Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
giovedì, 30 giugno 2016
Come pesci nella rete
Mentre leggete queste righe chissà quante mail stanno correndo verso il vostro indirizzo web, eppure di questo recente mezzo di trasmissione non tutti ricordano a chi lo dobbiamo. A chi dobbiamo tanta velocità, una grande rivoluzione dei rapporti fra noi umani, (dei possibili danni ne parliamo dopo). Il suo nome è Raymond Samuel "Ray" Tomlinson, programmatore statunitense, fu lui a inventare l’email nel 1971. Nato ad Amsterdam il 23 aprile 1941, morto 74enne, a Lincoln, il 5 marzo di quest'anno. Impegnato nello sviluppo di Arpanet (la rete di computer del Dipartimento della Difesa americano che costituisce l'embrione di Internet), utilizzò la procedura con il simbolo @ per collegare username e indirizzo email di destinazione Sul suo blog, per evitare leggende e false informazioni, scrisse: La prima e-mail è stata inviata tra due macchine che si trovavano l'una accanto all'altra. Il primo messaggio fu abbastanza insignificante e in realtà l'ho dimenticato. Probabilmente si trattò di QWERTYUIOP (le prime lettere in orizzontale sulla tastiera), o qualcosa del genere. Non credete a tutto quel che leggete sul web, è scritto da noi umani e spesso commettiamo degli errori. Commettiamo degli errori, ma non solo. A volte errori non sono, ma vere e proprie trappole che, sulla rete, conoscono un nuovo modo di raggirare, truffare, e fare anche di peggio.
A metterci in guardia dai pericoli esistenti, ecco una pubblicazione di Mimesis: Come pesci nella rete Guida per non essere le sardine di Internet. L’autore è Alessandro Curioni nato nel 1967. Editore, imprenditore, ha origini giornalistiche; nel 2003, dopo due anni di studio, pubblica per Jackson Libri il volume Hacker@tack. Da questa esperienza e dopo sette anni di lavoro nel settore delle comunicazioni elettroniche, fonda, nel 2008 DI. GI. Academy, azienda specializzata nella formazione e consulenza nell’àmbito della sicurezza informatica, della quale è azionista e Presidente. Nel 2015 riprende la sua attività pubblicistica per diverse testate cartacee e on line. In questa società dei nostri giorni si parla tanto di privacy forse perché mai fu violata come lo è ora. Curioni, infatti, esordisce scrivendo: “Se pensate che quando accendo il mio portatile mi senta tranquillo, avete ragione. Nel senso che sono ‘tranquillamente’ pronto a scoprire che qualcuno mi ha truffato online”. E se lo dice lui che ha passato anni e anni in giro per le aziende per difenderle da attacchi d’ogni genere, c’è da credergli! Attraverso una serie di agili capitoli, l’autore illustra le tante possibilità di entrare nelle nostre vite da parte di sconosciuti malintenzionati che vanno a caccia di identità per rubarle, s’impossessano d’informazioni per usarle fino al ricatto. Fornisce pure alcuni mezzi per difendersi, il primo dei quali è avere coscienza dell’ambiente informatico nel quale viviamo, dire il meno possibile di noi nei documenti, se il computer, ad esempio, è mandato in riparazione avere cura di cancellare tutto (riversandolo su di una pen drive, tenuta in luogo solo a noi noto), e altri accorgimenti semplici ed efficaci. Il libro si chiude con un capitolo (intitolato “Venti anni nel futuro”) nel quale Curioni dà prova di narratore immaginando un attentato terroristico che avviene fra due decenni. Fantascienza?... Sì e no. Scrive Giacomo Amadori nella Presentazione: “Ormai tutti navigano in Internet, ma spesso lo fanno senza saper nuotare e senza salvagente. In questo oceano di bit Alessandro Curioni ci fa da bagnino e ci lancia una ciambella per non finire in pasto agli squali”. Alessandro Curioni Come pesci nella rete Presentazione di Giacomo Amadori Pagine 144, Euro 10.00 Mimesis Edizioni
martedì, 28 giugno 2016
Etologia filosofica (1)
Diceva Anatole France: “Fino a quando non hai amato un animale, una parte della tua anima sarà sempre senza luce”. Sono molti gli errori che l’animale uomo commette verso gli animali non umani. Il primo è quello d’immaginare una propria superiorità naturale. Ed ecco perché la Chiesa detesta tanto Darwin che – come sostiene Daniel Kevles – ha osato ficcare il naso nella narrazione giudaico-cristiana dell'origine della vita detronizzando l'uomo dalla sua speciale posizione in cima alla scala biologica, sottraendolo all'autorità morale della religione. Montaigne in uno dei suoi Saggi scrive: “Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei”.
Riflessioni filosofiche sulla soggettività animale sono contenute in uno splendido saggio pubblicato da Mimesis – nella collana Eterotopie diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna – titolo: Etologia filosofica. Lo ha scritto Roberto Marchesini. Il libro si avvale di una densa postfazione di Felice Cimatti. Roberto Marchesini (Bologna 1959) è filosofo, etologo e zooantropologo. Direttore del “Centro studi filosofia postumanista” e della “Scuola di interazione uomo-animale” (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della filosofia, dell’etologia e della bioetica. Tra queste: Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza (2002), Il tramonto dell’uomo. La prospettiva postumanista (2009), Contro i diritti degli animali? (2014), Fondamenti di zooantropologia (2014), Epifania animale. L’oltreuomo come rivelazione (2014) e il libro che presentiamo oggi, edito quest’anno. Dirige inoltre la rivista Animal Studies. Rivista italiana di antispecismo. Ad aprile 2016, per la rivista Angelaki è uscito il numero “The Philosophical Ethology of Roberto Marchesini” a cura di Brett Buchanan, Matthew Chrulew & Jeffrey Bussolini che raccoglie i passaggi più significativi dei testi del filosofo per la prima volta tradotti in inglese. Nel 2015, Il Corriere della Sera, lo segnala tra i 10 italiani che stanno cambiando il Paese per i suoi contributi nel campo della zooantropologia. Dalla presentazione editoriale. La soggettività è uno stare nel mondo e affrontare problemi comuni alla condizione dell’essere animali ma farlo in modo singolare. Riconoscere una soggettività animale significa rivalutare lo stato dell’essere nei suoi caratteri di base che trascendono l’appartenenza a un percorso filogenetico particolare. Essere soggettivi significa poter utilizzare le proprie dotazioni come si usa una mappa di una città per realizzare in modo corretto la singolarità del proprio itinerario. Ecco allora che l’essere animale è qualcosa che mi riguarda e che posso capire. Segue ora un incontro con Roberto Marchesini.
Etologia filosofica (2)
A Roberto Marchesini, (in foto), ho rivolto alcune domande. Che cosa principalmente l’ha spinto a scrivere questo libro?
Il mio interesse primario è approfondire il tema dell'animalità ovvero della condizione dell'essere-animale, mettendo in discussione quegli operatori riduzionistici e deterministici che ne hanno fatto un contro-termine dell'umano schiacciandola nel dominio del meccanicismo e della omologazione. La tradizione investigativa, sia di marca etologica sia psicologica, non ha messo in discussione il presupposto di base, vale a dire il concetto cartesiano di res-extensa, impostando la ricerca su canoni di interrogazione dell'animalità che tautologicamente andavano a confermare ciò che già era dato come assodato. Faccio un esempio: se, osservando una particolare specie, il ricercatore acquisisce solo i comportamenti che sono comuni ai diversi membri scartando le espressioni individuali, ovvero considerandole rumore o emergenze aneddotiche, poi inevitabilmente avrà come risultato un quadro omologato dell'espressività specie specifica. Questo non porta semplicemente a una negligenza dell'individualità ma a considerare il retaggio filogenetico come un complesso di automatismi che muovono l'animale automa e non come uno strumento che l'individuo utilizza per realizzare la propria singolarità. La rivoluzione darwiniana è stata ricondotta all'interno dell'alveo umanista, nonostante il suo implicito portato sovvertitore, attraverso azioni diluitive e correttive lungo tutto il Novecento - penso al pensiero di Arnold Gehlen o di Martin Heidegger - tese a ripristinare l'argine ontologico tra l'essere umano e le altre specie. Estrarre la condizione umana dalla dimensione animale, per esempio rimarcando pichianamente l'incompletezza biologica e l'assenza di rango oppure separando l'esperienza umana dall'immersione diretta nel contesto mondo, significa disarmare il continuismo darwiniano attraverso la solita piroetta umanistica che con estrema disinvoltura trasforma una petitio principii in un fondamento: l'essere umano è svincolato dalla natura, abita una realtà altra, la differenza non è ontica bensì ontologica. Dal mio punto di vista ridiscutere il tema dell'animalità significa emancipare l'animalità dallo stato di cattività in cui l'ha costretta l'umanismo. Riprendendo il titolo della sua Introduzione: che cos’è l’etologia filosofica? Si tratta di soffermarsi non più sulla descrizione del comportamento specie specifico utilizzando il paradigma cartesiano del determinismo innato o appreso, vale a dire i predicati espressivi della macchina animale, ma di analizzare il presupposto di fondo, ovvero l'idea che l'animalità possa essere assimilata a un insieme di automatismi indagabili attraverso modelli meccanicisti. In altre parole, è la messa in discussione del paradigma cartesiano di res extensa, la ricerca dei contenuti meta-predicativi dell'animalità: come dire, prima ancora di chiedermi come viene effettuato un certo comportamento, pongo il problema del significato del comportamento rispetto al qui e ora dell'animale. Considerare l'animale come un burattino mosso da dei fili non tiene conto di un gran numero di confutazioni: un burattino non saprebbe gestire la singolarità del reale e quindi le novità, avrebbe bisogno di un automatismo per ogni più piccola condizione del reale ovvero la sua configurazione sarebbe tutt'altro che parsimoniosa, non potrebbe spiegare come si passa dalla macchina all'umano. Insomma è evidente che l'idea che l'espressione animale sia il risultato di inneschi e sia regolato da cascate meccanicistiche, attraverso configurazioni innate o apprese - gli istinti e i condizionamenti - fa acqua da tutte le parti e regge solo perché esiste un bisogno profondo nell'essere umano, soprattutto di tipo culturale, di smarcarsi dall'animalità e dalla visione continuista. Credo pertanto che sia venuto il momento di considerare l'animalità nei suoi caratteri comuni ma soprattutto nella pluriversità delle sue espressioni come un tema filosofico che investe sia la natura ontologica dell'essere animale che la struttura epistemologica d'investigazione dell'animalità. Le domande che facciamo agli altri animali hanno un esito scontato nelle risposte e questo si chiama pregiudizio. In virtù di quale ragionamento assistiamo nel libro all'intervento della filosofia postumanista nell’antispecismo? La filosofia postumanista mette in discussione l'universalismo e l'antropocentrismo, sottolineando l'importanza di considerare l'espressione di ogni ente come un'emergenza relazionale e non come un'emanazione autarchica di predicati essenziali. La vita è una continua ibridazione tra gli enti, ogni essere vivente non è mai autonomo ma è sempre correlato, non sviluppa mai una metrica personale ma costruisce il suo esserci attraverso coniugazione e non distanziamenti. La filosofia postumanista pertanto rimette al centro il momento di connessione e l'emergenza predicativa di risulta, che non può essere ascritta ad alcuni dei due elementi relazionali né a una sommatoria di questi, bensì all'atto di convergenza in sé. Per questo la filosofia postumanista detronizza l'immagine vitruviana dalla definizione dell'umano, non per sminuire l'essere umano o per mettere al centro qualcos'altro, bensì per smarcarsi dal concetto di centro, di universalità, di metrica e di sussunzione. La predicazione è aperta e imprevedibile, non è proiettiva e predefinita, ed è il frutto delle infinite coniugazioni che virtualmente sono davanti a noi. Per questo per il postumanismo è fondamentale superare l'antropocentrismo, soprattutto di tipo ontologico ed epistemologico, attraverso una diversa concezione delle alterità e attraverso una diversa cultura della tecnica. Ovvio che una conseguenza immediata sia una visione antispecista, che inevitabilmente è legata a doppio filo all'umanismo. Nelle pagine del volume ricorrono spesso il sostantivo “desiderio” e il verbo “desiderare”. In che cosa si rapportano al tema della soggettività animale? L'animalità si riconosce per il suo nomadismo nel mondo, per la sua eterotrofia che non è solo bisogno di sostanze organiche preformate ma è letteralmente fame di mondo e quindi desiderio montante. L'animale è colui che desidera, colui che non sta fermo, colui che si espande nel mondo... e a questo, a mio avviso, può essere ricondotto il concetto di volontà di potenza nietzschiano. Ma per comprendere l'essere desiderante dell'animale occorre operare una torsione interpretativa sul concetto di desiderio e del verbo desiderare. Siamo portati a trasformare il desiderio o come il raggiungimento di un possesso o come l'esaudimento di una pulsione. Credo che questo modo di leggere il desiderio sia profondamente sbagliato, crei frustrazione e non appagamento e possa, in ultima analisi, rivelarsi assai pericoloso proprio nel suo essere fuorviante. Quando parlo di desiderio intendo far riferimento a una coordinata di azione nel mondo, ovvero a una matrice coniugativa che porta l'individuo a interrelarsi a qualcosa di esterno, facendone emergere una presenza nel qui-e-ora, vale a dire un Dasein (Esserci). Per capirci meglio: il gattino non desidera la pallina, ma desidera rincorrere, ossia esprimere se stesso nel qui e ora entrando in un rapporto profondo con il proprio corpo, lo spazio del movimento, il tempo dell'atto e il target verso cui è diretta l'azione. Il desiderio fa emergere l'esserci dell'animale, aiutandolo a inventare una propria presenza singolare. Roberto Marchesini Etologia filosofica Postfazione di Felice Cimatti Pagine 122, Euro 12.00 Mimesis Edizioni
lunedì, 27 giugno 2016
Il Giardino della Memoria
La sera del 27 giugno 1980 alle ore 20.59'.45'' come risulta dalle registrazioni radar, il Dc9 I-Tigi Itavia partito alle ore 20.08 da Bologna (anziché, come previsto, alle 18.15) verso Palermo fu colpito da un missile nel cielo di Ustica e s’inabissò con ottantuno persone a bordo. A 36 anni da quella data, il nostro Paese si porta dentro la ferita terribile di quella strage, così come se la portano dentro le vite i parenti delle vittime. Il 27 giugno di quest'anno, dunque, ricorre il XXXVI anniversario della strage e l’Associazione Parenti delle Vittime prosegue nel suo impegno civile (che mai ha conosciuto pause dal 1980) e chiede al Paese, al Governo, di prendere atto che la verità conquistata in questi anni, con l’impegno di tanti, può essere completata soltanto con un’azione decisa e consapevole. La memoria e l’arte, nell’attività dell’Associazione, sono state da sempre le facce della stessa medaglia. Proprio attraverso l’arte e la riflessione storica, l’Associazione dei Parenti continua a fare memoria attiva. Basti pensare all’installazione permanente di Christian Boltanski che ha incorniciato i resti del DC-9 abbattuto e riportato in città; il monumento si può vedere al Museo della Memoria di Ustica. Anche quest’anno – nell’àmbito del ricco cartellone di bè bologna estate 2016 il ricordo della strage è sostenuto da vari artisti con eventi di teatro, musica, danza, poesia. Concludiamo il cammino verso la verità, questa è la richiesta pressante che ci accompagnerà in tutte le iniziative per questo XXXVI Anniversario della Strage di Ustica – scrive Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione dei Parenti delle Vittime – Concludere il cammino verso la verità significa chiarire fino in fondo la dinamica dell’incidente, individuare con precisione gli aerei aggressori e definire le singole specifiche responsabilità. È la conclusione a cui deve arrivare la Magistratura, nella consapevolezza delle difficoltà, della mancanza degli elementi definitivi che, dopo le distruzioni operate dai militari in Italia, ci possono venire soltanto dalla collaborazione internazionale. Ribadiamo, dunque, che questo deve essere il grande impegno del nostro Governo. Il Giardino della Memoria si apre stasera con una produzione di Ateliersi intitolata “De Facto"; si tratta di una singolare opera poetica elettronica dagli atti dell’istruttoria di Rosario Priore, dove il linguaggio giuridico entra in relazione con un live set di musica elettronica e un apparato visuale che riporta al 1980, agli albori degli home computer, per porsi in relazione con gli ultimi quarant’anni di storia italiana. Per leggere il programma completo: CLIC! Ufficio Stampa: Raffaella Ilari, mob. +39.333 – 43 01 603, raffaella.ilari@gmail.com Ufficio Stampa Comune di Bologna Raffaella Grimaudo: Raffaella.Grimaudo@comune.bologna.it; tel: 051 – 21 94 664 Il Giardino della Memoria XXXVI Anniversario della Strage di Ustica Parco della Zucca, Via di Saliceto - Bologna Info: Cronopios T.051 – 22 44 20 - info@cronopios.it 27 giugno – 10 agosto 2015 L’ingresso per tutte le serate è a offerta libera
venerdì, 24 giugno 2016
Contro le donne (1)
Dall’inizio dell’anno fino ad oggi 36 donne sono state uccise in Italia per motivi associati al genere; si tratta di vittime di quel reato chiamato “femminicidio”, parola che risulta indubbiamente cacofonica, ma che indica con precisione un’atroce realtà. L’antropologa Marcela Lagarde che ha studiato a fondo quell tipo di reato, scrive: “La cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è una qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza, siamo davanti a una violenza illegale ma legittima, questo è uno dei punti chiave del femminicidio”.
