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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Teatro del Carretto (1)

Tra le realtà sceniche italiane, spicca da anni la figura del Teatro del Carretto, una compagnia nata, nel 1983, dall’incontro fra la regista Maria Grazia Cipriani e lo scenografo Graziano Gregori.
A Lucca, presso il Teatro Del Giglio dove ha la residenza, questo gruppo svolge la propria attività di ricerca, riconosciuta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali quale soggetto appartenente al Teatro d'Innovazione.
Fin dal primo spettacolo, Biancaneve, la Compagnia si rivelò al pubblico e alla critica come un’importante presenza nel mondo della sperimentazione espressiva italiana e non solo italiana.
Negli anni successivi, si assiste ad un inanellarsi di successi: Romeo e Giulietta - Sogno di una notte di mezza estate – Iliade – Odissea – La Bella e la Bestia – Le Troiane – Metamorfosi – Pinocchio – Amleto – Giovanna al rogo.
Il Teatro Del Carretto viaggia così con il suo repertorio in tutta Europa ed oltre oceano, ospite di molti Festival internazionali: New York, Parigi, Lisbona, Berlino, Madrid, Londra, Praga, Budapest, Tel Aviv, Città del Messico, Tokyo, Il Cairo, Vilnius, Ankara.
È chiamato a rappresentare l’Italia nell’àmbito di manifestazioni quali 'Italia-Russia 2005’ a Mosca e San Pietroburgo, inoltre a Pechino per 'Italia-Cina 2006'.

Un’occasione per conoscere, o rivisitare, il lavoro del Teatro del Carretto è data da una mostra che è in corso e sarà aperta fino al 5 novembre di quest’anno.
Si tiene a Lucca, alla Casermetta San Martino, in zona Porta Santa Maria (info: 366 – 124 68 66), è intitolata Le Stanze del Sogno, si avvale di uno splendido allestimento dovuto a Maria Grazia Cipriani
Come già il titolo annuncia, l’esposizione è divisa in Stanze, ciascuna dedicata a una messa in scena della Compagnia e ognuna animata da macchine teatrali in movimento, video, luci sapienti e suggestioni sonore.
Una coinvolgente immersione multisensoriale fra sogni e risvegli. Da non perdere.
Le foto di questo special, tratte dalla mostra, sono tutte opera di Guido Mencari.

Nelle parti che seguono, approfondiremo la visita al Teatro del Carretto.


Teatro del Carretto (2)

Tanti i riconoscimenti avuti dal Teatro del Carretto in àmbito nazionale ed internazionale.
Ne ricordo qui alcuni.


1991 - Premio UBU per la ricerca drammaturgia e visiva

1995 - Premio ALDO TRIONFO per la parabola evolutiva della sua opera

2003 - Premio HYSTRIO “Altre muse”

2004 - Candidatura dello spettacolo Odissea al premio ETI “Oscar dei Teatri” per il miglior spettacolo del teatro d’innovazione.

2009 - Premio Eti “Olimpici del Teatro” allo scenografo Graziano Gregori per le scene dello spettacolo Pinocchio

2009 - Premio del pubblico al Pinocchio per il miglior spettacolo del XIX Festival Baltic House di San Pietroburgo

2010 - Finalista al premio UBU come miglior spettacolo dell’anno

2011 - Candidatura al premio “Oscar dei Teatri” per la scenografia dell’Amleto


Teatro del Carretto (3)

Molti noti personaggi della critica e della scena si sono espressi sulla poetica del Teatro del Carretto. Qui ho raccolte alcune di quelle dichiarazioni.


