano in tempo reale con i microsuoni amplificati prodotti dai movimenti dei loro corpi, a livello cellulare: uno sviluppo davvero interessante dell’idea di improvvisazione (che è tra l’altro il grande tema su cui sto lavorando da un po’ di tempo e su cui verte il mio nuovo libro di filosofia della musica: “Eseguire l’inatteso”).

Una domanda che in parte esula dal libro, ma forse in parte no.
Premesso che in ogni campo artistico oggi avvengono contaminazioni espressive, esiste un’area in particolare… fra musica, arti visive, e-literature, tecnoteatro, fumetti, video, net art… nella quale noti oggi i lavori più interessanti nella sperimentazione di nuovi linguaggi?

Non so se si possa fare una classifica gerarchica per indicare le forme artistiche più sperimentali. La sperimentazione e la contaminazione sono una condizione quasi-necessaria della creatività artistica e oggi la consapevolezza che questa coinvolga anche l’intreccio delle forme e dei generi artistici è molto forte. Certamente però mi sembra che le forme di sperimentazione più diffuse siano quelle dell’applicazione delle tecnologie informatiche ed elettroniche (internet, computer) a musica, teatro, danza, cinema. Oggi è possibile fare in tempo reale, con risultati prima inimmaginabili, cose che anche solo quindici anni fa avrebbero richiesto più tempo (e denaro), ma in gran parte non sarebbero state neppure pensabili. Direi che installazione e improvvisazione siano le modalità espressive più pervasive di un’arte che sempre più va verso la sintesi di dimensione performativa e dimensione iconica.

Alessandro Bertinetto
Il pensiero dei suoni
Pagine 170, Euro 16.00
Bruno Mondadori


Nuovo direttore a linus

La rivista italiana mensile di fumetti linus - lo ricordo ai più distratti – fu fondata da Giovanni Gandini e pubblicata da Milano Libri nell'aprile del 1965.
Il nome della testata, è riferita al personaggio di Linus van Pelt, uno dei protagonisti dei Peanuts, celebri strisce presentate sulle pagine del periodico.
Nel 1972 la rivista entrò nella Rizzoli e la direzione passò al giornalista e scrittore Oreste del Buono che portò il periodico a conquistare importanti quote di mercato e a contribuire alla conoscenza del fumetto in Italia, fumetto definito da Hugo Pratt come "letteratura disegnata", e da Will Eisner "arte sequenziale".
Tra i fumetti che linus ha presentato nella sua storia, oltre ai già citati Peanuts, anche la versione disegnata da Alberto Breccia dell'Eternauta, Bristow, B.C., Beetle Bailey, Big Sleeping, Bobo, Calvin & Hobbes, Copi, Corto Maltese, Dick Tracy, Dilbert, Doonesbury, The Boondocks, Get Fuzzy, The Dropouts, Jeff Hawke, Cul de Sac, le tavole satiriche di Jules Feiffer, Krazy Kat, Li'l Abner e Fearless Fosdick, Maakies, Monty, Il Mago Wiz, Pogo, il Popeye di Segar, Valentina di Guido Crepax, i fumetti di Andrea Pazienza, quelli di Georges Wolinski e Kako di Flora Graiff.
Con il passaggio al nuovo secolo, linus si è aperta anche alla dimensione della rete, con la pubblicazione della rubrica Digital Graffiti e l'apertura di un blog.
A partire da dicembre 2014 la rivista è disponibile anche in versione digitale, acquistabile dal sito dell'editore Baldini&Castoldi.
Proprio dall’Ufficio Stampa dell’editrice, Chiara Moscardelli ha inviato alle redazioni della carta stampata, della radio-tv, del web, la notizia di un nuovo direttore della rivista con le parole di Michele Dalai: Sono molto felice di annunciare che Pietro Galeotti dall’1 maggio sarà il nuovo Direttore di linus, dopo anni di solida amicizia e di un percorso professionale parallelo ma sempre vicino.
Colgo l’occasione per ringraziare Giovanni Robertini del lavoro svolto, della grande professionalità e gli auguro tutto il meglio per la nuova avventura
.

Pietro Galeotti, classe ’64, autore televisivo da più di trent’anni, fa il suo esordio su Rai Uno alla fine del 1983 con la trasmissione Loretta Goggi in quiz.
Da allora scrive programmi musicali, spettacoli satirici, talk show, varietà. Firma L'orecchiocchio e Jeans, Diritto di replica, otto edizioni di Quelli che il calcio (1993-2000), Anima mia (1997), quattro edizioni del Festival di Sanremo (1999, 2000, 2013 e 2014), alle quali si aggiunge quella condotta da Giorgio Panariello (2005).
Dal settembre 2003 (anno di nascita del programma) è tra gli autori di Che tempo che fa e con Roberto Saviano, e con lo stesso Fabio Fazio, è stato coautore di Vieni via con me (2010) e di Quello che (non) ho (2012).
Nel 2011 collabora alla realizzazione dello show Aniene, con Corrado Guzzanti su La7. Dall’aprile del 2016 firma la nuova edizione del programma Rischiatutto. Ha lavorato al fianco di: Antonio Albanese, Corrado Guzzanti, Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Francesco Piccolo, Paolo Poli, Roberto Saviano, Michele Serra, Teo Teocoli.

“Nella formazione personale e nelle avventure professionali” – dice Galeotti – “linus ha rappresentato sempre un modello di riferimento al quale ispirarmi: intrattenere con solida leggerezza. Mi appresto a questo incarico di cui sono estremamente orgoglioso con un sentimento di (ir)responsabile voglia di continuare a divertirmi e divertire”.


Daido Moriyama in Color


Tra i protagonisti della fotografia contemporanea giapponese figura Daido Moriyama (1938, Icheda-cho, Osaka), che espose, circa un anno fa, al Ciac di Foligno le sue opere in quel particolare bianco e nero che l’hanno reso famoso.
Ancora una volta dobbiamo a Filippo Maggia (curatore anche della mostra di allora) una riproposizione dell’artista nipponico alla Fondazione Fotografia Modena che stavolta espone i suoi lavori meno noti, a colori, non a caso la mostra è intitolata Daido Moriyama in Color.

Il bianco e nero racconta il mio mondo interiore, le emozioni e i sentimenti più profondi che provo ogni giorno camminando per le strade di Tokyo o di altre città, come un vagabondo senza meta – dice l’artista nipponico – Il colore descrive ciò che incontro senza filtri, e mi piace registrarlo per come si presenta ai miei occhi. Il primo è ricco di contrasti, è aspro, riflette a pieno il mio carattere solitario. Il secondo è gentile, riguardoso, come io mi pongo nei confronti del mondo.

La mostra – promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Modena in collaborazione con la Galleria Carla Sozzani, in partnership con UniCredit – presenta una selezione di 130 fotografie inedite, realizzate tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, anni nei quali si è compiuta la formazione di Moriyama.
La strada, teatro prediletto del fotografo giapponese, è il tema centrale del lavoro di quegli anni e, per un singolare destino, la strada entra pure nel suo nome come potete vedere – e lo consiglio vivamente – in quest'intervista con lui condotta da Filippo Maggia dalla quale viene fuori un ritratto dell’uomo, dell’opera e delle sue ispirazioni che vedono all’origine “On the Road” di Kerouac.

QUI la versione inglese del sito web di Moriyama.

La mostra è accompagnata da un volume, edito da Skira, con oltre 250 fotografie a colori.