Premessa per presentare un libro straordinario, il più interessante che abbia letto da molto tempo a questa parte, lo ha pubblicato Marsilio, s’intitola Contro le donne Storia e critica del più antico pregiudizio. Lo ha scritto Paolo Ercolani, filosofo, scrittore, saggista, nato a Roma nel 1972. Docente dell'Università di Urbino «Carlo Bo», iscritto all'Ordine dei giornalisti, è autore di numerosi articoli per varie testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «il manifesto», «MicroMega». Cura il blog del «manifesto» L'urto del pensiero e collabora con il canale filosofia di Rai Educational. Fondatore e membro del comitato scientifico dell'Osservatorio filosofico, tra i suoi più recenti libri si registrano i seguenti titoli: Qualcuno era italiano (2013); Manifesto per la sinistra e l'umanesimo sociale (con Simone Oggionni, 2015). Non esiste in Italia – e molto probabilmente neppure fuori dei nostri confini, a parere di lettori professionisti che frequentano più lingue – un libro qual è “Contro le donne” perché nello studiare il più antico pregiudizio del mondo fa confluire mitologia e scienza, filosofia e religione, antropologia e politica usando una scrittura veloce e scorrevolissima. Un volume costato anni di ricerche e studi come testimoniano anche le oltre 30 pagine di bibliografia. Libro che dovrebbe essere commentato nelle scuole per decreto legge. Prima d’incontrare l’autore, ecco la presentazione editoriale. C’è una storia antica quanto il mondo. Ma nessuno l’ha mai raccontata. Perlomeno non in maniera sistematica e critica, ossia cercando gli strumenti concettuali e pratici per provare a superarla. Questa storia riguarda il pregiudizio contro le donne. Partendo dalle origini della civiltà occidentale (Esiodo, Omero, la Bibbia), dipanandosi poi attraverso il teatro greco e i grandi classici del secolare pensiero filosofico, religioso, politico e scientifico, il coro contro l’essere femminile è risultato assordante e compatto. Con argomentazioni sorprendentemente simili, pur provenienti da autori delle scuole più diverse – religiosi o atei, conservatori o progressisti, antichi o moderni – il consenso intorno al pregiudizio misogino ha rappresentato il più grande e atavico collante della cultura occidentale. Un gran discutere fra uomini per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile dell’essere femminile, tanto da giustificare e anzi rendere scontata, opportuna e persino necessaria, la sottomissione al maschio. Il libro non si limita a ricostruire la storia del più antico preconcetto – tirando in ballo le responsabilità della filosofia, della religione e delle scienze in genere –, ma propone una nuova teoria della soggettività umana che possa agevolare il superamento di contrapposizioni e pregiudizi sessuali con i quali è arrivato il momento di fare i conti in maniera definitiva. Segue ora un incontro con Paolo Ercolani.
Contro le donne (2)
A Paolo Ercolani (in foto) ho rivolto alcune domande. Che cosa principalmente ti ha incoraggiato a scrivere questo libro? Da una parte il fatto che tutti gli uomini da me consultati volessero farmi desistere dall'imbarcarmi per un'avventura ritenuta insidiosa e senza frutti al sole. Dall'altra che in seguito alle mie letture sull'argomento (inizialmente poche e casuali) avevo intuito di poter compiere un'operazione ambiziosa e pressochè unica: scrivere una controstoria delle idee in cui dimostrare che i più grandi autori della tradizione occidentale si erano trovati clamorosamente d'accordo nel bollare la donna come creatura difettosa, inferiore e persino foriera di tragedie e pericoli. Atei e credenti, progressisti e conservatori, antichi e contemporanei, tutti i grandi della nostra storia, che per il resto si erano divisi su tutto, quando si è trattato di mortificare e maledire la donna sono riusciti a raggiungere una sintonia impressionante. Io stesso, in molti dei casi citati nel mio libro, ho faticato a credere ai miei occhi. Perché anche nel pensiero di uomini d’avanguardia sociale (si pensi, ad esempio, a Proudhon) persiste tanta misoginia? Perchè in questo aveva ragione Nietzsche: l'essere umano, ma direi la natura tutta, sono caratterizzati da un originario e insopprimibile istinto di sopraffazione del più debole. Con la "civiltà" abbiamo dimenticato volentieri questo dato di fondo che contrasta clamorosamente con i nostri pensieri alti, i nostri costumi sofisticati, il nostro dipingerci come creature evolute. Il pregiudizio contro la donna, incredibilmente radicale, duraturo e trasversale, rappresenta forse l'esempio più lampante del nostro essere governati dal principio della prevaricazione del più forte sul più debole. Se vogliamo davvero compiere un passo ulteriore verso la civiltà, non possiamo non fare finalmente i conti con il pregiudizio misogino. Che fra le altre cose, a dimostrazione che il pensiero incide eccome sulla realtà, rappresenta il fondamento più radicato dei soprusi e degli atti violenti che tanti uomini compiono contro tante donne. Come spieghi che dopo le affermazioni negli ultimi quarant’anni del secolo scorso, il femminismo stia attraversando un periodo di scarso slancio o addirittura di crisi? Il femminismo, come tutte le grandi ideologie dei secoli scorsi, pur avendo conseguito risultati fondamentali ha dovuto soccombere di fronte a quella vera e propria dittatura del pensiero unico che è la teologia economica. Così come in epoche passate si era impedita l'emancipazione umana e la piena acquisizione dei diritti in nome della "tradizione" e della "natura", oggigiorno è il mercato, con la sua inesorabile logica quantitativa del profitto a fagocitare tutte quelle idee (e quelle iniziative pratiche) che non fanno il gioco di quella stessa logica. Al mercato non importa nulla degli uomini e delle donne, delle loro idee o della qualità della loro vita esistenziale o sociale: esso è regolato da una meccanica e arida logica quantitativa in cui l'essere umano in quanto tale (a prescindere da tutto il resto) deve essere ridotto a servo e strumento di valori impersonali come il profitto, il pareggio di bilancio, il PIL. In questo contesto, il femminismo, che peraltro non è esente da errori nell'aver visto nel mercato libero un'occasione di emancipazione della donna, perde molta della sua spinta alla stessa maniera delle grandi ideologie dei secoli scorsi. A regnare oggi è un pensiero unico che, per definizione, non tollera altre forme di pensiero, specie se di impronta umanistica. La filosofia postumanista – con l’interazione fra gli umani e le macchine, la robotizzazione dei servizi, i nuovi traguardi della genetica – ipotizza un mondo che conoscerà il superamento dei generi. Credi nel raggiungimento di quella meta? Se sì, oppure no, perché? Ecco, il punto è proprio questo. Ancora oggi persiste una corrente del femminismo che, basandosi su una dilatazione eccessiva della teoria gender, prefigura scenari futuristici in cui l'emancipazione della donna sarebbe finalmente possibile grazie alla sparizione della donna stessa. Che una donna possa desiderare l'emancipazione del proprio genere attraverso un'umanità abitata da cyborg asessuati mi riesce difficile immaginarlo. Non solo questo femminismo (penso a Butler e a Braidotti, per esempio) finisce paradossalmente col realizzare il sogno secolare dei misogini più incalliti (la sparizione della donna), ma si inserisce anche in un'ottica post-umana che risulta quantomai gradita al sistema tecno-finanziario. Ossia a quel dio Mercato che ha tutto da guadagnare dalla sparizione dell'essere umano e dalla sua trasformazione in un automa programmabile e controllabile. Paolo Ercolani Contro le donne Pagine 320, Euro 17.50 Marsilio
giovedì, 23 giugno 2016
"Il Menabò" di Elio Vittorini
Amo gli epistolari perché sono backstage che illuminano particolari di esistenze che senza quei documenti non avremmo conosciuto, oppure fanno luce sulla nascita di opere. La sola cosa che trovo intollerabile è la pubblicazione di missive d’un sopravvivente in una coppia – coppia fissa oppure occasionale – che, senza autorizzazione alcuna, decide di dare alle stampe lettere ardenti, con particolari intimi, ricevuti da lei o da lui che più non sta su questo mondo. Diciamo la verità: una mascalzonata. Un grande documento letterario, prezioso oggi e sempre più lo sarà, è stato pubblicato dall’editore Nino Aragno: «Il Menabò» di Elio Vittorini (1959-1967). Il volume si avvale di un’Introduzione di Giuseppe Lupo ed è a cura di Silvia Cavalli che firma anche la Postfazione. Una precisazione sul titolo, destinata ai non addetti ai lavori redazionali: “Menabò” è un modello tipografico utilizzato per l'impaginazione di libri o riviste che contiene testo (ed eventuali fotografie, disegni), in una data, e precisa, disposizione. Così Vittorini volle chiamare questo suo progetto che nasce tra il ’57 e il ’58, quando, in accordo con Einaudi, lo scrittore decide di cessare le pubblicazioni dei Gettoni. Vittorini ne accenna a De Monticelli come di una rivista-collana, pubblicata da Einaudi e con Italo Calvino come condirettore. Rivista-collana perché l’intenzione è di presentare testi narrativi, poetici e saggistici ai quali siano accostati dei saggi critici sul problema che i testi stessi presentavano. «Il Menabò» viene pubblicato in 10 numeri dal ’59 al ’67. La condirezione di Vittorini e Calvino – come afferma, ad esempio, anche il Centro Apice – è caratterizzata “da un forte affiatamento soprattutto per i primi tre numeri della rivista (’59-’60), ancora influenzati dai temi trattati nei Gettoni. Dal quarto numero della rivista, il legame con il passato si allenta e Vittorini dà alla rivista un’impronta nuova. È allora che l’armonia con Calvino nella condirezione si spezza: Vittorini sceglie una linea non condivisa da Calvino, il quale da quel momento continua a pubblicare sulla rivista, ma non si considera più il suo condirettore”. Vista la forte impronta data da Vittorini alla pubblicazione è necessario dare spazio alla biografia di questa figura di scrittore e agitatore culturale nato a Siracusa il 23 luglio 1908 – spentosi a Milano il 12 febbraio 1966 ucciso da un cancro allo stomaco; ecco un suo ritratto nella Treccani. Fu uomo indocile ad ogni disciplina specie se questa era dettata da un pensiero unico. Lo troviamo prima dei trent’anni tra i cosiddetti fascisti di sinistra (Mino Maccari, Marcello Gallian, Romano Bilenchi, Vasco Pratolini), poi tentare di convincere Mussolini a schierarsi nella guerra di Spagna con i repubblicani contro Franco; nel ’42 combattente nella Resistenza; entrare nel Pci per poi scontrarsi aspramente con Togliatti all’epoca del Politecnico; diventerà presidente del Partito radicale nel 1960. Una silloge di pensieri, appunti, riflessioni di Vittorini dal titolo “Le due tensioni” fu pubblicata per la prima volta nel 1967 per volontà e cura di Dante Isella e quest’anno ha conosciuta una nuova edizione con un’appendice di inediti.. È stato notato che “Il Menabò” nasce mentre si sta avviando il processo che porterà al “centro-sinistra” e chiude pochi mesi prima del ‘68 e dell''autunno caldo. Questo significa che la rivista ha vissuto – e se ne riscontra in quelle pagine una risonante eco – un periodo centrale della storia d’Italia nella seconda metà del secolo scorso, un periodo di cui avvertiamo ancora oggi le ricadute politiche e sociali. Ecco un estratto dalla presentazione editoriale di ”«Il Menabò» di Elio Vittorini”. A cinquant’anni dalla morte di Vittorini, i carteggi del «menabò» (in cui convergono i nomi di Italo Calvino, che condirige la rivista, di Raffaele Crovi, che è segretario di redazione, e, tra gli altri, di Stefano D’Arrigo, Franco Fortini, Francesco Leonetti, Lucio Mastronardi, Ottiero Ottieri, Elio Pagliarani, Pier Paolo Pasolini, Amelia Rosselli, Paolo Volponi) offrono uno spaccato delle linee, delle tendenze, delle opinioni che sorreggono i dieci fascicoli dedicati al racconto dell’Italia del dopoguerra, alla narrativa meridionalista, alle scritture ispirate dalla fabbrica, alle sperimentazioni stilistiche e linguistiche della neoavanguardia. Si afferma così definitivamente il progetto vittoriniano di una cultura quale indagine sulla società e sulle trasformazioni di un’Italia proiettata negli anni del benessere. «Il Menabò» di Elio Vittorini A cura di Silvia Cavalli Introduzione di Giuseppe Lupo Pagine 570, Euro 30.00 Nino Aragno Editore
mercoledì, 22 giugno 2016
Star Trek ha cinquant'anni
Questo sito ha le sue sezioni ispirate a titoli spaziali e, come sanno gli amici che lo visitano, una di esse, dedicata alle interviste mensili, ha il nome di Enterprise come la famosa astronave della serie televisiva. Non sono uno specialista di Star Trek, ma quando nel febbraio 2000 aprii – con la preziosa assistenza di Attilio Sommella – questo sito, mi piacque dare quell’impronta startrekkiana perché ST pone interrogativi scientifici, propone metafore linguistiche e filosofiche: il viaggio e l’incontro, la ricerca e lo scacco, il confronto con nuovi linguaggi. La serie tv, fu ideata da Gene Roddenberry… le sue ceneri, viaggiarono in una navicella spaziale ideata da una ditta americana. Accanto a lui, urna a urna: il profeta dell’Lsd Timothy Leary, un bambino giapponese e altri nove tipi; cosmonauti di cenere cremati due volte: la prima dopo la loro morte, la seconda quando quel minuscolo satellite, quasi un giocattolo, inanellando giri entrò in contatto con l’atmosfera incendiandosi… Gene aveva detto o no "Spazio, ultima frontiera"? Star Trek debutta l'8 settembre 1966 sul canale NBC, potete trovare QUI notizie particolareggiate sulla serie. La prossima estate uscirà sul grande schermo il nuovo capitolo cinematografico intitolato "Beyond", CLIC per vedere il trailer.