Ernesto G. Laura: “Il Teatro Del Carretto, con quella lucidità di visione che può venire in una antica città d’arte come Lucca, defilata rispetto alle mode, al contingente, all’effimero, si sta ponendo da meno di un decennio sulla strada giusta, un recupero dell’invenzione fantastica che bilanci insieme il valore espressivo dello spazio, della luce, del colore, che saldi la parola con la musica, che infine, senza riproporre l’attore-marionetta di Gordon Graig né altre ricerche seppellite nella memoria, restituisca al teatro italiano quella centralità alla tradizione del fantoccio, che è ben radicata nella vicenda del nostro spettacolo.
L’uso di “attori meccanici” che si alternano, negli stessi personaggi, con attori in carne e ossa, la possibilità di variare in una stessa azione scenica le dimensioni fisiche di un personaggio, la prospettiva ed il “peso” di un ambiente, in un rapporto allo sviluppo di una situazione, sono tutti elementi di una ricerca per una nuova sintesi teatrale che utilizzi al meglio elementi disparatissimi”.


Lele Luzzati: “Dopo 30 anni di teatro, vissuti dentro e fuori i palcoscenici, dopo i teatri del realismo e dell’assurdo, del simbolismo, dell’avanguardia, postavanguardia, moderno e postmoderno è molto difficile, seduto in poltrona, provare ancora emozione per quel che ci racconta qualcuno sul palcoscenico. Eppure la storia era proprio quella vera di Biancaneve quella dei fratelli Grimm, con la matrigna cattiva, i nanetti non ancora edulcorati di Walt Disney e il principe che arriva alla fine, con ballo finale, il trionfo dei buoni e le punizione per i cattivi.
Come mai ci si può ancora commuovere per una storia simile? Certo l’emozione non era per la storia, ma per il modo con cui il Teatro Del Carretto ce la stava proponendo; per l’assoluta professionalità unita a una geniale inventiva figurativa e registica.
Nello stesso tempo la “Biancaneve” del Teatro Del Carretto è forse lo spettacolo più ambiguo che abbia visto negli ultimi anni. E quando dico “ambiguo” voglio dire che ha raggiunto l’essenza del teatro:ambiguo è l’Amleto (essere o non essere?), ambiguo è il miglior Carmelo Bene, ambiguo è Mozart e il suo Flauto Magico, ambiguo è Fellini...”


Vittorio Gassman: “... Aristocratico e popolare: un'endiadi rara e in questo spettacolo del Teatro Del Carretto perfettamente raggiunta. A parte lo stimolante stile prescelto per la dizione del testo, colpisce la compattezza delle soluzioni plastiche e gestuali, la forte icasticità dei mutamenti scenici e coreografici, la raffinatissima resa di alcuni vertici della vicenda ...”


Edoardo Sanguineti: “Delle Troiane vidi molti anni dopo, nel 1995, a Lucca, una messinscena che mi piacque molto, per la regia di Maria Grazia Cipriani, del Teatro Del Carretto. La Cipriani mi parve una persona veramente straordinaria: mi invitò a una prova e io rimasi assolutamente entusiasta. Lei mi disse di non essere assolutamente convinta del proprio lavoro: era severa e insoddisfatta, esigeva molto da sè e dagli attori. A me parve invece molto bella: una delle più belle realizzazioni che abbia mai visto. Vidi lo spettacolo tempo dopo, a Roma, per caso: una messinscena di una violenza, di una durezza e crudeltà meravigliose, quasi da non crederlo possibile. Ne fui assolutamente entusiasta. Troiane così si vedono di rado”


Jean-Pierre Vincent della Comèdie Française: “Oggi ho vissuto un'emozione straordinaria: non soltanto per le formidabili forze delle idee di questo spettacolo, per la serietà artigianale di questa compagnia davvero ammirevole, ma perchè questa forma di teatro mi ha dato anche dei suggerimenti di regia, mi ha dato la voglia di tentare altre strade, ed è il massimo che uno spettacolo possa provocare.”


Teatro del Carretto (4)


Ai fondatori del Teatro del Carretto, Maria Grazia Cipriani e Graziano Gregori, ho rivolto alcune domande. Li sentirete rispondere con una voce sola.
Prodigi della tecnologia di cui dispone a bordo Cosmotaxi.

Tante le colpe dei governanti nei riguardi del Teatro fuori dei maggiori circuiti privati e pubblici.
Vi chiedo, però, d’indicare qual è a vostro avviso la principale di quelle colpe.