Ufficio Stampa: Cecilia Lazzeretti; tel. 059 – 23 98 88; press@fondazionefotografia.org

Daido Moriyama in Color
a cura di Filippo Maggia
Foro Boario
Modena, Via Bono da Nonantola 2
Info: 059 – 22 44 18
biglietteria@fondazionefotografia.org
Fino all’8 maggio 2016


Due novità di FUOCOfuochino


Questa infiammata Editrice minuscola nel corpo maiuscola nel pensiero, conta ormai più di 100 titoli vantando fra nomi d’autori di testi e nomi che hanno scritto su di essa, firme che vanno da Gianni Celati ad Andrea Cortellessa, da Pupi Avati a Gino Ruozzi, da Lamberto Pignotti a Roberto Freak Antoni, da Valerio Magrelli a Guido Davico Bonino e a tanti tanti altri.
Ora presenta due novità.
Di Steve Manfroi “Risotto” con una Premessa di Andrea Soncini.
La nota editoriale così dice dell’autore.
“Nato a Milano, oggi risiede in una ex ridente località turistica sul Garda attualmente semisoffocata dal cemento.
Musicista/Autore con molti vizi tra i quali recitare mantra, non prendere psicofarmaci e scrivere racconti, in vent’anni di ostinata attività artistica ha pubblicato i cd: La luce blu (1994), Bassimondi (1996), Pinocchio di Russia (2000), Pro wine (2004) Luci sotterrane (2010) Welcome to the garage (2012)”.

L’altra novità è intitolata “Un centesimo di Dada” e vede all’opera due figure che conosco: Lorenza Amadasi e Afro Somenzari.
Laconica, fino a sfiorare il mutismo, la presentazione dell’Editrice: “Lorenza Amadasi e Afro Somenzari si sono conosciuti nel 1975”.
Poiché è evidente che da allora a oggi, di anni ne sono trascorsi alquanti, non è da credere che li abbiano tutti impiegati a scrivere “Un centesimo di Dada”, chiaro è che pure qualcos’altro hanno combinato dopo essersi conosciuti dove… dove non lo dicono… perché inconfessabile?
Sono io in grado di dare, evitando gossip, alcune telegrafiche notizie (assolutamente non esaustive) sul dopo il 1975 : i due si sono sposati e felicemente convivono a Viadana.
Afro ha organizzato festival, realizzato opere verbovisive, prodotto eventi patafisici, fondato Fuocofuochino.
Lorenza, oltre a svolgere attività didattica, ha scritto, cito a memoria: “Omaggio a un bottone” e “Per sentito dire”.



Il segno della contaminazione (1)

Tra i tanti studi editi su Pier Paolo Pasolini, spicca per originalità d’angolazione un recente libro pubblicato dalle Edizioni Mimesis intitolato Il segno della contaminazione Il film tra critica e letteratura in Pasolini.
Ne è autore Alessandro Cadoni nato nel 1979.
È assegnista di ricerca in Letteratura italiana contemporanea all’Università di Sassari. Docente di materie letterarie nelle scuole superiori, con la sua tesi dottorale in “Logos e Rappresentazione” (Università di Siena) ha vinto ex aequo il Premio Pasolini 2010.
Un suo saggio è inserito nel libro collettaneo ”La critica come critica della vita” a cura di Silvia Lutzoni.
Tra i suoi interessi, la narrativa italiana contemporanea, le possibilità di utilizzo della teoria letteraria nell’analisi del film, la storia della critica cinematografica e letteraria. Collaboratore di diverse riviste e, dal 2008, del quotidiano «La Nuova Sardegna», dove si occupa di critica letteraria e teatrale, ha scritto tra l’altro, oltre che su Pasolini, su Grazia Deledda, Roberto Longhi, Barthélemy Amengual, Mario Soldati, Cesare Cases, Salvatore Mannuzzu.

Dalla presentazione editoriale.
La realtà – quest’istanza scandalosa, specie per chi negli anni ’60 si occupava di rappresentazione – è forse la più ricorrente tra le ossessioni di Pasolini. Se, per un certo verso, la cultura formalista di quegli anni dimensionava la presenza del reale in ogni forma d’arte a un effetto cagionato dal segno, Pasolini metteva invece in piedi un sistema estetico in cui reale e narrato (rappresentato) sopravvivono congiunti attingendo allo stesso ossigeno: la radiografia del segno, lo stile. A partire da tali premesse, in questo libro si indaga lo stile pasoliniano attraverso una doppia lente: l’analisi del campione testuale e le mescolanze stilistiche, ovvero la ‘contaminazione’. Punto di riferimento sono le teorie letterarie di Erich Auerbach. L’inedito approccio di questa attrezzatura metodologica letteraria all’immagine cinematografica aiuta a mostrare come Pasolini invada continuamente i confini tra finzione e vita, tra sublime e umile, tra testo e realtà, producendo infine una forma peculiare di film-saggio che lo proietta in un dialogo vivo con la contemporaneità.

Segue un incontro con Alessandro Cadoni.


Il segno della contaminazione (2)

Ad Alessandro Cadoni (in foto) ho rivolto alcune domande.
La principale motivazione che ti ha spinto ad esplorare questa particolare angolazione del film tra critica e letteratura in Pasolini?

Oggi dovremmo essere vaccinati contro la linearità di trame e forme, o contro la loro dittatura, quand’anche fossero apparentemente rifratte. Eppure, mi pare, siamo dominati da intrecci di storie che vedono a esse piegate forme imbellettate, ma falsamente problematiche. A dominare, soprattutto, è la retorica, spesso stucchevole, dello “storytelling”; allo stesso tempo, mancano proposte per una seria riflessione sullo stile: almeno per il lettore o lo spettatore comune (da ritenersi sempre come destinatari fondamentali).
Pasolini è un autore senz’altro problematico, ma che offre una serie infinita di ganci interpretativi (a iniziare dal suo piglio teorico e autoanalitico); in tal modo può prestare il fianco ad altrettante elucubrazioni astratte. Ho scelto perciò un’angolazione precisa: in primo luogo, analizzare il suo stile a partire da alcuni film basati su opere letterarie; quando invece mi son trovato ad analizzare film a soggetto originale, l’ho fatto servendomi in gran parte dell’attrezzatura della critica letteraria. Tutto ciò con un obbiettivo centrale: porre al vaglio un’affermazione di Pasolini stesso: «C'è una sola cosa essenziale in un buon film: il fatto che sullo schermo passi della realtà». Ecco, una realtà che torni – è un’esigenza etica – a essere più importante delle strutture della narrazione
.

Perché il principale referente delle tue pagine è Auerbach?

Proprio perché attraverso le sue teorie critico-stilistiche – penso in primo luogo a “Mimesis” – si può arrivare a una verifica dell’affermazione appena riportata. L’idea auerbachiana che la ‘mescolanza degli stili’ in letteratura risponda a un alto indice di riuscita della ‘rappresentazione del reale’ torna spesso, come lente, nella critica di Pasolini: ma mi è parso ancora più utile vedere, al microscopio dell’analisi, quanto essa si rivelasse feconda – proprio in relazione alla sua idea di realtà – nei film girati da Pasolini stesso. Il ricorso costante a stili e materiali rappresentativi (musiche, riferimenti pittorici, stili di recitazione, eccetera) radicalmente opposti ci restituisce il negativo della sua visione del mondo: una visione tragica, basata su una dolorosa convivenza degli opposti.

Soprattutto nel primo Pasolini, c’è più continuità o superamento del neorealismo?