Per ricordare questo compleanno, mi avvalgo di alcuni amici. In questi 15 anni di pubblicazioni in Rete, al termine delle interviste – oggi ne conto oltre 200 – ho sempre chiesto ai miei ospiti un pensiero (invitandoli ad essere non necessariamente elogiativi) su Star Trek. Quello che più mi piace citare appartiene a Billi Bilancioni, saggista, esperto di cinema, di rock, insegna Storia dell'Architettura all'Università di Genova. Ha scritto: Eugenio Fuselli: poesia e urbanistica; Aedilitia di Piero Portaluppi; Spirito fantastico e architettura moderna; Architectura esoterica; ha tradotto per Bollati Boringhieri “Mistica e architettura” di Louis Hautcoeur. La dichiarazione che segue fu data nell’ottobre 2000. Ti invio in Teletrasmissione, caro Armando Adolgiso, alcune sintetiche riflessioni, dopo averle disposte sul display del mio Holodeck. Con i Sensori attivati ci si può mettere di fronte al mondo e farne sistema. Uno studioso americano di Star Trek, le cui idee sono state rinvenute nel labirinto inquieto del Web, ha messo insieme la motonave Enterprise e il paradiso: e, studiando Star Trek ha parlato della "difficoltà del paradiso". In un mondo di sofferenza, dice, il paradiso è solo un mondo dove non c'è guerra, non c'è fame e non c'è avidità: come dire che il piacere cosmico è la cessazione del dolore terrestre. E i misteri di Star Trek sono quelli di una "Full frontal nudity" di fronte al cosmo. Ci viene fatto intuire il "completamente altro", che è l'essenza del sacro. "La resistenza è inutile sarete assimilati", dicono gli alieni, che sono generati nell'altro. Trek porta nelle case una "caleidoscopica cacofonia di particelle, onde, campi, fissioni e anomalie", che danno godimento proprio perché dissimili alle consuetudini ma che fanno riflettere perché portano alla coscienza le "meraviglie del possibile". Neurotrasmettitori all'acetilcolina, potentissimi Anestetici capaci di indurre una flottante Antigravitazione, Antineutrini e transprodotti, Particelle pesantissime, meravigliosi dispositivi Antitempo e antimateria, anioni ribelli e Stringhe cosmiche, la forza non resistibile dei buchi neri, ed i territori negativi delle Badlands, sono gli elementi fantasmatici eppure assai reali di un rovesciarsi del sapere nell'altrove, emblema di ogni impresa di ricerca, veicoli di un cambiamento di stato. Impariamo molte cose: il Bilitrium è un raro elemento cristallino, incredibile fonte di energia se connesso ad un convertitore di anti-materia. Ed impariamo a vagare fra strane Particole: californium, fermium, berkelium, e mendelevium, einsteinium, nobelium, e argon, krypton (che ricorda qualcosa), neon (un gas assai diffuso sulla nostra terra ma assai nocivo alla vista), radon, xenon, zinco, e rhodium, insieme alla chlorina, al carbone, al cobalto, al rame, al tungsteno, lo stagno e il sodio. Ma in questa magica e continuata esplorazione dell'altra parte impariamo la cosa più importante di tutte benché sia anche la più semplice: gli altri siamo noi. .................................................................................................................. Alla redazione del webmagazine Webtrekitalia uno dei migliori in Rete, e non solo in Italia, di quelli dedicati a ST, guidato da Giancarlo Manfredi, ho chiesto: dal suo debutto di 50 anni fa ad oggi come giudicate il tracciato narrativo di Star Trek? E la sua evoluzione (o involuzione, se così la vedete) di linguaggio? Ciao Armando, parlare in maniera oggettiva del videomito di Star Trek è per noi una missione emotivamente difficile: i più ricorderanno, infatti, che si tratta di una vera e propria saga, volta a raccontare non tanto i viaggi spaziali di capitani coraggiosi e dei loro equipaggi naif, quanto un affresco del futuro come avrebbe potuto (o dovuto) essere e, al tempo stesso, della metafora di un presente che si rinnova di continuo, senza però trovare nuove soluzioni a eterni problemi. E sì, per rispondere alla tua domanda, i temi della narrazione - com’è naturale che sia, in mezzo secolo di avventure galattiche - sono cambiati: dalle risposte utopistiche ai temi sociali degli anni ’60, si è passati agli scenari più contrastati propri del vissuto degli anni ’80 e ’90, per arrivare infine alla riproposizione, in chiave certamente più spettacolare, ma anche meno idealistica, dei reboot prodotti, a partire dal 2009, dal regista J.J. Abrams. Il fatto è che anche l’Enterprise non è passata indenne attraverso il campo asteroidale dell’esaurimento nella vena creativa hollywoodiana, ormai popolata di infiniti cloni: il problema, naturalmente, non è nei nuovi attori (bellissimi, per carità, e bravi) in sostituzione del cast originale o negli effetti speciali sempre più mirabolanti, ma è che oggi, se vogliamo ritrovarne quello stesso spirito, positivo e umanistico e originale, lo dobbiamo ricercare negli universi alternativi dei cosiddetti fan film, alcuni dei quali di una qualità così interessante (come ad esempio Star Trek Axanar) da meritarsi una serie di cause legali con le major. Possiamo, a questo punto, parlare di evoluzione del linguaggio? O, piuttosto, i termini di evoluzione e di involuzione vanno di pari passo - come lo Yin e lo Yang - e la differenza percepita dipende dal background culturale di ognuno di noi? In realtà la paura degli appassionati (nonché della redazione di WebTrek Italia, che qui ti parla con voce corale) è piuttosto quella di dover a testimoniare una trasformazione, da arte narrativa a mero copyright industriale, dove il livello del venduto abbinato al franchise, non rispecchia affatto il linguaggio e la filosofia originale di Gene Roddenberry. Domandiamoci piuttosto se oggi c’è ancora qualcosa che valga la pena raccontare: forse una risposta (l’unica?) la troviamo nella frase storica “To explore strange new worlds, to seek out new life and new civilizations, to boldly go where no man has gone before”, (Per esplorare strani nuovi mondi, e cercare nuove forme di vita e nuove civiltà, fino ad arrivare là dove nessuno è mai giunto prima), laddove di narrazioni e linguaggi esplorabili ce ne sarebbero eccome, ciò che (ancora) manca è una nuova generazioni di visionari e innamorati di un futuro migliore…
martedì, 21 giugno 2016
Laboratorio ad alto voltaggio
La casa editrice Editoriale Scienza porta I suoi lettori in vari campi delle scienze e in tanti laboratoti tecnici. Ora i ragazzi conoscono il mondo della biologia, ora quello della matematica, in un libro entrano nella zoologia e in un altro s’aggirano nello Spazio tra cosmonauti e astronavi. Spesso sono messi in condizione, con facili istruzioni, di costruire oggetti e provocare effetti come in questo Laboratorio ad alto voltaggio Un mistero con elettromagneti, allarmi antifurto e altri congegni tutti da costruire. Mia abitudine, spero non troppo pedante, è quella di chiarire sempre ogni termine che può determinare perplessità. Che cos’è il voltaggio? Mano al vocabolario. “Il voltaggio è la differenza di potenziale elettrico tra due corpi conduttori”. Il volt è un’unità di misura, ha questo nome in onore di Alessandro Volta, che nel 1799 inventò la pila voltaica, la prima batteria elettrochimica. Negli anni 1880, l'International Electrical Congress, approvò il volt come unità di misura della forza elettromotrice. In “Laboratorio ad alto voltaggio”, tecnologia e manualità, avventura e mistero si uniscono in una storia ricca di colpi di scena.
Ecco la scheda redazionale di presentazione del volume. Due ragazzi, fratello e sorella, con la passione per la tecnologia, una casa abbandonata, un giallo da risolvere in quella che si preannunciava un’estate noiosa: Laboratorio ad alto voltaggio ha tutti gli ingredienti per tenerti con il fiato sospeso! Quando vengono affidati dai genitori al bislacco zio Newt per l’estate, Nick e Tesla si trovano coinvolti in un avventuroso mistero. Perché un Suv nero sembra pedinarli ovunque vadano? La casa abbandonata è davvero vuota? Chi è allora la pallida bambina che compare, come un fantasma, alla finestra? Un gioco dall’esito inatteso, trasforma una pigra vacanza in un giallo risolto a colpi di gadget tecnologici! Per venirne a capo, ed evitare grossi guai, dovranno far ricorso a ingegno, manualità e passione per la tecnologia, costruendo con oggetti di uso comune magneti, sensori, robot, rilevatori segui pista e altri congegni. Scopri come funzionano e divertiti a costruirli anche tu! Per farlo, basta seguire le chiare istruzioni illustrate che accompagnano ciascun dispositivo. I due autori del libro (età consigliata: da 9 anni) sono Bob Pflugfelder e Steve Hockensmith. Il primo è un insegnante di scuola elementare che ha vinto molti premi per la divulgazione scientifica per ragazzi producendosi anche in televisione su History Channel. Il secondo, è autore di serie assai apprezzate negli Stati Uniti. Tra i suoi titoli anche la raccolta di racconti “Nine Tales of Christmas Crime”. Nick e Tesla Laboratorio ad alto voltaggio Traduzione di Mara Pace Illustrazioni di Scott Garrett Pagine 252, Euro 12.90 Editoriale Scienza
lunedì, 20 giugno 2016
L'Ateo
Il bimestrale "L’Ateo" dell’Uaar - Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti - diretto da Francesco D’Alpa e Maria Turchetto nel suo più recente numero (106, in foto riprodotta la copertina) dedica largo spazio al tema “Popolazione e Ambiente”. Andiamo verso la sesta estinzione di massa? Interventi di Luca Pardi, Telmo Pievani, Jacopo Simonetta, una frizzante intervista impossibile con Karl Marx condotta da Maria Turchetto col suo stile demistificatorio e corrosivo, un articolo di Stefano Scrima in cui trovo citato (accade di rado) il cupo profeta francese Albert Caraco (1919 – 1971) che meriterebbe di essere meglio conosciuto e meglio studiato. A proposito di sesta estinzione, mi va di dire la mia: se proprio deve accadere, spero che avvenga dopo che sono riuscito a votare un grosso NO al referendum renziano del prossimo ottobre.