Crediamo che una tra le responsabilità maggiori sia quella di mortificare in vario modo il lavoro di "ricerca" senza il quale si ha una situazione di stallo. Sappiamo che la parola ricerca è abusata e spesso travisata, ma se ci chiediamo cosa avverrebbe qualora nel campo, ad esempio, scientifico, non si desse spazio alla sperimentazione, la conseguenza sarebbe ovvia...

Maurizio Grande in un suo intervento di anni fa si chiese senza rispondersi: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?”
Voi come rispondereste a tali domande?

Noi, alla luce dell'esperienza vissuta, oseremmo optare per la seconda ipotesi espressa e cioè "l'attore è una maschera promossa a persona".

Teatro di avanguardia, sperimentazione, alternativo, e poi con i fatali, o necessari, prefissi neo, post, trans… insomma, che cosa vuol dire per voi “teatro di ricerca” oggi?

Abbiamo vissuto circa 35 anni di attività teatrale. Il primo spettacolo allestito fu salutato come un piccolo capolavoro. Avevamo trovato, forse creato, qualcosa.
Sentimmo necesario, però, cercare ancora, senza dimenticare le piccole scoperte fatte, ma certo senza ripeterle.
Così è stato per ogni spettacolo, in un percorso spesso faticoso, ma sempre teso ad aprire il ventaglio delle proposte espressive e a perseguire l'arte teatrale, nella convinzione che ogni forma d' arte deve essere in regola col passato ed in perfetto orario con il futuro
.

Esiste per voi lo spettatore ideale? Se sì, chi è? Se no, perché?

Per noi, o almeno per nostri spettacoli, lo spettatore ideale è colui che si lascia attraversare da ciò a cui assiste, che si abbandona come un bambino e che lascia al dopo considerazioni, spiegazioni eccetera..
Chi guarda e ascolta cercando di razionalizzare, sta già frustrando la propria sensibilità
.


Concludo qui lo special che ho dedicato al Teatro del Carretto, augurandomi che le istituzioni locali e nazionali sappiano, concretamente, ben sostenere questo piccolo tesoro posseduto dalla città di Lucca.

Ancora una cosa. Un ringraziamento, assolutamente non formale, a Laura Sinofri dell’Ufficio Stampa della Compagnia.
È stato, infatti, possibile realizzare questo reportage grazie alla sua attenta e puntuale assistenza.


Teatro del Carretto
Piazza del Giglio, 13 - 55100 Lucca
Tel.: (+39) 0583 - 48684 Fax.: (+39) 0583 - 496352
e-mail: info@teatrodelcarretto.it
www.teatrodelcarretto.it


OcchioperMille


L’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti ha scritto al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, per sollecitare il governo a destinare le risorse dell’8 per mille statale alla ricostruzione delle zone dell’Italia centrale colpite dal sisma nei mesi scorsi.

«L’Uaar – si legge nella lettera firmata dal segretario dell’Associazione, Stefano Incani – le scrive per invitarla a rivedere la politica del governo in tema di utilizzo dell’8 per mille di competenza statale». A nostro avviso è indispensabile destinare l’8 per mille a gestione statale alla ricostruzione con criteri antisismici di abitazioni, scuole, ospedali, asili nido, biblioteche, università, strutture produttive, strade e ferrovie delle regioni colpite dal sisma». Una richiesta peraltro in linea con la stessa legge che regolamenta l’istituto dell’8 per mille (la 222/1985) la quale prevede tra le destinazioni d’uso anche “interventi straordinari per calamità naturali” (oltre a “fame nel mondo”, “assistenza ai rifugiati”, “beni culturali” e la recentemente introdotta “edilizia scolastica”).

La lettera è anche occasione per sollecitare il governo a un altro cambio di rotta: «Ci permettiamo – prosegue Incani – di chiederle anche un impegno di più alto valore civile, una vera e propria svolta: vale a dire che lo Stato, per la prima volta dall’esistenza del meccanismo dell’8 per mille, lanci una campagna pubblicitaria a proprio favore». Lo Stato è infatti l’unico competitor che non sensibilizza l'opinione pubblica sulle proprie attività, cosa che ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore.