C’è superamento, senz’altro: fin dagli inizi, persino nei suoi romanzi degli anni Cinquanta. E però il neorealismo persiste, di per sé, come etichetta: ma mi pare che ci sia già volontà di superamento in ogni autore rilevante, da questo punto di vista. Basti pensare a Calvino. Al cinema, poi, è una tendenza ancor più lampante. Se già De Sica mostra una netta evoluzione, dai “Ladri di biciclette” al “Miracolo a Milano”, è Rossellini a spianare la via: a mostrare che un movimento, per essere tale, non può che evolversi, stilisticamente e ideologicamente. E allora abbiamo un Rossellini che cambia, si rinnova e si aggiorna costantemente per venti e più anni: cosa che non piacque a Guido Aristarco, ma diede ad André Bazin gli spunti per una teoria, tutta empirica, del cinema moderno. È su questa scia che Pasolini lavora su pellicola la sua materia tratta dal reale: e non casualmente si dissocia apertamente proprio dal primissimo Rossellini. Pasolini sa bene che un film come “Roma città aperta” nasceva, nel ’45, da un’urgenza politica: ma vede pure che all’inizio degli anni Sessanta la situazione è rovesciata, drasticamente (i fascisti imboscati al governo, il neocapitalismo dietro l’angolo, etc.). Allora, Pasolini, più che un superamento, opera un rovesciamento, implicito in “Mamma Roma” e in Anna Magnani. Alla fine del film, la corsa disperata della prostituta che aspirava a diventare borghese è il perfetto rovesciamento – Hervé Joubert-Laurencin ha parlato a ragione di ‘palinsesto’ – di quella, eroica diciamo, di Pina in “Roma città aperta”. E lo sguardo di Mamma Roma, specchiato in un vuoto fondissimo, si fissa, nelle ultime inquadrature, su una cupoletta di borgata che cozza pesantemente contro il cupolone che si stagliava, segno d’avvenire, nell’ultimo piano del film di Rossellini. Ecco: in Pasolini (che pure, ricordo, polemizzò apertamente a più riprese più che col Neorealismo con la memoria forzosa di esso) si opera, più che un superamento, un rovesciamento.

C’è una particolarità nell’uso espressivo che Pasolini fa di Totò?

Lo dice lui stesso: “La mia ambizione era proprio quella di strappare Totò al codice, cioè decodificarlo”. Ora, questa strategia messa a punto per “Uccellacci e uccellini” diventa, se possibile, più significativa in “Che cosa sono le nuvole?”: cosa significa decodificare? Significa ridurre l’attore a maschera. Ciò non vuol dire impedirgli di esprimersi: tant’è che in “Nuvole” questa riduzione si estremizza, maschera e attore divengono carne nella carne, e Totò dà vita alla sua interpretazione più sublime. Quando, in uno dei brani più dolorosi e insieme dolci della storia del cinema, Totò-Jago (la sua parte è la marionetta che interpreta Jago in un Otello di pupi) pronuncia la sua ultima battuta – “oh, straziante, meravigliosa bellezza del creato!” -, il grande comico, misteriosamente, esce da sé per dar vita a un’irripetibile maschera sublime, a una figura baudelairiana.

Pasolini è stato anche romanziere, poeta, saggista, polemista.
Tra questi suoi aspetti qual è quello che più t’interessa, quale meno? E perché?

Tutti e nessuno. Mi spiego. Potrei dire, e non sono l’unico, che trovo i romanzi romani (tra l’altro tra le uniche opere di Pasolini letterariamente canonizzate, forse perché le più facilmente collocabili) la parte meno interessante della sua produzione: specie rispetto alle opere contemporanee di narratori come Volponi o Morante. Ma non si può dire in assoluto che i romanzi siano la parte più debole del suo repertorio, dato che con “Petrolio”, pur incompiuto (e postumo), siamo di fronte al grande mistero (prendo la suggestione dall’Emanuele Trevi autore del bellissimo ‘Qualcosa di scritto’), forse al vero capolavoro della produzione pasoliniana. E che romanzo è “Petrolio”? Un’operazione sperimentale di un saggista geniale, il romanzo-saggio che emerge come summa di tutti i suoi esperimenti di linguaggio. Ecco che qui ho la possibilità di ricollegarmi alla prima risposta data: sperimentare linguaggi e mescolare stili sono azioni che rispondono a un’esigenza costante di riflessione sul reale. Ovunque Pasolini riesca a raggiungere acquisizioni critiche sulla realtà, il suo linguaggio è fatto di questi esperimenti: ciò accade nel saggista, nel poeta, nel romanziere, nel regista. È in questo senso, mi pare, che Pasolini è capace di parlare al presente, al di là del suo sin troppo conclamato talento divinatorio.

Alessandro Cadoni
Il segno della contaminazione
Prefazione di Hervé Joubert-Laurencin
Pagine 338, Euro 28.00
Edizioni Mimesis


Calderón

L’attore e regista Federico Tiezzi (QUI un tracciato del suo percorso scenico) firma la regia del Calderón, tragedia in versi scritta da Pier Paolo Pasolini nel 1967 e pubblicata nel 1973. Calderón, si ispira al capolavoro del grande tragediografo spagnolo del “Siglo de Oro” Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), La vita è sogno; non mutano, difatti, i nomi dei personaggi centrali - Basilio, Sigismondo e Rosaura - mentre molto diverse sono situazione, trama, ambientazione.
Drammaturgia: Sandro Lombardi (in foto), Fabrizio Sinisi, Federico Tiezzi
Questo dramma è stato messo in scena due volte da Luca Ronconi, nel 1978 e nel 1980, e prima ancora, sempre con la sua regìa, ne esiste un’edizione radiofonica del 1977.

“Calderón è stato l'unico dramma teatrale pubblicato in vita da Pier Paolo Pasolini” – scrive lo storico della letteratura e critico teatrale Guido Davico Bonino (autore della recente antologia Donne allo specchio) – “Il lavoro è ambientato in Spagna, ma nella Spagna franchista del 1967, e si sviluppa, rispetto alla trama, in tre sogni successivi, in tre ambienti: aristocratico, proletario, medioborghese. È soprattutto una parabola sull'impossibilità di evadere dalla propria condizione sociale. La protagonista è Rosaura che attraverso il sogno tenta di infrangere e sottrarsi al clima soffocante in cui vive. Ma la diversità di Rosaura, il suo essere donna, madre, figlia, e il suo puerile tentativo di fuga non porterà a nulla, perché il potere la spingerà ‘a obbedire senza essere obbediente’.
Il potere non perdona le persone ‘malate e piene di dolore’, o meglio, le accetta ma soltanto se da semivuoti si riempiranno del bene borghese.
Pasolini, sicuro che Calderón fosse una "delle più sicure riuscite formali", in risposta alla giovane "nuova sinistra" (che giudicò Calderón "dal punto di vista politico" di una "rilevanza nulla"), affermerà come il tema del dramma sia lo scontro tra individuo e potere”.