Altra sezione della rivista è dedicata a “Religioni e Violenza”, ne scrivono: Albert de Pury, Stefano Bigliardi, Fulvio Caporale. Seguono contributi di Sergio Ghione che ricorda la scomparsa di Floriano Papi, Stefano Marullo in un’eco-elegia per Umberto Eco, Carlo Ottone in una nuova puntata della Storia dei Giubilei dal 1950 al 1975. Il numero ospita anche la relazione tenuta da Raffaele Carcano… a proposito, segnalo la recente uscita di un suo nuovo libro… all’XI Congresso Uaar dove, dopo 9 anni, ha lasciato la carica di segretario generale dell’organizzazione; con molta eleganza, pur ricordandoli, non sottolinea i notevoli traguardi raggiunti dall’Uaar durante la sua gestione, ma soprattutto preferisce indicare i nuovi obiettivi da raggiungere. Nuovo segretario è Stefano Incani cui va l’augurio di buon lavoro di Cosmotaxi. Inoltre, recensioni di libri, vignette, lettere dei lettori, animano le pagine. La rivista "L'Ateo" è in vendita nelle seguenti librerie al prezzo di 4.00 euro QUI la lista delle biblioteche in cui è possibile leggere la rivista.
giovedì, 16 giugno 2016
Aosta: L'invasione degli ultracorpi (1)
Caro Bay, il tuo cuore era una grande piscina dove noi poeti ci tuffavamo allegri certi del tuo ristoro. Anfitrione generoso e gaio, la tua famiglia è un canto per tutte le religioni.
Sono parole di Alda Merini dedicate a Enrico Baj, un protagonista delle arti visive del Novecento. In foto: Comizio, 1963 Oggi, 16 giugno; tredici anni fa in quel giorno ci lasciava Enrico Baj Per lui, ad Aosta, è in corso un’antologica intitolata L’invasione degli ultracorpi a cura di Chiara Gatti, con il contributo di Roberta Cerini Baj. La mostra è realizzata dall’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione Autonoma Valle d’Aosta - che anche quest’anno conferma il suo impegno nel sostenere la proposta culturale del territorio con un evento di grande richiamo - in collaborazione con Silvana Editoriale e il coordinamento generale di Raffaella Resch. Il titolo della mostra cita la celebre pellicola diretta da Don Siegel nel 1956, tratta dal romanzo di fantascienza di Jack Finney – e rimanda a una creatura antropoide, un’invenzione frutto di una scienza cosmica ancora misteriosa. Enrico Baj: una vita febbrile, una produzione vertiginosa, un impegno civile assiduo. Già, perché la sua arte irriverente, demistificatoria, lo ha visto in prima linea nelle vicende culturali e politiche italiane. Basti pensare, per citare solo uno dei più clamorosi esempi, al gigantesco assemblage intitolato “I funerali dell’anarchico Pinelli” (1972). Doveva essere esposto il 17 maggio di quell’anno, ma proprio quella mattina fu ucciso il commissario Calabresi e la mostra fu rinviata sine die. Solo 40 anni dopo sarà esposta a Palazzo Reale, il luogo per cui era stata pensata trasformando un evento tragico in un’opera chiave della storia artistica del ‘900; QUI un servizio tv sull’avvenimento. La compagna della sua vita, Roberta Cerini, circa il profilo politico di Baj, così disse in un’intervista: Una connotazione politica definibile non l'ha mai avuta. Si è sempre sentito anarchico. Un uomo libero, non esattamente il tipo di persona che potesse sopportare le pastoie dei politici e dei partiti. La sua posizione, la sua critica più che politica era di impegno civile. Un discorso contro il potere da qualsiasi parte venisse. Vi è una costante che dà significato e coerenza alla vita e al lavoro di questo artista: in oltre cinquant’anni di attività: mai ha cessato di sperimentare e di rinnovarsi, sia nella scelta delle tematiche, sia delle tecniche pittoriche e incisorie. Tra queste preferito è il collage che, associato o no al colore, gli ha permesso di utilizzare ogni sorta di materiale in un continuo gioco combinatorio. Oltre alle stoffe e alle passamanerie, ai bottoni, ai pizzi, alle medaglie, entrano nelle sue opere vetri colorati, frammenti di specchio, impiallacciature e intarsi, parti di Meccano e di Lego, plastiche e celluloidi, pezzi di legno e oggetti di uso quotidiano. Per quanto feroce, la sua critica è sempre temperata dall’ironia che conferisce alle sue opere una leggerezza che mai dimentica la lezione di Rabelais e soprattutto di Jarry. QUI un'intervista, in cui parla del suo lavoro, data a Rai Educational. Segue ora un incontro con Chiara Gatti.
Aosta: L'invasione degli ultracorpi (2)
Alla curatrice Chiara Gatti (in foto) ho rivolto alcune domande. Chi erano gli “ultracorpi” per Baj? Come diceva André Breton, erano “esseri favolosi”, creature mutanti, figlie di un immaginario fantascientifico, ma figlie anche delle paure dell'uomo di fronte ai misteri della scienza e del cosmo in un'epoca in cui, la corsa allo spazio e le scoperte di un universo molecolare stavano nutrendo la curiosità degli artisti per un mondo sconosciuto. L'ultracorpo diventa tuttavia anche, nel pensiero di Baj, una sorta di allegoria del fallimento, da parte dell'uomo moderno, di dare risposte certe ai quesiti dell'esistenza. Tanto che Baj trovò nella scienza patafisica, la “scienza delle soluzioni immaginarie” di Jarry, le uniche risposte plausibili sul senso della vita. Quali i criteri seguiti nell’allestire il percorso espositivo? Il percorso della mostra è diviso per sezioni che raccontano momenti diversi nell'evoluzione dell'ultracorpo, dalla nascita alla proliferazione, dall'istinto a socializzare coi suoi simili a quello di esercitare un potere sugli altri nella celebre serie dei generali. Si prosegue dunque per capitoli quasi cronologici, dagli anni Cinquanta in avanti, suggerendo al pubblico una sorta di teoria evoluzionistica di queste misteriose creature. Ecco allora, da una materia molle e vischiosa, germinare le prime figure plastiche, esseri invertebrati usciti dalle selve oscure di una pittura molecolare. Ecco docili invasori dilagare in quelle selve oscure, saltellare spensierati, prima di cedere alle lusinghe del potere, trasformarsi in generali, e poi, di nuovo, in blob fangosi o droidi assemblati con residui metallici fedeli alle leggi della cibernetica, nella sequenza militaresca dei meccano. Si approda alla sala dell'Apocalisse, una giostra di creature maligne e grottesche, dai nomi osceni, specchio di un mondo in degrado, viziato dal benessere. Gli ultracorpi si trasformano qui in piccoli demoni mascalzoni. Quali furono le ragioni che portarono Baj, uomo intensamente politico, a entrare in contrasto con la politica culturale del Pci? Baj era un uomo libero, un anarchico affrancato da ogni etichetta politica, ma schierato contro ogni potere costituito. A livello artistico, non nascose mai il suo dissenso verso la pittura tipicamente realistica sostenuta dal partito comunista, secondo la linea data da Togliatti, sullo sfondo del famoso dibattito fra realismo e astrazione che dominò il secondo dopoguerra. Rispettava l'impegno di colleghi come Guttuso. Ma la pittura realista era lontana dalla sua sensibilità e, soprattutto, dalla sua ironia al vetriolo. Che cosa principalmente attrasse Baj della patafisica? Ne condivideva lo spirito anarchico e scanzonato allo stesso tempo. La capacità di affrontare temi di critica sociale col sorriso amaro, nascondendo, dietro a soluzioni farsesche, messaggi epocali. Nel solco del grande drammaturgo francese Alfred Jarry, autore della celebre commedia “Ubu Re” (1896) e inventore del termine “patafisica”, Baj mise in scena infatti il suo teatro di Ubu nel 1985 allestendo una commedia dove lo humour sagace bacchettava il degrado morale della società moderna. Re Ubu, padre nobile di tutti i generali, era affiancato a decine di personaggi ambigui, consiglieri, vessilliferi, dignitari, magistrati, sullo sfondo di una scenografia punteggiata da strumenti di tortura, come la macchina del decervellaggio. L'antieroe meschino di Jarry diviene, per Baj, un'allusione alle bassezze e all'edonismo degli anni ottanta. Seguono ora note biografiche di Baj e informazioni su luogo, date e orari della mostra.
Aosta: L'invasione degli ultracorpi (3)
Ecco una sintetica biografia di Enrico Baj e informazioni per visitare la mostra.
Enrico Baj (Milano 31 ottobre 1924 – Vergiate, 16 giugno 2003), frequenta l’Accademia di Brera e contemporaneamente consegue la laurea in legge. Nel 1951 lo troviamo tra i fondatori del Movimento Nucleare e partecipa ai movimenti d’avanguardia italiani e internazionali con mostre, pubblicazioni e manifesti, collaborando con Lucio Fontana, Piero Manzoni, Arman, Yves Klein, il gruppo Phases, Asger Jorn e gli artisti del gruppo CoBrA. A partire dagli anni Cinquanta è presente sulla scena internazionale ed espone spesso a Parigi. Fu in quella città che nell’autunno del 1964 incontrò Roberta Cerini. Sarà la compagna della sua vita. Si sposano a Milano, a Palazzo Marino, il 28 luglio 1966. Qui in una foto degli anni '90 scattata da Gianni Unimarino. Nei Sessanta entra a far parte del Collège de Pataphysique che lo nomina Satrapo Trascendente, la più alta carica patafisica. Lo stesso anno ottiene una sala personale alla Biennale di Venezia ed espone alla Triennale di Milano. È stato anche scrittore e critico. Tra i suoi libri: “Patafisica” (1982); “Automitobiografia” (1983); “Impariamo la pittura” (1983); Ecologia dell'arte (1990); "Discorso sull'orrore dell'arte" (con Paul Virilio, 2002). La più recente pubblicazione, avvenuta un mese fa, è una sua indignatio intitolata “Sic stantibus Rebus” edita da FUOCOfuochino, editrice fondata da Afro Somenzari, artista che ebbe l’amicizia e la stima di Baj, e del quale qui riporto la presentazione che fa del testo. Nell’Era Patafisica, il 27 Phalle dell’anno 125 (6 settembre 1998, Era Volgare) a Pomponesco, il Satrapo Trascendente e Imperatore Analogico Enrico Baj promulgava l’Enciclica "Sic stantibus Rebus". Con questo testo anticipò i gravami della nostra società con occhio traslucido e trasparente, con quella chiarezza e puntualità che solo i geni posseggono e sono in grado di comunicare. Se l’attualità è quella di piegare il capo, uniformarsi alle leggi di mercato, non indignarsi di fronte allo strapotere delle multinazionali e alle nefandezze perpetrate al genere umano da se stesso, allora l’inattualità è un ingrediente per la salvezza. In una società dove tutti vogliono aver ragione noi abbiamo preferenza di non aver ragione né torto. Così stavano le cose, e oggi? Il catalogo della mostra è pubblicato, in italiano e francese, da Silvana Editoriale; press: Lidia Masolini, tel: 02 – 453 95 111; press@silvanaeditoriale.it Contiene riproduzioni a colori di tutte le opere esposte, testi di Chiara Gatti, Luca Bochicchio, Angela Sanna, Daria Jorioz e una testimonianza di Roberta Cerini Baj. Grazie a una ricca antologia di testi, è documentata l’attività di teorico e giornalista di Baj, come pure il dialogo da lui intrattenuto con i maggiori intellettuali e artisti del Novecento, da André Breton ad Arturo Schwarz, da Italo Calvino e Dino Buzzati, a Umberto Eco e Jean Baudrillard, da Octavio Paz a Edoardo Sanguineti. Ufficio Stampa della Mostra: Alessandra Pozzi, press@alessandrapozzi.com; 338 – 59 65 789 Via Paolo Frisi 3, 20129 Milano Enrico Baj L’invasione degli ultracorpi A cura di Chiara Gatti con Roberta Cerini Baj Aosta, Museo Archeologico Regionale Info: 0165 – 27 44 01; u-mostre@regione.vda.it Tutti i giorni: 9.00 – 19.00 Fino al 9 ottobre 2016
mercoledì, 15 giugno 2016
Sovrapposizioni
L’anno scorso, la casa editrice Moretti&Vitali dette vita alla collana Imm’ dedicata alla cultura visiva, diretta da Elio Grazioli, Riccardo Panattoni, Marco Belpoliti. Elio Grazioli, critico e storico di arte contemporanea e fotografia, insegna all’Università e all’Accademia di Belle Arti di Bergamo. È promotore e curatore del festival “Fotografia Europea” di Reggio Emilia. Riccardo Panattoni, filosofo che ha incentrato sull’immagine la sua riflessione, insegna all’Università di Verona. È autore di numerosi libri e curatore con Grazioli del festival “Fotografia Europea” di Reggio Emilia. Marco Belpoliti, scrittore e saggista, spazia dall’arte ai mass-media, insegna all’Università di Bergamo e dirige il sito www.doppiozero-com. È critico letterario, collabora con La Stampa, Il Manifesto, Il Sole 24 Ore. Il primo volume di “Imm’”, intitolato “Not straight” (significato: non puro, non diretto, non tutto a fuoco, non evidente), chiariva le intenzioni che intendeva percorrere la collana: riflettere sulla complessità e l’enigmaticità dell’immagine. Ora, un nuovo volume prosegue quella strada d’indagine: Sovrapposizioni memoria, trasparenza, accostamenti, a cura di Elio Grazioli e Riccardo Panattoni. Si tratta di una raccolta d’intensi saggi di filosofia dell’immagine. Voglio ricordare qui gli studi che da Wunenburger passando attraverso Gaston Bachelard, Gilbert Durand, arrivano a Jean Baudrillard che definisce “estasi da Polaroid” quella voglia tutta contemporanea di possedere l’esperienza e la sua oggettivazione. Studi che s’interrogano sui problemi epistemologici posti dalle immagini e di cui nel volume di cui ci stiamo occupando troveremo talvolta una eco. Nel libro, dopo un’introduzione dei due curatori, si leggono scritti di Gianluca Solla (“Persistenze visive o dell’innamoramento”); Marcel Duchamp (“Note sull’infrasottile” – di cui vengono tradotte nella nostra lingua per la prima volta le ‘Note’ relative); Christian Delage e Vincent Guigueno (“Ciò che è dato a vedere, ciò che possiamo mostrare”); Nicola Turrini (“Come l’acqua e la pietra”); Muriel Pic (“Immagine-farfalla e rallentatore: W.G. Sebald o lo sguardo catturato”); Daniela Angelucci (“Ricordare, ripetere, rifilmare”); Pierluigi Fresia (“L’atlante imperfetto”); Mark Godfrey (“Fotografia trovata e persa: su Floch di Tacita Dean”); Shilpa Gupta (“Molti sé”), Federico Ferrari (“L’immagine metafisica”). Dalla presentazione editoriale. L'immagine: presente e passato, vita e morte, trasparenza e opacità. La sua esistenza, il suo prendere forma sono dovuti innanzitutto alla luce, elemento all’origine della vita; ciò nonostante è sempre stata associata all’esperienza della morte, alla permanenza di ciò che è stato. Eppure ogni immagine si sovrappone a un’altra, come un istante di un processo dinamico: non è mai sola, ma dietro, accanto, prima, dopo, altre immagini si affacciano, si fondono, complicano e arricchiscono la nostra visione, creando un nodo che coinvolge i ricordi, il loro rifiuto, la loro presenza, i nostri fantasmi. Le immagini rivelano una loro persistenza, non tanto una sopravvivenza, quanto una vera e propria vita postuma, che ci accompagna, ci incontra, ci sorprende perché quella singola immagine era già lì, ad aspettarci, come una memoria a venire. Sovrapposizioni a cura di Elio Grazioli - Riccardo Panattoni Pagine 192, con corredo d’immagini Euro 18.00 Moretti&Vitali
martedì, 14 giugno 2016
Chi è Dio?