L’iniziativa si inserisce all’interno dell’edizione 2017 della campagna Occhio per mille – campagna che l’Uaar porta avanti da anni allo scopo di aiutare i contribuenti a effettuare una scelta informata e consapevole per la destinazione dell’8 per mille – e giunge a pochi giorni dalla notizia che è stato approvato l’emendamento al decreto terremoto che prevede che tutta la quota statale dell'8 per mille destinata ai beni culturali - da quest'anno fino al 2026 - sarà destinata esclusivamente al recupero dei beni culturali colpiti dal sisma nel centro Italia (e non tutta la quota 8 per mille di competenza statale come inizialmente previsto).

«Ma per i luoghi di culto – come sottolinea Incani nella lettera – c’è già l’8 per mille alle Chiese». E per chi non lo ricordasse, la Chiesa cattolica con il 37% delle firme a suo favore si aggiudica l'80% dei fondi, pari lo scorso anno a 1 miliardo e 18 milioni di euro. Tutto ciò in virtù del meccanismo di ripartizione in base a cui le quote non espresse – quelle che non vengono destinate, perché il contribuente non firma né per lo Stato né per una delle confessioni religiose che ha accesso ai fondi – sono comunque ripartite in proporzione alle firme ottenute. Un aspetto su cui non solo l’Uaar cerca da tempo di accendere i riflettori con la campagna Occhiopermille ma che è stato oggetto di richiami da parte della Corte dei Conti.

Per questo l’Uaar ha scelto per la campagna "Occhio per Mille" di quest’anno l’hashtag #primalecasepoilechiese.

«Abbiamo deciso di riprendere un motto che risale al terremoto del Friuli – spiega Roberto Grendene, responsabile Campagne Uaar – perché è forse anche grazie a quel principio guida che quella del Friuli è stata l’unica ricostruzione post-sisma pienamente riuscita nel nostro paese. È una questione di priorità», prosegue «Non neghiamo che ci possano essere anche diverse chiese monumentali che meritano un intervento. Ma prima pensiamo a far tornare nelle loro case, alla loro vita, le persone che hanno perso tutto».


Elogio della fragilità (1)


Va di moda, è tornato di moda, non da ieri, l‘esibizione muscolare del corpo e del pensiero.
Quell’esercizio con il quale i totalitarismi hanno insanguinato il secolo scorso, in tanti lo pensavano per sempre superato negli anni della contestazione, della controcultura, dei figli dei fiori, del “peace and love”, di Joan Baez, dei Beatles.
In Italia, fummo costretti ad accorgercene con il terrorismo nero e rosso, in quelli definiti “anni di piombo” ai quali seguiranno, però, come scrisse giustamente qualcuno per primo (mi scuso, non ricordo il suo nome) “anni di merda”.
Credo li abbia inaugurati Craxi. Durano ancora. Trionfano. Non solo in Italia.
Oltre ai tanti episodi politici nazionali ed internazionali brutalmente maiuscoli, basta uscire da casa (o anche vedere la rappresentazione del mondo in tv e sui giornali) per notare violenza, esaltazione della durezza; basta leggere certe aggressive scritte sui muri, per non dire del campionario di nefandezze esemplificato perfino nel traffico automobilistico o negli stadi.
Si ha la sensazione che la gentilezza sia diventata per tanti, per troppi, sinonimo di debolezza, una cosa da non praticare, da occultare dietro gesti e parole arroganti che siano manifestazioni di forza; atteggiamento “macho” nel quale talvolta vediamo cadere anche le donne.
Ecco perché accolgo con particolare gioia un libro, benissimo scritto, di recente uscita per le Edizioni Mimesis, s’intitola Elogio della fragilità.
Gran bel libro e, inoltre, necessario. In questi anni in cui è cresciuto il disprezzo per ciò che è ritenuto fragile. Ma siamo proprio sicuri che la fragilità sia poca resistenza? O, forse, non è una forma di forza che può vincere – e ha vinto in più occasioni – con la fantasia e la fermezza?
Come, ad esempio, forse vogliono dimostrare gli Eroi, raffigurati da Georg Baselitz, in questi giorni in mostra a Roma, “colti – come scrive Helga Marsala – “nella loro umanissima fragilità, nella flagranza di un naufragio esistenziale. Soldati, Pastori, Ribelli, Partigiani, combattenti stretti nelle loro uniformi lacere.”