Pasolini, infatti, dirà: «In tutti e tre i suoi risvegli, Rosaura si trova in una dimensione occupata interamente dal senso del Potere. Il nostro primo rapporto, nascendo, è dunque un rapporto col Potere, cioè con l'unico mondo possibile che la nascita ci assegna. Il Potere in Calderón si chiama Basilio (Basileus), ed ha connotati cangianti: nella prima parte è Re e Padre (appare nello specchio - con l'Autore!! - come nel quadro di Diego Velásquez Las meninas), ed è organizzato classicamente: la propria coscienza di sé - fascista - non ha un'incrinatura, un'incertezza. Nella seconda parte - quando Rosaura si risveglia 'povera', sottoproletaria in un villaggio di baracche - Basilio diviene un'astrazione quasi celeste (sta nello stanzone de Las Meninas vuoto, come sospeso nel cosmo: e da lì invia i suoi sicari sulla terra); infine, nella terza parte, è il marito piccolo-borghese, benpensante, non fascista ma peggio che fascista»

Federico Tiezzi concepisce questo Calderón come ultima parte di una trilogia che prende in esame la dissoluzione della famiglia, qui colpita anche dalla forza dialettica del maggio ’68 e dallo sguardo impietoso di Freud. Lo avevano preceduto Ifigenia in Aulide di Euripide (Istituto Nazionale del Dramma Antico, 2015) e Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello (Piccolo Teatro di Milano, 2016).
A proposito dell’allestimento dice: Ho diviso il dramma in tre zone: una zona storica, la prima, dove gli argomenti e i temi e i corpi sono, appunto, "storici", dove ricostruirò in scena il quadro Las Meninas di Velàzquez che tanta importanza ha in questo testo. Nel primo sogno parla la Storia. Nel secondo, i personaggi hanno una comunicazione più diretta: e il corpo è coinvolto nelle pulsioni della sessualità. In questo sogno parla la Natura. Nel terzo sogno assistiamo a un confronto ideologico più serrato tra i personaggi: il corpo è assente e protagonista diviene il linguaggio e il suo contrario, l'afasia. Cioè nello scontro tra Storia e Natura si inserisce il Pensiero.
Il substrato storico della vicenda è invece molto compatto: siamo in Spagna, prima e dopo la guerra civile e i suoi successivi soprassalti, sotto l'impulso di una utopia comunista
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Gli interpreti in ordine di apparizione: Sandro Lombardi (in foto), Camilla Semino Favro, Arianna Di Stefano, Sabrina Scuccimarra, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Ivan Alovisio, Lucrezia Guidone, Josafat Vagni, Debora Zuin, Andrea Volpetti e con la partecipazione straordinaria di Francesca Benedetti.
Scene di Gregorio Zurla; e costumi del duo Giovanna Buzzi - Lisa Rufini.
Luci Gianni Pollini; movimenti coreografici Raffaella Giordano; canto Francesca Della Monica; assistente alla regia Giovanni Scandella.
Produzione Teatro di Roma e Fondazione Teatro della Toscana

Ufficio stampa Compagnia:
Simona Carlucci tel.0765 – 24 182; 335 – 59 52 789; info.carlucci@libero.it

Ufficio stampa Teatro di Roma:
Amelia Realino tel. 06- 684 000 308; 345 – 44 65 117 - ufficiostampa@teatrodiroma.net

Teatro Argentina di Roma
Calderón
di Pier Paolo Pasolini
regia: Federico Tiezzi
drammaturgia: Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi, Federico Tiezzi
Info: 06 - 684 00 03 11 / 14
Dal 20 aprile all’8 maggio


La fine continua

Nella notte frail 31 dicembre 2014 e l’1 gennaio 2015 morì Stefano Docimo, narratore e critico romano.
È stato per oltre vent’anni dirigente del Sindacato Nazionale Scrittori, lo ricordo anche redattore della web review “Le Reti di Dedalus”.
Una sua biografia QUI.
Ora è uscito, a cura di Marco Palladini, nel sito Onyx, l'ebook “La fine continua” con articoli, saggi e testi pubblicati su “Le Reti di Dedalus”, 2006-2014.
Prefazione di Francesco Muzzioli, recente autore di Terminal Text.
Postfazione di Desirée Massaroni.

Dalla presentazione editoriale.
La raccolta completa degli interventi dello scrittore e critico romano (1945-2014) apparsi sulla rivista online del Sindacato Nazionale Scrittori, di cui era stato autorevole dirigente. Un libro eterogeneo che assomma scritti saggistici, recensioni, pagine diaristiche, lacerti narrativi, testi poetici. Ma insieme un libro fortemente compatto per via di una scrittura a centottanta gradi che tende ad abolire i confini tra il versante filosofico-teorico, quello analitico-letterario, quello diegetico-autobiografico e quello sofopoietico, attraversando Merleau-Ponty e Foucault, Lacan e Joyce, Žižek e Badiou, Benjamin e Chomsky, Derrida e Ferraris. Una scrittura ‘totale’ e di ascendenza sperimentale che cerca di interrogare in forme critiche e creative i nodi problematici del tempo attuale di declino e di radicale mutazione post-novecentesca e ipermoderna. Cogliendo i punti di conflitto tra corpo, linguaggio, ideologia e politica. Riflettendo sul perdurante bisogno di comunismo, pur dopo il suo effettuale collasso storico.

QUI il link per l’acquisto di “La fine continua”.


Noverar le stelle


Arte e scienza dopo secoli, sono tornate a far parte di uno stesso territorio al quale sono sempre appartenute: quello della creatività umana.
La divisione idealistica fra i due campi del sapere è caduta, speriamo per sempre.
Ha scritto Paul Feyerabend in ‘La scienza come arte’: “Ogni opera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d'arte è arte e scienza. Solo come spontanea è l'arte nella scienza, così spontanea è la scienza nell'arte”.
“Ars sine Scientia nihil est”. Questa celebre frase è di Giovanni Mignot, architetto parigino, pronunciata quando chiamato a Milano per valutare l’opera della fabbrica del Duomo.
Nel 1722 il compositore francese Jean-Philippe Rameau scriverà: “La musica è una scienza che deve avere regole certe: queste devono essere estratte da un principio evidente, che non può essere conosciuto senza l'aiuto della matematica”.
E Victor Hugo (voce isolata al suo tempo): "Non vi è alcuna incompatibilità fra l'esatto e il poetico. Il numero è nell'arte come nella scienza. L'algebra è nell'astronomia e l'astronomia confina con la poesia. L'anima dell'uomo ha tre chiavi che aprono tutto: la cifra, la lettera, la nota. Sapere, pensare, sognare”.
Oggi quei pensieri sono tornati di grande attualità sotto la nuova luce dell’intreccio multidisciplinare, che è alla base del procedere artistico nelle arti visive, nella musica, nella performance, e anche in letteratura dove usando logaritmi (penso a Philippe Bootz, Loss Pequeño Glazier, Shelley Jackson) sorgono forme di scrittura mutante.
Nel territorio fra arti visive e teatro, performers quali Orlan, Stelarc, Stelios Arcadiou, Yann Marussich, usano il proprio corpo come esplorazione antropologica della fisicità proiettata in una sorta di “neocorpo”, quel complesso organismo profetizzato dalla filosofia del post-umano che vede i suoi principali nomi in Eric Drexler, Max More, Kurt Kurzweil. Senza dimenticare le teorie di Roger Malina, una delle più brillanti menti che operano nel dibattito tra arte e scienza; dal suo osservatorio privilegiato della rivista del MIT “Leonardo” segue il fenomeno della fusione delle due culture, quella umanistica e quella scientifica, lanciando uno sguardo oltre i sensi e i tecnosensi.
In questo panorama, mi piace ricordare il contributo delle neuroscienze, mi limito a citare Zemir Zeki, fondatore della Neuroestetica, che con i suoi libri “A Vision of the Brain” e “Inner Vision” propone un innovativo modello d’analisi delle opere visive.
In tutto questo la scuola italiana che fa?
Ieri avvilita dal modello gentiliano con le materie tecniche e scientifiche subordinate a quelle umanistiche, dopo aver attraversato, in tempi recenti, perfino momenti in cui la sciura Moratti da ministro della Pubblica Istruzione tentò di escludere Darwin dai programmi, poi passata attraverso lo "tzunami Mariastella” (così chiamato il periodo che vide la Gelmini ministro della P.I.), oggi è finalmente dissestata dalla cosiddetta “buona scuola” renziana.
Insomma, la nostra scuola vede fondere la propria storia con quella del cabaret.
A passarsela particolarmente male sono le scienze e s’aggiunga che alcune di esse (astrofisica e biologia fra le prime) sono addirittura attaccate da beghine e baciapile.
Ecco perché è importante che esista una buona editoria scientifica.