Quando è possibile definire un libro “necessario”? Solo quando è illuminato da un’intelligenza che suscita domande, invita a riflettere, insomma va oltre la lettura del testo stesso spronando a esplorare panorami di pensiero. Ecco perché è inutile un libro di Matteo Salvini o di Matteo Renzi… come?... se esistono libri di quei due?... sì, esistono, la madre di quel tipografo (chissà, forse si chiama Matteo anche lui) è sempre incinta di nuovi testi. Utilissimo e necessario, invece, un volume edito da Mucchi, è intitolato Chi è Dio?, ne è autore Jean Soler. Storico delle religioni e diplomatico francese, è stato addetto culturale presso l’Ambasciata di Francia in Israele dal 1969 al 1973 e dal 1989 al 1993. È autore della trilogia “Aux origines du Dieu unique” e di “La violence monothéist” (Paris, Editions de Fallois). Chi è Dio? si avvale della brillante traduzione di Eugenio de Sio e di una nota a mo’ di postfazione di Michel Onfray. Come lo stesso autore precisa, quest’agile pubblicazione riassume i temi dei suoi studi che si appuntano su di un’implacabile critica al monoteismo, alla violenza che impone al prossimo. Qui mi piace ricordare che i cristiani dei primi secoli proclamavano con arroganza “Credo quia absurdum”, espressione la cui origine in molti fanno risalire al temerario Tertulliano. Vale a dire: tra fede e ragione, preferisco la prima. È evidente che un’affermazione siffatta può generare, ha generato, guerre e stragi. L’attacco al monoteismo coinvolge tutti i credenti nel Libro, infatti, scrive Soler: La parola “Dio” non può designare che la divinità adottata dalle tre religioni “monoteiste” e che ha per tratto principale di essere concepita come unica. «Noi crediamo in un sol Dio…», così comincia il Credo elaborato dalla cristianità al concilio di Nicea nel 325. I cristiani non fanno che riprendere il dogma ricevuto dagli ebrei, all’epoca di Gesù, e i musulmani, alcuni secoli dopo, prenderanno a prestito questa convinzione dagli ebrei e dai cristiani che Maometto frequentava: «Non c’è altro dio che Dio», dice il Corano (III, 62): è la migliore definizione del monoteismo. Quelli che vedono Dio altrove si ingannano. S’ingannano? Allora vanno combattuti, perché agiscono dalla parte del Male e non vanno fatti secchi soltanto i miscredenti, ma anche quelli che pur credendo appartengono ad altre interpretazioni del Libro. Non mancano nelle pagine anche momenti di raffinato umorismo, ad esempio, allorché si afferma che Mosè, analfabeta, è incapace di leggere le Dodici Tavole che regge, immagino non senza fatica, tra le mani. Tanta la sua fiducia in Dio? Sì, vabbè. Soler è stato accusato di antisemitismo poiché sottolinea un estremismo che a suo avviso regna nell’animo ebraico, accusa rivolta anche a Onfray, addebito che si rinvigorì quando proprio Onfray si levò tra i pochissimi difensori di Soler pubblicandone lodi su "Le Point" del 7 giugno 2012. Nella nota che accompagna quest’edizione di “Chi è Dio?” scrive Onfray: Jean Soler preferisce la verità che disturba all’illusione che rassicura. La sua opera infastidisce gli ebrei, i cristiani, i comunisti, i musulmani. Aggiungiamo: gli universitari, i giornalisti, per non parlare dei neonazisti. Il ché, conveniamone, costituisce un battaglione formidabile! Bisogna pertanto stupirsi del fatto che non abbia l’udienza che il suo lavoro merita? Jean Soler Chi è Dio? Con una nota di Michel Onfray Traduzione di Eugenio de Sio Pagine 110, Euro 13.00 Mucchi Editore
Eseguire l'inatteso
Talvolta Cosmotaxi presenta anche libri non proprio nuovissimi se coglie in quelle pagine valori che meritano di essere proposti o riproposti. Non è questa una testata giornalistica e, quindi, non è tenuta a preferire la stretta attualità d’edizione. Perciò, qualche mese fa, intervistai Alessandro Bertinetto autore di un importante saggio pubblicato da Bruno Mondadori nel 2012, intitolato Il pensiero dei suoni. Ora, però, dello stesso autore, presento oggi una pubblicazione nuovissima, in edizione digitale: Eseguire l’inatteso Ontologia della musica e improvvisazione. Ecco come l’autore presenta il volume. “Ne «Il pensiero dei suoni» mancava, per motivi di spazio, un capitolo dedicato specificamente all’ontologia della musica. Questo libro intende espressamente colmare quella lacuna. Il suo taglio è però diverso. Mentre il volume del 2012 era di carattere introduttivo, questo ha natura più marcatamente teorica. Non si limita a presentare e discutere le diverse posizioni filosofiche relative all’ontologia della musica, ma intende difendere due tesi, che s’intrecciano e si accavallano anche nell’ordine dei capitoli. Per un verso, intendo discutere il carattere specifico dell’ontologia dell’improvvisazione musicale. Per altro verso, voglio sostenere come proprio l’improvvisazione, che sfugge alle sistemazioni rigide del mainstream dell’ontologia della musica, ci aiuti a riformare l’ontologia della musica nel suo complesso, stabilendo il primato del performativo, del pratico e dell’estetica sull’ontologia. L’improvvisazione – questa almeno la mia convinzione – rende così un ottimo servizio all’ontologia della musica come ontologia di una pratica artistica. […] Riassumendo e puntualizzando queste righe introduttive, il mio suggerimento è di guardare alla connessione tra ontologia musicale e improvvisazione in senso inverso rispetto alla via battuta da una parte cospicua delle teorie oggi disponibili nell’ambito dell’ontologia musicale. Invece di provare a incastrare l’improvvisazione musicale in rigide scatole ontologiche precostituite (un’operazione destinata al fallimento), la strategia che intendo seguire consiste nel riconfigurare l’ontologia musicale alla luce di un’esplorazione filosofica dell’improvvisazione. Per evitare inutili fraintendimenti, preciso subito che non ho affatto l’assurda pretesa di identificare la musica con l’improvvisazione. Sosterrò piuttosto quanto segue: (1) l’improvvisazione in senso stretto mette in primo piano aspetti importanti della musica – in primis il suo essere energia, attività, performance – che l’indagine ontologica non può e non deve trascurare; (2) una nozione estesa di improvvisazione è fondamentale per articolare un’ontologia della musica fondata sulla prassi estetica, secondo cui l’opera musicale è da intendersi come finzione che vela un reale processo di (dis)continua e differenziale (tras)formazione creativa”. CLIC per l’acquisto del libro. Alessandro Bertinetto Eseguire l’inatteso Numero pagine 357 Formato: pdf + epub + mobi Prezzo ebook Euro 7.00 Edizioni Il Glifo
lunedì, 13 giugno 2016
Cinema e terrorismo
Il libro che presento oggi – pubblicato da paginauno (il minuscolo non è un mio errore, ma un’elegante scelta grafica dell’editore) – è destinato ad essere un ever green perché è il primo che affronta il tema della lotta armata vista dal cinema illustrando ben 50 film e dedicando a ognuno di essi una scheda. A dire la verità, la parola “scheda” è restrittiva, perché l’autore – oltre a un’intensa Premessa di oltre trenta pagine – compie ogni volta un vero minisaggio storico-critico per ciascuna pellicola. Ecco perché chi in futuro vorrà occuparsi di quell’argomento, dovrà necessariamente passare per quelle curatissime pagine. Titolo del libro Cinema e terrorismo La lotta armata sul grande schermo. L’autore è Carmine Mezzacappa. Nato a Torino nel 1951, è scrittore e traduttore dall’inglese. Sul cinema ha pubblicato numerosi articoli su riviste britanniche e due romanzi: “Un antico rancore” e “L’invisibile confine dell’aria”. Ecco la presentazione editoriale. “Cinema e terrorismo è un’attenta e minuziosa analisi di come il cinema italiano ha raccontato la lotta armata degli anni Settanta. Il saggio è costruito secondo linee tematiche, e l’autore passa in rassegna 50 film, spaziando dalle pellicole più note – come “Buongiorno, notte” e “La Prima Linea” – a produzioni meno conosciute, affrontando molteplici aspetti. In opere quali “Colpire al cuore” di Amelio e “Caro papà” di Risi, la lotta armata si presenta come conflitto generazionale, mentre in altre pellicole la telecamera preferisce soffermarsi sui dubbi ideologici ed esistenziali dei protagonisti – “Maledetti vi amerò” e “La caduta degli angeli ribelli” di Giordana, e “Il ragazzo di Ebalus” di Schito. Non mancano i riferimenti cinematografici al tormento della coscienza infelice borghese, che si oppone alla propria classe sociale – “Quella fredda mattina di maggio” di Sindoni – e all’atteggiamento irriducibile dei militanti, come “Gli invisibili” di Squitieri e “La mia generazione” di Wilma Labate”. A Carmine Mezzacappa ho rivolto alcune domande. Perché ti ha interessato il tema del terrorismo visto dalla macchina da presa? La condanna di un atto violento senza la volontà di capire perché esso viene compiuto non fa altro che favorirne la ripetizione. Se si vuole davvero risolvere un qualsiasi conflitto, è un dovere etico comprendere che l'esasperazione spinge alcuni individui ad illudersi che compiere azioni violente faccia trionfare la giustizia. L’unico modo di attenuare i conflitti sociali è di dare il giusto spazio alle ragioni di tutti. Un grande insegnamento ci è venuto dalla fase di riconciliazione nazionale vissuta in Sud Africa dopo l’abolizione dell’apartheid. Ma è stata un’eccezione. Purtroppo sono troppi gli esempi di riconciliazione fallita. Ci siamo mai dati una risposta ampiamente ed equilibratamente articolata sul perché i partigiani, nel dopoguerra, si fecero giustizia da sé con esecuzioni sommarie di quei fascisti che non erano stati condannati per le loro efferatezze compiute durante il regime? Oppure: come e perché è nato il conflitto israelo-palestinese e perché le potenze internazionali hanno finto di volerlo controllare ma, in realtà, le loro soluzioni proposte non hanno fatto altro che farlo diventare un conflitto mondiale tra schieramenti pro-Israele e filo-palestinesi? Ecco, alla base della stesura di “Cinema e terrorismo” c’erano queste e tante altre riflessioni. Cercavo una mia risposta personale non solo in relazione allo specifico tema della lotta armata ma al modo in cui si osserva qualsiasi conflitto in atto. Cercavo un metodo che mi permettesse, in sostanza, di non fare come lo stolto che guarda il dito invece della luna. In altre parole, non volevo fermarmi alla superficie dei fenomeni di violenza. Ho scelto la riflessione attraverso il cinema perché, tra tutti i mezzi narrativi, è quello che oggi, nonostante i suoi inevitabili difetti, racconta la società contemporanea con maggiore tempismo ed efficacia rispetto ad altre espressioni creative. Cinema e Storia. Nella Premessa, ti soffermi sul valore storico dei film... Un film ha sempre valore storico. Persino i film del filone “vacanziero” sono una testimonianza di un’epoca, di una mentalità. Oppure pensiamo ai film di fantascienza. Anche Godzilla, Alien, Blade Runner, sono una documentazione storica di come ogni epoca rappresenti la propria percezione della paura dell’incognito, del diverso, del nemico. L’importante è di non commettere l’errore di credere che un film, per esempio, sulla Rivoluzione francese ci spieghi come essa esplose. In realtà, un film sulla Rivoluzione francese ci spiega quali erano gli umori e il clima sociale e politico del momento in cui quel determinato film venne girato. Un film sulla Rivoluzione francese girato negli anni ’30 spiega gli umori degli anni ’30, non quell’epoca storica. Lo stesso vale per la Resistenza. Un film sulla Resistenza girato negli anni ’60 è la testimonianza di come veniva percepita la Resistenza in quegli anni. Ogni film, anche una semplice storia d’amore, è un documento storico. Pensiamo, per esempio, a come il cinema sia stato efficace anche nel ritrarre i cambiamenti della fisionomia delle città. I 