“Ribaltare il senso della parola fragilità” – scrive Lorenzo Romito nella Postfazione – “renderlo un concetto forte, un terreno fertile, coltivarlo come una risorsa, forgiarlo come uno strumento rivoluzionario, fare del pensiero fragile un superamento del pensiero debole” è quello che si propone l’autore di “Elogio della fragilità”, il suo nome è Roberto Gramiccia.
Scrittore, critico d’arte, giornalista, medico, è nato a Roma dove vive. Si è diviso fra incarichi apicali di tipo sanitario e un’attività giornalistica e letteraria inerente temi artistici e umanistici. È stato per più di dieci anni direttore sanitario, maturando una particolare esperienza nell’ambito delle problematiche relative alla studio, alla cura e all’assistenza nell’universo della fragilità. Ha curato numerosi e importanti eventi espositivi dedicati ad artisti del panorama contemporaneo, il più recente dei quali a Pizzi Cannella nella capitale dell’isola di Cuba.
Fra il 1999 e oggi ha pubblicato numerosi libri, fra cui: La medicina è malata; La Nuova Scuola Romana; Fragili Eroi; Slot Art Machine; La strage degli innocenti; Vita di un matematico napoletano; Arte e potere. Il mondo salverà la bellezza.
In questo video parla del suo recente libro.

Dalla presentazione editoriale.
“Fragile è il contrario di forte. A prima vista i due termini sembrano opposti e inconciliabili. Ma è proprio vero che chi è fragile è destinato a soccombere? Siamo certi che la fragilità sia una condanna? A questi interrogativi cerca risposta questo libro il cui autore, medico, della fragilità narra i dolori, ma tesse anche le lodi e rivela le risorse a partire da alcune vicende della sua vita privata e professionale, dalle quali prende le mosse l'elaborazione di una personale teoria della fragilità. È la fragilità che spinge al conflitto e arma la rivolta. Ispira il poeta, guida il pittore e consiglia il filosofo. Ma oggi incombe una minaccia: la rassegnazione, che trasforma la fragilità in accidia, che crea la schiavitù e le condizioni ideali per la schiavizzazione. Ecco perché è giunto il tempo di trasformare la "volontà di potenza" del sistema che ci domina nella "potenza della volontà" di convertire la fragilità in forza creativa e rivoluzionaria. Non cesseremo di essere fragili, ma almeno, per come è possibile, torneremo liberi”

Segue ora un incontro con Roberto Gramiccia.


Elogio della fragilità (2)


A Roberto Gramiccia (in foto) ho rivolto alcune domande
Che cosa particolarmente ti affascina della fragilità tanto da dedicarle questo studio?

Della fragilità mi affascina tutto. In particolare la grazia che in essa spesso si rivela. Penso alla bellezza di un bambino, a quella di una farfalla o anche a quella di un corpo di donna esile e apparentemente fragile sul quale si disegnino i tratti della sensualità. In quest’ultimo caso l’erotismo deriva proprio da questo produttivo e maieutico contrasto.

Nei dizionari dei sinonimi troviamo "Fragilità = Debolezza". Ma è proprio così?

Lo scopo principale del mio libro, sin dal titolo è quello di dimostrare che la fragilità piuttosto che un vincolo è una risorsa. La debolezza è “fragilità rassegnata”. La fragilità di cui io mi occupo è quella “ribelle” di colui che, a partire dalla consapevolezza dei propri limiti, cerca un riscatto. Non solo cerca una via di uscita ma inventa nuove strade, creative, innovative, trasformative. Tutte le più grandi conquiste scaturiscono dalla consapevolezza di una fragilità che va superata. Conquiste individuali (pensate alla poesia di Leopardi) e conquiste collettive (tutte le grandi rivoluzioni).