Un’ottima occasione di lettura è data da una pubblicazione dell’editore Donzelli: Noverar le stelle Che cosa hanno in comune scienziati e poeti.
Ne è autore Marco Pivato. Studi classici, chimico farmaceutico, dopo il master in Comunicazione della scienza presso la Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste, ha fondato un’agenzia privata di comunicazione. Collabora con il supplemento ‘Tuttoscienze & Salute’ de “La Stampa” e riviste specialistiche. È socio dell’Unione giornalisti italiani scientifici.

Dal quarto di copertina: Aristotele sostiene, nella Metafisica, che la meraviglia suscitata dall’universo sia all’origine del nostro desiderio di conoscere, vale a dire la caratteristica più nobile dell’animo umano e ciò che ci differenzia dalle bestie. È la meraviglia a spingerci ad alzare gli occhi verso il cielo e a porci domande, ed è da lì che, agli albori dell’umanità, germogliarono le domande che portarono alla nascita della scienza e della poesia. E tuttavia, se un tempo Sumeri ed Egizi annotavano in versi i moti dei pianeti, Esiodo mostrava in esametri quali fossero i giorni migliori per la semina e Lucrezio divulgava in poesia la scienza di Epicuro, le due discipline nel corso dei secoli si sono allontanate sempre più. Nel Novecento però qualcosa cambia: da una parte, sempre più frequentemente si levano voci sulla necessità, per la poesia, di abbeverarsi alla fonte della scienza; dall’altra parte, quest’ultima conosce una vera e propria rivoluzione: innanzitutto nel campo della fisica e poi in quello della tecnologia, della genetica e delle neuroscienze, che la portano sempre più spesso a porsi le grandi domande originarie della filosofia e della poesia. In fondo, sostiene Marco Pivato, scienziati e poeti fanno lo stesso mestiere: entrambi tracciano visioni del mondo, gli uni attraverso teorie e formule, gli altri attraverso immagini e metafore. Le ‘due culture’ si nutrono l’una dell’altra; e a portare alla luce una medesima comunanza di sentire sono gli stessi protagonisti di queste discipline, spesso sollecitati direttamente dall’autore del volume: linguisti, letterati, fisici, genetisti e premi Nobel ci raccontano la loro esperienza e ci fanno capire quanto contigue siano le loro strade, e quanto spesso si incrocino, nel comune viaggio verso la conoscenza.

Un libro di prim’ordine. Temi impegnativi eppure trattati con scrittura semplice, scorrevolissima, oltre che ricca d’esempi. Bibliografia sterminata.

Marco Pivato
Noverar le stelle
Pagine 104, Euro 17.00
Donzelli Editore


La radio!

Come sanno quei generosi che leggono le mie pagine web, Cosmotaxi dedica spazi anche a libri non recenti, specie se si tratta di volumi che pur contando qualche anno di presenza in catalogo contengono idee che per motivi diversi meritano ancora attenzione.
È il caso di un importante titolo pubblicato da Greco&Greco firmato da Enzo Ferrieri intitolato La radio! La radio? La radio!.
Ferrieri (Milano, 7 luglio 1890 – Milano, 4 febbraio 1969), lo ricordo ai più giovani, è stato un regista, giornalista e sceneggiatore italiano.
Da una biografia di Wikipedia: “Dopo essersi laureato in Giurisprudenza, segue la sua passione per le arti sceniche e visive, scrivendo su alcuni giornali resoconti e critiche sulla prosa e sulle arti figurative della sua città. Nel 1920, fonda una propria pubblicazione periodica ‘Il Convegno’ rivista di letteratura, teatro e arti figurative, alla quale seguirà la fondazione del ‘Teatro del Convegno’, dove farà rappresentare opere di prosa classica e di avanguardia.
Nel 1929 l'Eiar, lo assume per affidargli l'incarico di programmatore della nascente prosa radiofonica, per la quale crea la prima Compagnia Stabile della Radio Italiana, occupandosi successivamente anche della regia e dell'adattamento, al nuovo mezzo di testi teatrali. Continuerà anche dopo il periodo bellico, con la nascita della Rai, quando sarà intensificato il numero delle commedie, dei radiodrammi e degli sceneggiati radiofonici curando la regia di oltre 500 opere drammatiche d'ogni paese.
Ferrieri farà parte di quel piccolo gruppo di registi che inizierà a lavorare anche nella neonata televisione italiana, dirigendo alcune commedie a partire dal 1954, soprattutto presso il Centro di Produzione di Milano, spesso usando lo stesso Teatro del Convegno, come luogo di riprese video”.

Un’altra più estesa biografia: QUI.

La radio! uscì nel 2002 a cura di Emilio Pozzi, con un saggio - forse l’ultimo suo - di Maria Corti che nel suo scritto ricorda anche come l’attività di Ferrieri “svolta durante il periodo fascista evitò qualsiasi coinvolgimento nelle istituzioni del regime”.
Perché è attuale questo libro? Perché contiene un Manifesto scritto da Ferrieri nel 1931.
Quel Manifesto si tratteneva sui modi di produrre radio: dall’uso della voce alla programmazione musicale, dai notiziari alla prosa.
Poi, si soffermava con largo spazio sulla “forza creativa” (parole di Ferrieri) del mezzo radiofonico, sulle sue possibilità d’essere non soltanto informazione e divulgazione (come Bertolt Brecht in modo grigio andava postulando) ma anche qualcosa che riguardava l’intrattenimento estetico rivolto pure alle nuove forme del teatro e della musica.
Tutto questo nel giugno 1931, anticipando il famoso saggio di Arnheim “La radio cerca la sua forma” che è del 1935, tradotto in Italia nel 1937.
Seguì un’inchiesta, promossa da “Il Convegno” il 25 agosto ’31, che chiese a molti intellettuali il loro pensiero sulla “radio creativa”; risposero in 39.
Il libro riporta quelle risposte e in tanti manifestarono diffidenza se non incredulità rispetto a una radio… creativa. Fra i nomi più noti, i più lontani e dubbiosi: Anton Giulio Bragaglia, Alberto Casella, Emilio Cecchi, Guido Piovene, Ottorino Respighi, Gino Rocca, Gualtiero Tumiati, altri – non pochi – ancora.
Fra i sostenitori di Ferrieri, invece, troviamo (e non è una sorpresa) F.T. Marinetti che pubblicherà sulla "Gazzetta del Popolo” il Manifesto futurista “La radia” solo nell'ottobre 1933 vale a dire due anni dopo la provocazione di Ferrieri.
Altri che si dichiararono d’accordo con il “Referendum” (così fu chiamato quello lanciato da “Il Convegno”): Lucio D’Ambra, Silvio D’Amico, Piero Gadda.