12 capitoli del libro sono altrettante sezioni nelle quali vengono raggruppati alcuni film per assonanza tematica (“Gli irriducibili”… “La festa perduta”... "Lo stragismo", eccetera). Non c’è stato, quindi, un punto di vista predominante dei registi italiani nel rappresentare quel periodo? Se così è, perché? Ad eccezione di “Roma città aperta” di Rossellini e “Vivere in pace” di Zampa, il cinema italiano non ha parlato in modo approfondito della Resistenza fino al 1959, quando Rossellini girò “Il generale Della Rovere”. Negli anni ’50, del resto, imperava il cosiddetto “neorealismo rosa” con le maggiorate, la serie di “Pane, amore…” e il mondo di Peppone e don Camillo. Fatta eccezione per Rossellini, pochissimi registi erano preparati, in quel periodo, a raccontare la Resistenza. Poi, a partire da “La ragazza di Bube” di Cassola (e l’immediata versione cinematografica di Comencini), inizia una rappresentazione della Resistenza più articolata. Dico questo solo per sottolineare che Il clima politico condiziona pesantemente la narrazione della Storia. Per quanto riguarda il terrorismo, i registi hanno evidenziato il loro disagio perché, pur volendo parlarne, si sono sentiti troppo coinvolti emotivamente, non hanno saputo osservarlo e rappresentarlo con sufficiente distacco. Forse, fra qualche anno, ossia quando ci sarà una maggiore distanza temporale che permetterà ai registi di avere una giusta distanza emotiva, verranno girati altri film sul terrorismo. E’ quindi comprensibile che il cinema non abbia rappresentato gli aspetti ideologici del terrorismo ma abbia privilegiato le storie personali dei protagonisti, i loro dubbi, le loro esasperazioni. Perché sono stati girati decine di film sul terrorismo di sinistra e quasi nessuno su quello di destra? Del terrorismo di sinistra si conoscono quasi tutti i protagonisti e le loro posizioni ideologiche ed è stato più semplice parlarne perché le loro vicende erano, in qualche modo, più chiare: da una parte lo Stato, garante delle leggi, e dall’altra loro. Quasi tutti i militanti di sinistra della lotta armata sono stati arrestati e condannati. In realtà sappiamo bene che le cose non erano affatto chiare e semplici perché ci furono collusioni con la criminalità e connivenze con apparati dello Stato. Una storia trasparente e senza omissioni della lotta armata non è stata ancora scritta ma è stato facile semplificarla presentando da una parte il Bene e dall’altra il Male. Nel caso del terrorismo di destra, invece, ci sono segreti di Stato ancora inaccessibili e nessun regista si è sentito di esplorare quell’area oscura, indecifrabile. Infine, non è da trascurare il fatto che è decisamente più affascinante la figura dell’eroe che vuole cambiare il mondo ma prende una strada sbagliata e fallisce miseramente. Raccontare l’eroe malvagio che semina morte e non viene mai catturato è ugualmente affascinante ma diffonde un messaggio di devastante negatività che i registi italiani, a mio avviso, non hanno voluto alimentare. Carmine Mezzacappa Cinema e terrorismo Pagine 322, Euro 15.00 Edizioni paginauno.
venerdì, 10 giugno 2016
Dall'oggi al domani (1)
Oggi: 10 giugno. Il 10 giugno del 1940 era una giornata nuvolosa. Erano tempi che non avevamo voglia di niente. Andammo alla spiaggia lo stesso, al mattino, io e un mio amico che si chiamava Jerry Ostero. Si sapeva che al pomeriggio avrebbe parlato Mussolini, ma non era chiaro se si sarebbe entrati in guerra o no. Questo brano è tratto da “L’entrata in guerra” di Italo Calvino. Fa parte di un libro intitolato Il gioco dei giorni narrati composto di 366 brevi citazioni intorno a tutte le date dell’anno (non manca il 29 febbraio) tirate fuori da libri noti e meno noti. Questa cronologia derivata da avventure di fantasia, diventa un calendario letterario rigorosamente, splendidamente, reale e arbitrario al tempo stesso. A ideare quella stupefacente cronografia di fatti immaginari al servizio della vera scansione dei giorni fu – nel 1994, in una pubblicazione dell’editore Giunti – Antonella Sbrilli che si occultava dietro lo pseudonimo Toni A. Brizi. Il successo fu enorme (il libro, infatti, è introvabile) tanto da incoraggiare una più ricca edizione in Rete dov’è consultabile cliccando su Dicono di oggi fondato il primo gennaio 2013 da Antonella Sbrilli e Daniela Collu che ne ha curato il lancio, meritatamente fortunato, su Twitter. Fin qui la premessa, credo necessaria, per dire di una mostra straordinaria che concettualmente è legata all’operazione prima descritta. Qui sono le arti visive che visitano date, diari, calendari, anni smarriti e giorni rinvenuti. L’ho visitata giorni fa al MACRO di Roma, è intitolata Dall’oggi al domani 24 ore nell’arte contemporanea. Curatrici: Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo Il titolo dell'esposizione nasce da un’opera di Alighiero Boetti del 1988, un arazzo che reca quelle parole ricamate. Le opere scelte, in un godibilissimo allestimento, nella loro disposizione suggeriscono i percorsi tematici della mostra: "Ritmi"; "Oggi, Domani"; "Giornate di lavoro"; "Date"; "Date speciali"; "Calendari"; "Diari"; "Passaggi"; "24 ore". Main sponsor della mostra è Bulgari che vanta campagne storiche dedicate agli orologi della Maison. Ulteriore contributo di Bulgari alla mostra è una grande installazione realizzata dall’architetto anglo-irachena Zaha Hadid, recentemente scomparsa. “La forma dell’opera” – scrive Lucia Boscaini, Bulgari Heritage Curator – “evoca un motivo iconico nella storia del Marchio: il serpente, che nella storia dell’arte è stato spesso associato all’eternità del tempo nel simbolo dell’uroboros: la struttura costituirà uno degli spazi in cui si svolgeranno alcune delle iniziative che animeranno la mostra”. Il progetto, infatti, è arricchito da un’intensa attività sui social networks e da eventi, giochi, performance, incontri, lezioni, reading, condotti in collaborazione con gli allievi dei corsi di Storia dell’Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma - Dipartimento Storia dell’Arte e Spettacolo. Il calendario aggiornato delle attività è disponibile sul sito del MACRO. In foto: Giulio Paolini, Belvedere, 2006 “Il Tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; ma se qualcuno me lo chiede, non lo so più", scriveva Agostino, nelle ‘Confessioni’. Dall'oggi al domani è una mostra vertiginosa che illustra e riflette sul Tempo così com’è stato interpretato in una pluralità di stili da alcuni dei più famosi artisti italiani e stranieri, dall'inizio del secolo scorso. La mostra riecheggia nella settantina di opere esposte quella lacerazione fra tempo ciclico e tempo lineare che attraversando fisica e filosofia crea frazionamenti dell’Essere come verbo e come sostantivo. Mostra d’attualità quant’altre mai in un’epoca come la nostra dove la vita fra reale e virtuale esce dalla dimensione sequenziale del tempo per entrare in quella reticolare. Mostra intelligente, colta e non culturale (copyright Angelo Guglielmi), che spazia attraverso quella cosa serissima che è il Gioco sia quando è vissuto festosamente sia quando è praticato ‘au bout de la nuit‘. Ecco sintetiche note sulle due curatrici. Antonella Sbrilli. È professore associato di Storia dell’arte contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, dove si occupa anche di Informatica per la storia dell’arte. Dal 2008 al 2012 è stata Presidente del corso di Laurea triennale in Studi storico-artistici (Lettere). Dal 2004 al 2006 ha coordinato la sezione Arte dell’Enciclopedia Treccani Ragazzi, Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Ha ideato, insieme con Ada De Pirro nel 2011, la mostra Ah, che rebus!. Conduce, in collaborazione con Stella Bottai, il percorso multimediale “Il cerchio dell’arte. Tempo e denaro” visitabile fino al 2017 presso il Centro Trevi di Bolzano. Maria Grazia Tolomeo. Storica e critica dell’arte, ha curato - per il Palazzo delle Esposizioni di Roma - numerose esposizioni, fra le quali “Alberto Burri” (1996); “La coscienza luccicante” (1998); Studio Azzurro (1999); “Sol LeWitt. Wall Drawings (2000). Per il Museo Bilotti di Roma, ha di recente seguito la mostra Barbara Salvucci. Ink aperta fino al 26 giugno ’16. Segue ora un incontro con le curatrici.
Dall'oggi al domani (2)
Ad Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo ho rivolto due domande. Le sentirete rispondere con una voce sola. Prodigi della tecnologia installata a bordo di Cosmotaxi. In foto: Maurizio Cattelan, Grammatica quotidiana, 1989 In quest’epoca delle psicotecnologie (copyright De Kerckhove) quale valore ha assunto il tempo? Durante la preparazione della mostra, si è parlato molto fra noi di un libro pubblicato nel 2013 negli Usa e uscito in italiano da Einaudi. Si tratta di “24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno”, scritto da Jonathan Crary, uno storico dell’arte della Columbia University. “Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è il mantra del capitalismo contemporaneo, l’ideale perverso di una vita senza pause, attivata in qualsiasi momento del giorno o della notte”, si legge nella presentazione di questo saggio, che affronta un ulteriore grande cambiamento della condizione umana. In un universo che si propone come aperto e attivo 24/7, i ritmi sonno-veglia sembrano vestigia del passato; anche quando dormiamo restiamo in qualche modo connessi al flusso di informazioni e di attività globali. Senza per forza dare un giudizio netto su questo fenomeno, non possiamo non constatarlo e accorgerci che - sin dagli anni Sessanta - molte opere d’arte rivelano con anticipo le direzioni che il senso del tempo avrebbe preso. Il tempo si presenta da allora, in tante opere d’arte, come pensiero dominante e avvolgente, materia prima e supporto. La mostra è divisa nelle 9 sezioni che ho ricordato nella nota d’apertura. Qual è stata l’esigenza che vi ha fatto dividere gruppi di artisti in particolari scansioni? Sono state le opere, via via che le individuavamo, a suggerire le scansioni. Sulla base di un’idea di fondo: ci tenevamo a esporre lavori che alludessero - ognuno a suo modo - al tempo quotidiano e ai ritmi cosmici, alle 24 ore e al singolo istante. Che ci fossero le parole che usiamo per delimitare il tempo, gli avverbi oggi e domani, il giorno e la notte, che ci fossero accenni ai fusi orari, e soprattutto alle date, che per molti degli artisti coinvolti sono una vera ossessione. A mano a mano che i prestiti venivano confermati, le scansioni si precisavano e talvolta si modificavano. Chi visita la mostra, può attraversarla come un ipertesto, in cerca di calendari rivisitati (per esempio quelli di Alighiero Boetti, dove i foglietti del giorno compongono la cifra dell’anno), di orologi poetici (quello di Maria Sebregondi composto di haiku), di clessidre paradossali (Mario Ceroli ed Enrico Benetta), di numeri (per esempio quelli scritti dal polacco Opalka), di suoni (le campane del Mezzogiorno nel video di Partridge e Shemilt), di date (nell’opera di Daniela Comani che sintetizza il XX secolo in un unico anno bisestile). Ci sono poi opere realizzate apposta per la mostra: Giuseppe Caccavale ha dedicato tre giornate di lavoro alla trascrizione di versi del “Libro d’Ore” di Rilke su un grande, ieratico volto femminile; Manfredi Beninati ha costruito una stanza dove il tempo si dilata portando con sé mobili, libri, giornali, mappamondi; Daniele Puppi fa collidere i fotogrammi simili del film “Psyco” di Hitchcock e del remake di Gus van Sant. C’è anche una performance, ideata da Chiara Camoni, in cui vengono “ceduti” ai visitatori i dieci giorni cancellati dalla Riforma del calendario di Papa Gregorio XIII. E così via, attraverso video, quaderni, collezioni di scontrini, collage, installazioni che attirano nel loro gioco sul tempo.