Da uomo di scienza quale sei, credi che esista un destino biologico che predispone i nostri caratteri oppure essi sono dettati dall'ambiente in cui noi umani cresciamo?

Io, oltre ad occuparmi di arte in qualità di critico, sono medico. Sono quindi consapevole della fondamentale importanza della interrelazione fra il nostro genoma e l’ambiente nel quale viviamo. Oltre a questo amo molto il pensiero di Spinoza. E mi viene naturale ricondurre la nostra esistenza all’appartenenza ad una natura, ad una sostanza di cui siamo aspetti particolari. Direi che la scienza e il pensiero di Spinoza coincidono nel circoscrivere gli ambiti del nostro libero arbitrio alla consapevolezza attiva dei nostri limiti, dalla quale trae alimento la nostra “libertà possibile”. In questo senso la presa d’atto della fragilità rappresenta il motore prima di ogni libertà, di ogni avventura. Nella vita, nell’amore, in arte, nella storia.

Puoi fare un esempio tratto dalla storia in cui la fragilità l'ha avuta vinta sulla forza violenta?

Volentieri. Per prima mi viene in mente la grande reputazione e l’influenza che sprigiona internazionalmente il pensiero di Antonio Gramsci,
il più grande pensatore italiano del 900. Gramsci era deforme, affetto da morbo di Pot e ha scritto il suo capolavoro, i “Quaderni dal carcere”, mentre era recluso nelle galere fasciste. Nessuno più di lui era fragile. Ma da quella condizione sono scaturiti tesori inestimabili di intelligenza e di saggezza.

Nelle tue letture, qual è l’autore che meglio hai trovato incarni la tua idea di fragilità?

Senza dubbio Giacomo Leopardi. Anche lui singolarmente, come Gramsci, affetto da tubercolosi ossea. Nel suo caso, come in quello del filosofo sardo, non c’è dubbio che l’esperienza infinita del dolore rappresentò uno strumento di scasso per violare le prigioni di quella “natura maligna” alla quale il poeta si ribella. Nell’ultima sua poesia, “La ginestra”, Giacomo Leopardi indica nella prospettiva della creazione di una laica confederazione di fragili solidali, l’unico strumento di emancipazione e di conforto.
Il libro è idealmente dedicato a questo poeta. Penso e spero che non vi deluderà. Non fosse altro che per il fatto che si occupa di come siamo fatti veramente.

Roberto Gramiccia
Elogio della fragilità
Prefazione di Michele Prospero
Postfazione di Lorenzo Romito
Pagine 130, Euro 12.00
Mimesis


Elettra ha novant'anni


Elettra è un personaggio della mitologia greca.
Figlia di Agamennone e Clitennestra. Sorella di Oreste, Crisotemi e Ifigenia.
Famiglia scalognata, roba che appena uno di loro muoveva un passo inciampava in un guaio e finiva in orizzontale alla morgue col cartellino su di un alluce.
I grandi tragici su quella nera storia sono andati a nozze (altrimenti che tragici sarebbero?) e hanno scritto roba forte. Ma non di quella roba voglio parlare perché il pezzo, come avete visto, nel titolo afferma che Elettra ha novant’anni mentre sia quella di Sofocle sia quella di Euripide (per non dire dell’Orestea di Eschilo che viene prima) hanno qualche annetto in più… diciamo 2400 suppergiù. Suppergiù e non precisamente perché le furbe, pur di ringiovanirsi di qualche primavera, hanno fatto scrivere sul loro documento d’identità al rigo ‘data di nascita’ la scritta “data incerta”.
No, l’Elettra di cui mi occupo si chiama Elettra Romani.
Nata a Paliano, in provincia di Frosinone, debutta come ballerina a 22 anni, nel 1949.
Per il resto, leggete su Wikipedia.
Leggendo lì si nota una clamorosa mancanza. Non si parla di Nicola Russo.
A lui – e al Monstera Teatro – si deve, infatti, lo spettacolo Elettra, biografia di una persona comune che, reduce da anni di successo, approda al Teatro Tordinona di Roma da martedì 28 marzo a domenica 2 aprile.
Nicola Russo (1975) regista e attore, fonda nel 2010 la compagnia Monstera. Nello stesso anno scrive e dirige “Elettra biografia di una persona comune” che si aggiudica la vittoria dell’E45 Napoli Fringe Festival.
Nel 2011 scrive e mette in scena “Physique du rôle”, liberamente ispirato al lavoro di Sophie Calle. Nel 2013 realizza due lavori: “La Vita Oscena” di Aldo Nove, e “Leonce e Lena, fiaba sulla necessità di essere e la convenienza di non essere” da George Büchner messo in scena per il festival Tfaddal del Teatro Franco Parenti di Milano e per Le Vie dei Festival di Roma. Nel 2014 realizza “Lost in Translation Project” mettendo in scena presso la Selma Susanna School of Performing Arts di Amsterdam “Elettra, biografia di una persona comune” nella traduzione in inglese di Marco Quaglia.
Come attore è in molti spettacoli dell'Elfo di Milano per la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani. Ha lavorato come protagonista con Luca Ronconi in “Peccato che fosse puttana” di John Ford, con Marco Bellocchio nel “Macbeth” di William Shakespeare e con Eimuntas Nekrosius in “Anna Karenina” di Tolstoj.