L’attenzione che Ferrieri (spesso incompreso, come ho già scritto) riservò a una radio creativa e la ragionata scommessa sulle sue possibilità future, troverà conferme molti anni dopo quando tante emittenti pubbliche dedicheranno spazi di palinsesto a trasmissioni sperimentali e l’Italia sarà protagonista di un rinnovamento di linguaggio del mezzo radiofonico dapprima con l’opera di Franco Malatini che sperimentò nuovi modelli del radiodramma e poi con Pinotto Fava, autore e produttore col quale ho avuto la gioia di collaborare, che con il contenitore “Audiobox“ per quasi vent’anni proiettò nelle produzioni forme d’intercodice raccogliendo e miscelando segnali dal tecnoteatro ai videogames, dall’elettronica povera alla diplofonia, dai suoni delle ricerche di laboratori scientifici a quelli dello Spazio, e fondando nell’86, in seno all’EBU (European Broadcasting Union), “Ars Acustica”, un comitato internazionale che raggruppava i settori di sperimentazione delle radio pubbliche europee (con corrispondenti in Australia e in USA) collegandone e coordinandone le attività.
Di Fava, v’invito a leggere un suo saggio che riflette sulle potenzialità e le difficoltà d’esistenza di una radio dedicata alla ricerca e verifica della nuova espressività. Potenzialità che ieri Ferrieri aveva intravisto già negli anni ’30 e difficoltà rappresentate oggi da direttori di reti che mal sopportano programmazioni sperimentali temendo che queste possano determinare perdite d’ascolto. Tanto che la Rai (a differenza di antenne straniere più attente al nuovo), da quando chiuse “Audiobox” più non possiede uno spazio di palinsesto destinato alla ricerca di laboratorio in nessuna delle sue reti, né in quelle giornalistiche, non in quelle di varietà e neppure dove agiscono “i chiacchierini di Radio Tre” (copyright Goffredo Fofi).

Concludendo, questo libro di Ferrieri oltre a dover essere una lettura obbligatoria per chi lavora negli studi radiofonici, può e deve interessare anche chi studia la storia dei media oppure è interessato a capire perché una “radio creativa” è assente nei palinsesti dei nostri giorni.

Enzo Ferrieri
La radio!
A cura di Emilio Pozzi
Con un saggio di Maria Corti
Pagine 176, Euro 7.75
Greco&Greco Editori


Tavole italiane


Durante i miei viaggi di lavoro, mi piace visitare locali che non siano “mangifici” ma posti che siano in grado di produrre emozioni sensoriali sia che si tratti d’alta gastronomia sia che si tratti di cucina popolare.
Di recente ero a Bologna. Città troppo schiacciata sulle pietanze tradizionali – ottime (se ben fatte s’intende) – con scarsa inventiva in giro per divertirsi.
Desidero, però, citare un luogo che mi è piaciuto, e non poco.
Si tratta dello Swine Food - nella foto una veduta dall'esterno - guidato da Gian Mario Sacquegna.
Si trova in centro, sotto i portici di Via Righi, a due passi da Piazza VIII agosto.
Tavoli all’aperto e in interni dove l’ambiente è di sobria eleganza, rivestimenti in legno, sapiente illuminazione.
Dalla cucina vengono lietissime sorprese. A procurarvele è una giovane chef sulla quale scommetto senza esitazione alcuna su di un suo ancor più brillante futuro.
Il suo nome è Pamela Menegoli; segnatevelo, ne sentiremo parlare.
Non sto a descrivere i piatti che lì ho consumato, la trovo un’operazione improbabile che fatalmente finisce in quel logoro gergo dei critici di gastronomia, me ne tengo lontano anche perché non sono un critico. Proprio, però, a quelli che scrivono professionalmente di cucina, dico loro di tenere d’occhio quel nome. Pamela crea un’impareggiabile armonia fra tradizione e innovazione, con la capacità di creare inediti equilibri di sapori in piatti che risultano complessi ma non complicati e disposti con attenzione al food design.
Le ho chiesto di dirmi le sue origini professionali. Ha così risposto.
Allora cosa dire… dopo esperienze fatte alla “Corte dell’Ulivo”, un ristorante aperto con la mia famiglia ad Ozzano, ho lavorato tre anni alle “Officine degli Apuli” con cucina a vista in Via San Lorenzo a Bologna.
Poi sono stata a Casa Minghetti nell’omonima, bellissima, piazza bolognese.
Conosciuto Gian Mario, lavoro, come sai, allo Swine Boutique Restaurant.
Ho sempre gestito io tutte le cucine e i fornitori perché credo sia la condizione prima per poter assumere diretta responsabilità sulle materie prime ed esprimere pienamente i talenti che si hanno
.

Il locale, come dicevo poco prima, è deliziosamente arredato e si avvale anche di un banco bar se volete trattenervi soltanto per un bicchiere.
Mi permetto, sommessamente, solo un suggerimento. Migliorare cioè il servizio ai tavoli perché risulta fatto un po’ di corsa, senza spiegazioni sulla costruzione dei piatti e con pause che – al momento in cui c’ero io – non erano giustificate (a parte che mai lo sono) da un affollamento di clienti. Penso sia importante perfezionare quest’aspetto.
Circa i prezzi, li ho trovati assolutamente frequentabili.

Swine Food
Via Augusto Righi 34
tel: 051 – 23 26 31
Bologna


Irish Film Festa

In Italia, la conoscenza del cinema irlandese si deve soprattutto all’opera di studiosa e organizzatrice svolta da Susanna Pellis (in foto).
Ricordo qui la sua “Storia del cinema irlandese” pubblicata da Lindau nonché l’ideazione e realizzazione dell’Irish Film Festa che quest’anno, da lei diretto, giunge alla IX edizione.
Realizzato in collaborazione con Irish Film Institute e con il sostegno di Culture Ireland, Irish Film Board, Turismo Irlandese, patrocinato dall’Ambasciata irlandese in Italia, l'Irish Film Festa (il trailer 2016 QUI ) è prodotto dall’Associazione culturale Archimedia.

A Susanna Pellis Cosmotaxi ha rivolto alcune domande.
Quando nasce il cinema irlandese?

Come in tutta Europa, il cinema è arrivato in Irlanda a fine Ottocento, con le prime proiezioni delle pellicole dei fratelli Lumière; mentre la prima casa di produzione indigena, la Film Company of Ireland, è stata aperta nel 1916.
Poi, dopo decenni di false partenze, il cinema irlandese ha visto l’emergere della prima generazione di registi, indipendenti e per lo più autodidatti, dalla metà degli anni Settanta: si tratta di Bob Quinn, Joe Comerford, Cathal Black, Kieran Hickey, Pat Murphy, Thaddeus O’Sullivan, i cui film sono di forte impatto socio-politico, e in qualche occasione anche sperimentali.
Ben diversa, più regolare ma assai meno politicizzata, è la produzione successiva, che prende slancio dagli esordi di Neil Jordan e Jim Sheridan all’inizio degli anni Novanta e dall’apertura dell’Irish Film Board, l’ente governativo avviato nel 1993 con il compito di sostenere l’industria cinematografica locale
.

Perché è fatto il nome di James Joyce circa la storia delle origini delle prime sale?

Perché il nome di James Joyce è legato alla prima sala cinematografica dell’isola, il cinema Volta, aperto a Dublino nel 1909 su iniziativa dello scrittore.
Tanto per la Film Company of Ireland quanto per il cinema Volta si è trattato, però, di avventure molto brevi
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Un tuo flash sull’Irish Film Festa di quest’anno…

L’Irish Film Festa di quest’anno ha due percorsi paralleli: da un lato film che ricordano, ricostruiscono e ripensano la Rivolta di Pasqua del 1916, nel Centenario di quello che è stato il momento fondante per la futura Repubblica d’Irlanda; dall’altro i migliori titoli della produzione più recente di questa cinematografia, che si fa di anno in anno più ricca e vitale. Ricchezza e vitalità – nei temi, nelle forme, nelle tecniche - che sono evidenti anche nella sezione cortometraggi, dove ci saranno venticinque corti, divisi fra concorso e fuori concorso.
Ma la caratteristica permanente, e quindi ripetuta, di questo festival è senza dubbio quella di essere un’occasione d’incontro con i filmmakers e gli attori irlandesi, in conversazioni sul cinema che cercano sempre di unire leggerezza e profondità
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L’importanza della Rivolta di Pasqua sarà sottolineata dall’anteprima italiana di “1916 The Irish Rebellion”, film documentario con la voce narrante dell’attore irlandese Liam Neeson; un documentario che colloca gli eventi della Easter Rising dublinese in una prospettiva europea e globale, analizzandola come parte dell’anti-colonialismo che prendeva forma negli anni della prima guerra mondiale e che avrà tra le sue conseguenza la fine dell’impero britannico.
Sullo stesso tema in programma anche una selezione di episodi da “1916 Seachtar na Cásca” (trad. ing. “The Easter Seven”, trad. ita. “I sette di Pasqua”), serie televisiva storico-documentaristica prodotta da Abú Media Films per il canale televisivo in lingua gaelica TG4.
I film sono in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Per conoscere il programma con date e orari: CLIC!