Dall'oggi al domani (3)
Brani estratti dal catalogo della mostra. Copertina in foto. Antonella Sbrilli: Oggi, una mostra. Introduzione. “… Il ‘900 si apre con una parodia del calendario che Alfred Jarry (1873 -1907), l’inventore della Patafisica – la scienza delle soluzioni immaginarie – affida all’Almanacco di Padre Ubu […] Se il fattore Tempo dilaga nelle arti del XX secolo e le opere che lo affrontano sono incalcolabili, quelle che affrontano il taglio quotidiano sono altrettanto innumerevoli. Una mostra su questo tema può presentarsi solo come una traccia, attraverso una scelta di opere – in gran parte italiane, con alcune significative presenze straniere – che hanno fatto del giorno, dell’oggi, del tempo quotidiano il soggetto di riflessioni e azioni”. Maria Grazia Tolomeo: Da “Tempo!” a Oggi “… La mostra “Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea” parte proprio dal tempo, quello quotidiano, quello delle piccole azioni giornaliere, delle intime emozioni personali, per un’indagine utile a cercare di afferrarne il passaggio: è, infatti, attravero i momenti della giornata , i diari i calendari, il misurarsi con la notte e il giorno e con il loro ineluttabile trascorrere che alcuni artisti inseguono il linguaggio creativo per cercare di conoscere se stessi e soprattutto il mondo e le sue leggi”.
Achille Bonito Oliva: In corsa con il tempo “… quanto al tempo è un tema indagato da sempre, ma è in particolare nel corso del ‘900, che si arriva alla performance, all’evento, all’happening, a Fluxus […] ragionando sul tempo, non bisogna dimenticare Maciunas, Nam June Paik, Yoko Ono, in Italia Giuseppe Chiari: tutti artisti che concepiscono il tempo come flusso, conferendo al corpo una sua esteticità. Ma v’era anche un aspetto politico in questa ricerca artistica, rivolta contro la mercificazione, contro la trasformazione dell’arte in oggetto commerciale”.
Costantino d’Orazio: Vivere in loop “È difficile immaginare che oggi abbia ancora un senso riflettere sul concetto di giornata sulla funzione delle ventiquattro ore. Di fatto, negli ultimi dieci anni – se non da prima – la diffusione capillare di Internet ha spalmato la giornata di lavoro e delle relazioni per un tempo infinito e circolare, che non è più ritmato dal passaggio di testimone tra il sole e la luna né tra un giorno e l’altro del calendario”.
Ada De Pirro: Quando una data diventa il titolo di un’opera “Come documenta la mostra, il rapporto con le date è un filo conduttore che attraversa il Novecento e assume i connotati di un fenomeno trasversale, di cui fa parte anche la scelyta di inserire date nei titoli. Una pratica questa, che è sistematica solo per alcuni artisti, di area informale (Götz), concettuale (On Kavara, Finch), astratta (Richter), figurativa (McLaughlin, Pietrella), e solo saltuaria in opere di altri artisti”. Laura Leuzzi: 24h. Quando un giorno fa la differenza “Quale differenza può fare un giorno, 24 piccole ore” – cantava Dinah Washington nel 1959 […] Può un giorno fare la differenza? Sì, per raccontare il caos della vita quotidiana, per evidenziarne gli stereotipi e le bellezze, per mettersi alla prova, per contare insieme i minuti, le ore, per guardare la realtà con altro sguardo, per vivere il tempo consapevolmente, per esplorare gli effetti della rotazione della Terra sull’uomo e la sua opera. Insomma sì, se è un giorno d’artista”.
Michele Brescia: Le opere e i giorni fra sacro e quotidiano “L’artista, come l’operaio, detesta i tempi prestabiliti, la monotonia, la linearità omologante del tempo. Esemplare in tale senso, ‘Time Clock’, la performance eseguita dall’11 aprile 1980 all’11 aprile 1981 da Tehching (Sam) Hsieh, nella quale l’artista di Taiwan si è ripreso mentre timbra il cartellino di un’obliteratrice collocata nel suo studio, ora dopo ora, per i 365 giorni di quell’anno: la (presunta) libertà dell’artista deve obbedire a degli standard di produttività, nell’epoca del capoitalismo”.
Caterina Marrone: Un punto nel Tempo: l’Oggi “… un’altra particolarità ha la parola ‘oggi’: è una delle parti invariabili del discorso che non dà origine a parole derivate, a parole cioè che, attraverso suffissi, modificano il radicale di provenienza come per es. accade con un sostantivo maschile come ‘tempo’ che si trasforma in ‘temporaneamente’ o in ‘temporalmente’ o come ‘bene’ che si può modificare in ‘benino’, ‘benone’, ‘casa’ che dà ‘casetta’, casina’. ‘Oggi’ è un primitivo indeclinabile e condivide la sorte con altre due parole che gli sono fatalmente associate: ‘domani’ e ‘ieri’. Jo Alyson Parker: Un giorno > cinquant’anni “L’ISST (International Society for the Study of Time) è una creatura nata alla mente di J. T. Fraser nel 1966 subito dopo la conferenza interdisciplinare sul tempo tenutasi a New York nella Academy if Sciences. Come lo stesso Frase racconta, «dopo la conferenza, Gerald Whitrow, che allora era professore di Storia e Matematica applicata all’Università di Londra, Satoshi Watanabe, che insegnava teoria dei quanti a Yale, e io ci ritirammo in un angolo tranquillo per parlare. Dopo la mia proposta di formare un gruppo per lo studio della natura del tempo, abbiamo preso coscienza che l’ISST era stata appena fondata» “. Daniela Collu: Il tempo online esiste, resiste, insiste “È possibile uno spazio virtuale in cui scrivere ‘ora’ cosa stiamo pensando, senza timore di essere consegnati a un ‘per-sempre’ reale? Forse restano solo le chat, ammesso che si riesca a cancellare oltre alla propria cronologia anche quella degli interlocutori e che si resista alla violenza straziante degli ‘sta scrivendo…’ con quel gerundio dell’attesa francamente insostenibile, manco avessimo tutto il tempo del mondo”. Michela Santoro: C’era un oggi, hashtag del tempo “Un giorno segue l’altro con il suo avvicendarsi di ripetizioni e variazioni: in rete, questa oscillazione continua tra normalità ed eccezionalità è restituita in immagine dalla app creata da Diego Zuelli, “The Simple combination” (contemporarylocus.it) che quotidianamente trasforma le cifre di giorno, mese e anno in un disegno sempre diverso e sempre ricorrente. Che si tratti di un libro, uno spazio virtuale o lo spazio quotidiano della nostra giornata, continuiamo ad abitare il tempo e a giocare con esso”. .................................................................................. Il catalogo contiene anche un racconto di Mario Perniola: Ventiquattrore. Ne cito solo incipit ed explicit. .................................................................................. Ore 00.00 Prendere una compressa di Esilgan 2 mg. e vi infilate nelle orecchie due tappi di gomma piuma marca 3M Ear Classic. Lei russa, ma per voi questo rumore, in tutta sincerità, è sempre stato simile ad una musica celestiale in sottofondo. Ore 23.59 Mangiate una mela rossa. Lei sembra dormire, ma non russa. Supponete perciò che faccia finta di dormire. Prendete una compressa di Esilgan 2 mg. e vi infilate nelle orecchie due tappi di gomma piuma marca 3M Ear Classic. Vi chiedete: riuscirò ad addormentarmi senza quella musica celestiale in sottofondo? .................................................................................. Volete sapere che cosa ci sta in mezzo a quei due brani? Acquistate il catalogo e lo saprete. A proposito, le Edizioni Manfredi hanno stampato il catalogo della mostra; bella l’dea dell’Indice a forma d’orologio con i numeri delle pagine che si fanno ore del volume. Ufficio Stampa MACRO Patrizia Morici / T. +39 06 82 07 73 Dall’oggi al domani al MACRO Via Nizza 138, Roma Fino al 2 ottobre ‘16
giovedì, 9 giugno 2016
Il Peso delle Parole
È in corso dal 28 maggio, a cura di Valerio Dehò, presso la Galleria Moderna Aroldo Bonzagni di Cento la mostra antologica di Enzo Minarelli intitolata Il Peso delle Parole, lavori che vanno dal 1974 al 2016. Sono esposte circa 200 opere che scansionano la sua ultra quarantennale attività di ricerca visiva sulla quale ha scritto Renato Barilli: “La qualifica che più gli compete è quella di poeta, magari risalendo nell’occasione al significato etimologico della parola, per cui si tratterebbe di un fabbricatore col materiale più nobile a disposizione dell’uomo qual è la parola, nei suoi due volti, sonoro e grafico“. Valerio Dehò, curatore della mostra, firma anche il catalogo (Juliet Editrice) con un ampio saggio che tocca tutti i punti nevralgici della sperimentazione visiva di Minarelli, dalle primissime tavole concrete agli Oggetti Significanti, dagli Schemi di esecuzione [spartiti che gli servono per le sue performance dal vivo] alle Fonografie, dalle Fono-Foto-Grafie fino alle sue più recenti produzioni su tela e su vetro sabbiato. Scrive lo stesso Dehò a conclusione del suo saggio, "Minarelli sviluppa il suo lavoro come fosse un gioco, una poesia elementare, un modo per imparare il linguaggio a cominciare dal suono, perché vedere non è sufficiente, perché la patria perduta sta nell’ascoltare in silenzio il ritmo della vita che nasce con noi”. Per l’occasione verrà anche allestita La Bandiera, nella riedizione curata da Carlo Ansaloni. CLIC per visitare l’Archivio di Polipoesia condotto da Minarelli Enzo Minarelli Il peso delle parole Galleria Bonzagni Via Guercino 39, Cento Fino al 31 luglio ‘16
mercoledì, 8 giugno 2016
Massimo Pavarini
Essere solitario ma non solo racchiude il segno che accompagnò la vita di Massimo Pavarini; nato in terra reggiana nel marzo 1970, ci lasciò nel maggio 2012 all’età di 42 anni. Fu uno sperimentatore in campo musicale che pochissimo operò per farsi conoscere, ma non fu solo perché amici di un tempo non l’hanno dimenticato e ora in tanti hanno promosso la nascita di un box di 4 cd, con allegato un libro di quaranta pagine delle quali sono autori Andrea Landini e Manitù Rossi, che racchiude tutto ciò che Pavarini ha inciso, dal 1987 fino al 1995. Hanno lavorato alla produzione: Enrico Marani, Ewan O' Neill, Iuri Palmieri, Roberto Parisi, Vittore Baroni, Giorgio Biagini che si sono avvalsi della preziosa collaborazione di Simon Balestrazzi. Il titolo di questa pubblicazione – edita da Sussidiaria – è x sounds extremely mysterious.
Scrive Andrea Landini: Ci siamo chiesti spesso, preparando questa antologia, cosa avrebbe preferito Massimo: in termini di compilazione del materiale, di titoli, di artwork, di stile. E la cosa su cui più spesso ci siamo trovati d’accordo è stata: di fronte al minimo dubbio, Massimo avrebbe cassato tutto! Ma l’ultima decisione spetta a chi oggi rimane qui: la sua musica è questa, l’amore prevale. Manitù Rossi: Le persone coinvolte nell’assemblaggio di questa raccolta della musica di Pavarini hanno avuto, lavorandoci, la sensazione di godersi ancora la sua compagnia […] quindi ci siamo lasciati con la promessa che quei più o meno cinquanta pezzi di carta con sopra le partiture (ancora in mio possesso e parzialmente convertiti in file midi nel mio computer) potrebbero essere alla base di un altro progetto che porti il nome di Massimo Pavarini. Chiudo questo pezzo invitandovi all’ascolto di Materiale sferico per avere un assaggio dello stile di questo musicista.
lunedì, 6 giugno 2016
Le Piccole Persone
Di autori famosi esistono pagine fuori delle loro opere note che, spesso, sono tesori di scrittura ma anche soglie per entrare nel mondo di quegli autori. Cercare e portare alla luce quei fogli rassomiglia all’opera degli speleologi che scendono sottoterra per risalire poi con prede preziose. A quei sapienti esploratori dobbiamo essere grati, come io – e non sono il solo – lo sono ad Angela Borghesi che studiando con competenza e passione l’archivio dei dattiloscritti di Anna Maria Ortese (Roma, 1914 – Rapallo, 1998; QUI la sua biografia e bibliografia) ne ha tratto un libro bellissimo firmando anche una brillante postfazione. Il volume illumina la figura di questa scrittrice riservata, dal temperamento lussuosamente malinconico, capace però d’improvvisi lampi di furibondi scatti polemici. Nulla faceva per essere amata e, forse, anche per questo fu costretta negli ultimi anni della sua vita ad usufruire della Legge Bacchelli ottenuta grazie alla raccolta di firme d’amici e interventi presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Il libro pubblicato ora da Adelphi è intitolato Le Piccole Persone. Gli altri libri di Anna Maria Ortese nel catalogo Adelphi, QUI .