Ufficio Stampa Irish Film Festa
Michela Giorgini – +39. 339 – 871 79 27; mail: giorginimichela@gmail.com

Irish Film Festa
Casa del Cinema, Roma
Largo Marcello Mastroianni 1 (Villa Borghese)
Facebook: facebook.com/irishfilmfesta
Twitter: @IrishFilmFesta
Instagram: @irishfilmfesta
YouTube: IrishFilmFesta Roma

Info: info@e-archimedia.org

Ingresso gratuito
Dal 7 al 10 aprile ‘16


Velleità della materia

Molte e interessanti le novità proposte dall’editore Nino Aragno.

Segnalo oggi Velleità della materia di Luca Orlandini.
Grande studioso di Benjamin Fondane – ha curato e tradotto per Aragno la prima edizione italiana dell’importante monografia baudelairiana di quello scrittore romeno: Baudelaire e l'esperienza dell'abisso (2013) e, sempre di Fondane, "La coscienza infelice" (2016).
Per la stessa casa editrice ha pubblicato il saggio critico La vita involontaria (2013).
Del 2014 è "Falso Trattato d’estetica. Saggio sulla crisi del reale".

Dalla presentazione editoriale.
“Velleità della materia è un testo composto da pensieri brevi, introdotto da due paradossali citazioni d’eccezione. Una lunga, pressoché sconosciuta al grande pubblico, di Giorgio Manganelli, nella quarta di copertina; e una di Giacomo Leopardi. Il testo rappresenta un insieme di divagazioni, allo stesso tempo naturaliste e metafisiche, dall’accento non di rado lirico, sulla condizione per certi aspetti equivoca dell’intellettuale, del filosofo, del critico, come di certa poesia o arte. È anche la ricognizione non oggettiva su un tema antico ma più che mai attuale: la perdita del segreto della propria natura, della fertile alleanza tra la biologia e la gnosi – la potente circolazione tra arte e vita”.

Luca Orlandini
Velleità della materia
Pagine 188, Euro 15.00
Nino Aragno Editore


Where is the whale?

A Cosmotaxi piace il lavoro di Giuliana Cunéaz (in foto) e l’ospitò nella sezione Nadir di questo sito dove troverete un video e dichiarazioni che fa sul suo lavoro.
Diplomata all'Accademia Belle Arti di Torino, utilizza tutti i media artistici, dalla videoinstallazione alla scultura, dalla fotografia sino agli screen painting tecnica da lei inventata.
Dall'inizio degli anni Novanta inizia un’indagine dove la ricerca plastica si coniuga con le sperimentazioni video. E’ stata tra le prime artiste a lavorare sulle immagini stereoscopiche 3D, procedimento che utilizza sin dal 2003.
Dispone in Rete di un suo sito web.
QUI la sua biografia.

Attualmente in esposizione: "Where is the whale?" (Dov'è la balena?) nel Museo Marino Marini di Pistoia dove è in corso la mostra.
“Quando ho visto lo spazio del Museo Marino Marini” – dice Giuliana Cunéaz – “ho immediatamente pensato alla favola di Pinocchio e al ventre della balena, una caverna accogliente dove la dimensione dello spazio e del tempo paiono sospesi”.
La mostra è a cura di Lorenzo Madaro.

Ecco un brano tratto dal testo critico scritto dal curatore per la mostra: ... la militanza ormai lunga nell’ambito delle tecnologie digitali ha segnato profondamente il lavoro dell’artista, che lei adotta con disinvolta e al contempo studiata concentrazione per sollecitare un coinvolgimento sensoriale, immersivo e quindi totalizzante. I suoi sono simulacri di un paesaggio reale e immaginato, in ogni caso realistico, che cinge lo sguardo dello spettatore, spingendolo a provare in prima persona stupori e turbamenti, modificando pertanto lo spazio della rappresentazione per renderlo teatro di un’esperienza privata e insieme collettiva. Un’esperienza chiaramente mediata, per certi versi controllata, ma dalle sicure prospettive travagliate. Entrando nello spazio del museo dedicato al nuovo lavoro di Giuliana Cunéaz, il pubblico sarà costretto a muoversi tra sculture in tridimensione, archeologia immaginaria di un’ipotetica catastrofe, probabilmente di quell’onda che si staglia con prepotenza nel video in 3D installato sul fondo dell’ambiente, paesaggio virtuale in cui si verifica una costante danza ossessiva tra nascita e sparizione, tra creazione e distruzione.

Where is the whale?
Mostra personale di Giuliana Cunéaz
a cura di Lorenzo Madaro
Museo Marino Marini di Pistoia
Info: 0573 - 30 285
Fino al 16 aprile 2016


Donne allo specchio


Una delle più vecchie e irrisolte (tanto che ancora se ne dibatte) questioni letterarie è l’esistenza di una scrittura femminile che si differenzi da quella maschile.
Non m’inoltrerò in quel territorio, non sono uno storico né un critico, né, volendo avventurarmi in quello scivoloso terreno dispongo qui dello spazio necessario.
In tempi recenti è sorta una nuova “quaestio” specialmente tra le femministe: considerare la scrittura femminile come cosa ancora da farsi, e necessaria a farsi (oppure no), ne è sostenitrice la poststrutturalista Hélène Cixous e vi si oppone, invece, l’intertestualista Julia Kristeva.
Se evitavo d’entrare nella prima “querelle” esposta, su quest’ultima arretro atterrito.
Una cosa è però ben certa: le donne, per motivi prevalentemente sociali, sono arrivate tardi alla scrittura. Su questo tema – ma anche sulla scrittura al femminile – esiste un saggio d’anni fa (“Una stanza tutta per sé. Viaggio attraverso romanzi e poesie femminili del XIX e XX secolo”) di Luciana Martinelli, docente di letteratura italiana all’Università di Cassino, la quale così riassunse il suo lavoro in una lontana intervista: Lo sviluppo industriale porta all’emergere della figura della donna in Francia e in Inghilterra, sia pure in figure di secondo piano come la maestra elementare. Jane Austen vive in un paesino, ma ha una tale capacità di osservazione di quello che la circonda che nei suoi romanzi riesce a riplasmare la realtà. Scrive su pezzetti di carta che corrono il rischio di essere buttati; non ha neppure una scrivania, si appoggia al tavolo di casa. Così le sorelle Bronte, poverissime, usano per scrivere la carta rivoltata dello zucchero.
Anni dopo, in un contesto completamente diverso, Virginia Woolf, proprio a proposito della Austen, osserva che alla donna manca una stanza tutta per sé. La stanza è un termine polivalente: da una parte è il luogo fisico in cui isolarsi per scrivere, dall’altro è il simbolo della propria interiorità. Nella scrittura l’uomo rivela uno sguardo verticale, rivolto al di fuori; la donna invece nella letteratura vuole ritrovare le sue verità, approfondire gli stati d’animo. Le scrittrici italiane scontano il ritardo con cui il paese arriva alla modernizzazione, il loro cammino è lento, la conquista dell’autonomia molto faticosa. Capuana, con dispregio, definisce ‘donnesco’ lo stile delle donne
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Un illuminante contributo storico ci viene da Guido Davico Bonino (QUI una sua biografia, e QUI un’intervista che rilasciò a questo sito) eccellente curatore dell’antologia Donne allo specchio I più bei racconti della letteratura italiana al femminile pubblicata dalla BUR.
Nella Premessa, Davico Bonino nel chiarire le finalità del suo lavoro, nota che la dizione "narrativa al femminile": … sia una formula – ci teniamo a sottolinearlo – di puro comodo, giacché l’arte del raccontare prescinde dal sesso e non soffre – né gode – di predeterminazioni genetiche.
Scrive inoltre che circa le scrittrici selezionate sia criticamente impossibile distinguerle secondo correnti o movimenti perché ciò che le distanzia dai "colleghi" è proprio il non essere apparentabili l’una all’altra.

“Donne allo specchio” presenta una ricca galleria di autrici italiane … tra i primi decenni dell’ottocento e gli anni Quaranta del Novecento, quando le scrittrici a noi più prossime passano, secondo una malinconica litote, a miglior vita.
Per ognuna di loro è redatto un breve scritto, che per intensità posseduta è poco definire scheda; figure spesso poco note che sono accanto ad altre più conosciute: dalla Contessa Lara a Carolina Invernizio, da Matilde Serao ad Annie Vivanti, da Ada Negri a Grazia Deledda.
Come accade per ogni antologia, certamente qualche voce si leverà lamentando questa o quell’esclusione. Qui, però, accanto alle scelte del curatore bisogna tenere conto che alcuni nomi – si pensi, ad esempio, a Sibilla Aleramo – pur di notevole peso … non ci è stato possibile includerli per tutt’altro ordine di ragioni, editoriali, nel rispetto della vigente legge sul diritto d’autore che concede agli editori di pubblicare a titolo gratuito l’opera, totale o parziale, di qualunque scrittore purché sia venuto a mancare prima dei settant’anni dalla sua riproposta.
L’antologia è divisa in due parti: la prima accomuna racconti per lettori adulti (racconti tutti in versione integrale, peraltro nessuna pagina è estratta da romanzi proprio per dare un compiuto ritratto dello stile d’ogni scrittrice), mentre la seconda parte raccoglie novelle e fiabe scritte espressamente per bambine o adolescenti.

La lettura di “Donne allo specchio”, oltre ad essere preziosa per quanti studiano professionalmente la letteratura italiana, si presenta ghiotta anche per altri lettori perché le opere presentate mostrano in trasparenza, talvolta involontariamente, tic e tabù, veri vizi e presunte virtù degli anni in cui le scrittrici operano. Più volte colpisce, ad esempio, come scorra in alcune scritture una torbida tensione e non soltanto nella disinibita Amalia Guglielminetti (beccò anche un processo per oltraggio al pudore, nel 1935, per un articolo sulla rivista “Cinema illustrazione” dedicato all’attore Jach Le Rue), ma anche in Contessa Lara o Carolina Invernizio. Intendiamoci, niente (neppure nella Guglielminetti) pagine torride come in Almudena Grandes o in Alina Reyes, oppure – per restare in Italia – in Claudia Salvatori o Francesca Campalani, ma leggendo troverete sottese rattenute pulsioni, brividi soffocati.
Del resto, perché meravigliarsene troppo? Alcuni mettono nella storia della letteratura erotica (sia pure in senso lato) l’estensione dell’autobiografia di S. Teresa d’Ávila che narra delle sue esperienze interiori ed esterne sotto il promettente titolo “Relazioni”. Libro che non a caso ha ispirato Bernini nel realizzare l’Estasi lavoro non priva di ambiguità e, secoli dopo, proprio quell’opera marmorea ha mosso il mio amico Saturno Buttò in una versione decisamente a luci rosse che potete vedere QUI cliccando sulle immagini per ingrandirle.

Donne allo specchio
A cura di Guido Davico Bonino
Pagine 812, Euro 16.50
Bur


La voce dei sommersi

Fra i libri necessari, ce ne sono alcuni più necessari degli altri.
È il caso, ad esempio, di un volume pubblicato da Marsilio intitolato La voce dei sommersi Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz a cura dello storico e regista teatrale Carlo Saletti. Autore che ha dedicato altri studi alla persecuzione nazista; tra i più recenti, “Fine terra. Benjamin a Portbou” (2010) e, insieme con Ernesto De Cristofaro, “Precursori dello sterminio” (2012).
Per Marsilio ha pubblicato, con Frediano Sessi, Visitare Auschwitz (2011, due edizioni).
In questo video, Saletti ad Auschwitz mentre rivolge un breve, ma illuminante intervento a una scolaresca.

Ecco un libro che andrebbe, per decreto legge (se ne fanno tanti utili solo alla casta, uno utile alla Storia non guasterebbe) messo nelle biblioteche scolastiche per essere commentato nelle ore della inguaiatissima ma detta “buona scuola” italiana.
A quei manoscritti, ritrovati sotterrati intorno ad Auschwitz, si è ispirato l’ungherese László Nemes nel suo pluripremiato Il figlio di Saul; "È stata una lettura sconvolgente" - ha detto il regista in un'intervista - "Mi ha spinto a fare il film".
Il termine “sonderkommando” si riferisce ai deportati, in maggioranza ebrei, obbligati a collaborare con le autorità naziste nei campi di sterminio con il compito principale di accompagnare altri ebrei nelle fatali “docce” illudendoli che tali fossero, di rimuovere poi i corpi dalle camere a gas e di provvedere alle cremazioni.
«Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. [...] Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti». Sono queste parole di Primo Levi, internato ad Auschwitz ed autore di “Se questo è un uomo”.
Assai spesso sui componenti i Sonderkommando si sono accanite critiche feroci: “Perché avete accettato un lavoro così infame?”…”Perché non vi siete ribellati?” (in effetti una ribellione, invece, ci fu e finì in una trage, altri preferirono il suicidio).
Da una riflessione riportata su Wikipedia: “In pratica, non esistevano alternative per un deportato selezionato per il sonderkommando, o la morte immediata oppure la tenue speranza di sopravvivere almeno per qualche mese: anche in caso di rifiuto qualcuno sarebbe stato ‘convinto’ a prendere il loro posto. I pochissimi sopravvissuti di queste unità speciali, a differenza di molti altri deportati, non sentirono, in maggioranza, la necessità di scrivere le loro impressioni e memorie: il loro destino di ‘complici dei carnefici’ era troppo crudele anche per essere ricordato”.
Anche per questo è prezioso “La voce dei sommersi” con i suoi documenti fatti di poche, laceranti pagine che nessuna opera in prosa, in versi, in musica, nelle arti visive, è mai riuscita ad eguagliare in forza d’evocazione di un inferno mai prima ritenuto possibile.

Ancora una cosa che rende tragicamente necessarie oggi le pagine curate da Carlo Saletti: è stato smantellato ad Auschwitz il Memoriale degli Italiani alla cui progettazione e realizzazione lavorarono Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Primo Levi, Pupino Samonà, Nelo Risi, Luigi Nono, al fianco degli ex deportati allora al vertice dell'Aned, a cominciare da Gianfranco Maris, Teo Ducci e altri.
Proprio grazie all'Aned è stato faticosamente possibile riprogettare il trasferimento a Firenze del Memoriale.

La voce dei sommersi
A cura di Carlo Saletti
Prefazione di Frediano Sessi
Postfazione di Franciszek Piper
Pagine 296, Euro 17.00
Marsilio


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