Piccole persone sono gli animali, le creature più indifese della Terra. E qui cito ancora la Borghesi invitandovi a leggere un suo acuto intervento che ha a che fare con gli animali, con l’attualità e con il libro della Ortese. Sono molti gli errori che l’uomo commette verso gli animali non umani. Il primo è quello d’immaginare una propria superiorità naturale. Ecco perché la Chiesa detesta tanto Darwin che – come sostiene Daniel Kevles – ha osato ficcare il naso nella narrazione giudaico-cristiana dell'origine della vita detronizzando l'uomo dalla sua speciale posizione in cima alla scala biologica, sottraendolo all'autorità morale della religione. “Dobbiamo dare noi agli animali la voce che non hanno” – ha detto Umberto Veronesi – “per fare valere i loro diritti”. Sembra l’eco di quanto scrive l’Ortese in “Le Piccole Persone”. Questa grande ascoltatrice del Male esprime tutta la sofferenza nel sentire le voci terrorizzate e poi morenti degli animali che torturiamo e massacriamo adducendo i più vari scopi che vanno dalla ricerca scientifica al divertimento. Da qui in “Piccole Persone” la sferzante risposta a Goffredo Parise sulla caccia, la sua rabbia contro l’ironia di tanti su Brigitte Bardot animalista, della quale ammira lo “schierarsi dalla parte più misteriosa e disperata della vita vivente, dalla parte di quegli animali per cui la terra intera è un lager, e il migliore degli uomini una belva”. Il grande respiro della postfazione della Borghesi fotografa in modo tridimensionale il pensiero dell’Ortese “… che non esita a scagliarsi contro la Chiesa, le sue sordità e i suoi riti, contro la scienza quando questa si fa strumento di tortura e di morte, quando oscura o inquina il cielo con funghi atomici o razzi spaziali: e che sollecita a vivere con poco, a generare e a morire secondo natura. Posizioni certo discutibili, ingrate e radicali, che la consegnano all’isolamento, all’incomprensione dei più o, nel caso migliore, fanno di lei un’ingenua sprovveduta. Ortese ne è consapevole, sa da tempo che i suoi discorsi sullo «spirito», sulla natura, sulla pietà per i reietti, sulla difesa degli animali come estrema possibilità di riscatto dell’umanità, la bollano come una incompetente o una «sentimentale». Ma questa – insieme all’impegno contro la pena di morte – sarà la sua battaglia finale, portata avanti nell’ombra, nelle pagine secondarie della «Posta dei lettori», negli scritti rifiutati o tenuti nel cassetto”. Anna Maria Ortese Le Piccole Persone A cura di Angela Borghesi Pagine 271, Euro 14.00 Adelphi
venerdì, 3 giugno 2016
Creative Eye
È in corso dal 21 maggio alla Galleria Granelli la mostra Creative Eye Arte cinetica e programmata.
Ecco alcune parti estratte dalla presentazione curata da Silvia Ricci (in foto). Fra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta inizia a delinearsi un nuovo orientamento estetico in linea con il momento storico caratterizzato da importanti ricerche scientifiche con conseguente mutamento della struttura sociale. Bruno Munari già nel 1952 scrive il "Manifesto del macchinismo” dove parla delle macchine come di esseri viventi, ironizzando sul fatto che già in quegli anni se ne cominciava a prendere cura come se fossero animali domestici. Inoltre teorizza che in futuro l’uomo potrebbe anche diventare schiavo delle macchine e che gli unici che possono salvare il genere umano da questa prospettiva sono proprio gli artisti. Gli artisti secondo Bruno Munari dovevano abbandonare tela, colori e scalpello e cominciare a fare arte con le macchine. La sua profezia si avverò proprio con l’arte cinetica e programmata. L’artista deve "distrarre" le macchine dal loro funzionamento razionale, e deve farle diventare macchine "inutili": questo passaggio rivela già la poetica di Bruno Munari che realizzerà tutta una serie di opere chiamate appunto "Macchine inutili". Nella straordinaria visione profetica di Bruno Munari era già espressa l’esigenza che l’artista dovesse diventare un operatore di una squadra, che lavora insieme ad altri collettivamente e che concepisce opere d’arte lucidamente e con progetti ben definiti, doveva finire l’epoca dell’artista fulcro unico e protagonista totale dell’opera […] Si forma nell'ottobre del 1959 il Gruppo T di Milano con artisti come Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Grazia Varisco; sempre alla fine degli anni '50 si costituisce il Gruppo N di Padova, di cui le più importanti personalità artistiche Alberto Biasi, Edoardo Landi, Toni Costa, Manfredo Massironi, Ennio Chiggio. A Parigi nel luglio 1960 nacque il GRAV (Groupe de recherche d'art visuel) con Julio Le Parc , François Morellet, Joel Stein, Jean-Perre Yvaral, Horacio Garcia Rossi, Francisco Sobrino, anticipato poco prima dal CRAV (Centre de recherche d'Art Visuel) di cui faceva parte anche Hugo Demarco, poi uscito dalla compagine. A Roma, si forma il Gruppo Uno con Gastone Biggio, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille Pace, Pasquale Santoro, Giuseppe Uncini e l'appoggio critico di Giulio Carlo Argan. A Dusseldorf, nasce invece il Gruppo Zero con Heinz Mack, Otto Piene, Gunther Uecker. Uno sviluppo così differenziato nelle varie sedi ha determinato un fenomeno vitale e velocissimo; nel 1961 a Zagabria nasce Nove Tendencije e per sancire la nascita del nuovo indirizzo di ricerca, viene organizzata una mostra che raccoglie vari gruppi di tutta Europa. Nel 1962 la Olivetti organizzò nella propria sede milanese la rassegna Arte programmata, itinerante poi nelle sedi di Venezia, Roma, Trieste e New York. Negli Stati Uniti, l'arte cinetica e programmata prese il nome di Optical art , abbreviata a Op art raggiunse l'apice della fama internazionale. Il movimento è composto da artisti europei, americani e sudamericani.Tra gli artisti optical spiccano i nomi di Victor Vasarely, Getulio Alviani, Paolo Scheggi, Jesus Raphael Soto, Yacov Agam, Bridget Riley, Julio Le Parc, Carlos Cruez Diez […] Umberto Eco definisce questo tipo di lavoro “opera aperta”, perché la sua forma viene in ultima analisi completata e finita dalla stessa percezione di chi la guarda e solo lì prende realmente forma. C'è un livello di necessità quasi scientifica, data dagli studi delle reazioni a livello percettivo delle forme presenti nell'opera, e un livello di libertà estrema nella azione/reazione del singolo visitatore. Creative Eye Galleria Granelli Silvia Ricci arte contemporanea Via Marconi 1/D int. A Castiglioncello Info: 0586 – 75 20 69 info@galleriagranelli.it Fino al 30 giugno ‘16
Fräulein
Spesso Cosmotaxi si occupa del cinema fuori del grande circuito e, anni fa, nel corso di una di queste esplorazioni, presentai un’autrice che aveva realizzato un mediometraggio bellissimo. Era stata già notata in Festival, in rassegne, avrà la stima di Nanni Moretti. Il suo nome: Caterina Carone.
Ora con piacere la vedo approdata in questi giorni al grande schermo con Fräulein Una fiaba d'inverno. Non ho ancora visto il film, ma so che si è misurata nello spazio più difficile, quello che sta tra la fiaba e la commedia. E, da quanto ebbi modo di notare anni fa, so che ha i mezzi per superare la difficolta dell’impresa che si è proposta. QUI una sua scheda biografica. QUI il trailer del film.
mercoledì, 1 giugno 2016
L'ultima vittima di Hiroshima (1)
Il 27 maggio 2016 è stata definita una data storica perché per la prima volta un presidente degli Stati Uniti si è recato in Giappone, a Hiroshima, dove, il 6 agosto 1945 alle 8:16 un aereo americano aveva sganciato la prima bomba atomica. Ne seguirà una seconda su Nagasaki, tre giorni dopo, il 9 agosto 1945. L’abusata frase – troppo ripetuta per essere sempre vera – “niente da ora sarà come prima”, quella volta fu verissima anche se, forse, nessuno allora la scrisse. Tante le cronache su quel micidiale episodio bellico, tanta la saggistica impegnata sui temi morali suscitati da quei bombardamenti, nessun campo artistico è stato assente nel ricordare in varie forme quelle stragi, eppure credo che una delle più importanti testimonianze sull’argomento sia senz’altro L’ultima vittima di Hiroshima Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica del filosofo tedesco Günther Anders (Breslavia, 12 luglio 1902 – Vienna, 17 dicembre 1992). La prima edizione italiana era ormai introvabile ed è ora - e va lodata l'editrice - ripubblicata da Mimesis, ben curata dalla germanista Micaela Latini che accompagna l’edizione con un brillantissimo saggio che incrocia storia, filosofia, letteratura; la incontreremo nella seconda parte di questo servizio. Il libro, vide la luce in Germania nel 1961 e nell’edizione di oggi riporta l’introduzione di Robert Jungk di quell’anno e la prefazione all’edizione inglese del 1962 di Bertrand Russell. Traduzione di Renato Solmi (1927 – 2015) che di Anders aveva tradotto, con diverso titolo, questo volume nel 1962 per Einaudi, così come per la stessa editrice l’altra opera andersiana “Essere o non essere". Il volume riporta il carteggio intercorso fra Anders e Claude Eatherly, l’ufficiale che da meteorologo diede l’ok per lo sgancio di “Little Boy” (così fu chiamata quella bomba) sulla città giapponese. Eatherly, dopo la guerra, entrò in una profonda crisi che lo portò a fare cose incomprensibili: rifiuto della pensione che gli spettava, falsificazione di un assegno per cifra irrisoria, finte rapine. Cose che gli procurarono ricoveri psichiatrici, divorzio, impedimento di vedere i figli, tentativi di suicidio. Morirà a sessant’anni nel 1978. È passato alla storia sia per quella terribile impresa del ’45 sia per la corrispondenza con Anders che documenta il suo tormento che lo portò ad atti autodistruttivi. Ben diverso fu l’atteggiamento di Paul Tibbets, l’ufficiale che dopo l’ordine dato da Eatherly, sganciò la bomba dal suo aereo che aveva chiamato Enola Gay, il nome di sua madre. Tibbets, in una delle interviste rilasciate, dichiarò: “Non sono orgoglioso di aver ucciso quelle persone, ma sono orgoglioso di essere partito dal niente, aver pianificato l'intera operazione ed essere riuscito ad eseguire il lavoro perfettamente. La notte dormo bene". Lasciò l'aeronautica militare Usa nel 1966 con il grado di generale e mise in piedi una società di taxi-jet in Ohio. Ha lasciato detto di non porre una lapide sulla sua tomba, per il timore che divenga un luogo per manifestazioni di protesta. Scrive Bertrand Russell nella prefazione a “L’ultima vittima di Hiroshima”: «… stento a credere che i dottori che dichiararono pazzo Eatherly, fossero convinti dell’esattezza di quella diagnosi. Egli è stato punito solo per essersi pentito della sua partecipazione relativamente innocente a una folle azione di sterminio. I passi che egli compì per ridestare la coscienza degli uomini alla nostra follia attuale non furono sempre i più saggi, ma furono compiuti per motivi che meritano l’ammirazione di chiunque sia capace di sentire umanamente». Obama avrà mai letto questo libro?.... Chissà. Segue ora un incontro con Micaela Latini.
L'ultima vittima di Hiroshima (2)
A Micaela Latini (in foto) ho rivolto alcune domande. Qual è, a tutt'oggi, la conoscenza che hanno gli americani di questo libro? Lo scambio epistolare tra Günther Anders e Claude Eatherly, tradotto dalla terza moglie di Anders, Charlotte Lois Zelka, uscì quasi contemporaneamente in Germania e negli Stati Uniti, tra il 1961 e il 1962, ed ebbe immediatamente successo. L’edizione inglese, dal titolo “Burning Conscience”, poteva vantare l’introduzione di Bertrand Russell. Pur essendo liberamente scaricabile dal web, il libro non è molto conosciuto negli Stati Uniti, così come tardano ad affermarsi il pensiero e l’opera di Anders. Finora non è stato tradotto il capolavoro andersiano “L’uomo è antiquato”. Iniziano però proprio in questi anni a circolare i primi lavori di studio su Anders, e spero che si apriranno nuovi scenari di ricerca. In quale momento della sua vita e dell’evoluzione del suo pensiero Anders prende a interessarsi di Eatherly? L’incontro è casuale. Nel 1959, Anders s’imbatte a Vienna (dove si era trasferito per seguire la seconda moglie Elisabeth Freundlich dopo l’esilio statunitense) in un articolo pubblicato sulla rivista americana “Newsweek” sulla straordinaria storia di Claude Eatherly. La figura del pilota texano, acclamato come eroe dal pubblico, in profonda crisi di coscienza nel privato, si profila ai suoi occhi come simbolo della condizione umana nell’epoca degli armamenti di distruzione di massa. A quel tempo Anders si era già affermato come uno dei maggiori teorici del movimento antinucleare tedesco, e aveva impresso un netto giro di timone alla sua traiettoria filosofica, congedandosi dalla riflessione accademica per diventare un agitatore delle coscienza. Nella tua Introduzione, paragoni Eatherly al protagonista kafkiano del “Castello”. Che cosa ti ha suggerito questo parallelo? Le figure degli anti-eroi di Kafka rappresentano un riferimento importante per Anders. Basti pensare al fatto che allo scrittore praghese ha dedicato a Parigi una conferenza importante e pioneristica nel 1934, poi confluita nelle righe di “Kafka. Pro e contro”. Molti sono i parallelismi tra le situazioni descritte da Kafka (con la sua proverbiale capacità di anticipazione) e quelle delineate da Anders. In particolare la storia del meteorologo americano Eatherly che, nella sua umanissima volontà di fare i conti con la sua coscienza e con la sua identità, non viene accettato dalla società tecnologica americana, mi sembra molto vicina a quella dell’agrimensore K. del “Castello”. Entrambi sono condannati a essere tagliati fuori, estranei al mondo. Più in generale la ricerca di una punizione per una colpa che si sa di aver commesso ma che non è stata riconosciuta dall’Altro rappresenta un indiscusso legame con Kafka. Ancora dalla tua Introduzione: “Lo sgancio della bomba nucleare è un evento storico [...] che si colloca al di sopra della soglia storica”. Puoi soffermarti sulla declinazione di questo concetto? L’espressione è di Anders, e serve a sottolineare i tratti del mondo senza uomo, ovvero di una condizione in cui l’uomo, avendo costruito i presupposti per l’apocalisse nucleare, si è autodestinato ad essere un residuo contaminato. Con l’era della minaccia atomica, si è delineato uno scenario totalmente diverso, che ha decretato una volta per tutte l’obsolescenza dell’uomo, la sua “Antiquiertheit”. Günther Anders L’ultima vittima di Hiroshima Traduzione di Renato Solmi Introduzione di Robert Jungk Prefazione di Bertrand Russell a cura di Micaela Latini Pagine 256, Euro 20.00 Mimesis
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