A proposito di questo spettacolo, così dice.
Conosco Elettra Romani, ex ballerina, subrettina e attrice di avanspettacolo, da molti anni. Forse una delle prime “esperienze” teatrali della mia vita è stato spiare lei e suo marito Alfonso Tomas truccarsi e provare delle scene dal loro repertorio. Credo che quell’immagine racconti meglio di tante parole lo spirito con cui, dopo tanti anni, mi sono avvicinato alla vita di Elettra Romani. Il 2017 è un anno particolare per la storia di questo spettacolo. Elettra Romani compirà 90 anni e riprendere quel lavoro che parla della sua vita mi è sembrato il modo migliore per rendere omaggio a una protagonista di quel teatro, l’avanspettacolo, fatto di enormi sacrifici e spesso di pochi riconoscimenti. Ho pensato di registrare la sua vita professionale e privata perché ne rimanesse una traccia. E’ stato durante questa fase che mi sono accorto di come occuparmi della sua storia fosse un modo per occuparmi della nostra, di come raccontare la sua biografia fosse un modo per dire qualcosa di noi, e che su quel ponte che avevo creato tra il nostro presente di teatro “serio” e il suo passato di teatro “leggero” potevamo permetterci di fare nostra la sua storia a tal punto da raccontarla in prima persona.
“Elettra, biografia di una persona comune” è l'approdo di questo lungo percorso
.

QUI altre informazioni, interpreti, musicisti, allestitori.

Prossimamente, a Roma, un altro spettacolo di Nicola Russo, al Teatro Vascello.
S’intitola “Vecchi per niente”. Debutterà l’11 aprile.

Ufficio Stampa: Simona Carlucci: tel. 335 – 59 52 789; s.carlucci@tim.it

Teatro Tordinona
Roma, Via degli Acquasparta 16
Tel: 06.700 49 32
“Elettra, biografia di una persona comune”
Dal 28 marzo al 2 aprile ‘17


Volando volando

Giorni fa (per i terrestri era giovedì 18 marzo 2017), durante il volo, Cosmotaxi è passato vicino alla sonda Voyager, lanciata nel 1977, e si è sentita forte e chiara la voce di qualcuno che se ne andava a spasso per il cielo.
Era quel birbone di Chuck Berry che, stufatosi di stare sulla Terra dove rischiava d’incontrare Donald Trump in America oppure, in Italia, Renzi e altra gente del Pd in compagnia di Minzolini, aveva deciso proprio di lasciare quel pianeta.

Su quella sonda, invece, Chuck è in buona compagnia. Voyager, infatti, qualora incontrasse degli alieni, per far loro conoscere l’arte musicale della nostra civiltà, reca inciso su di un disco d’oro musiche di Mozart e Bach, Beethoven e Armstrong, oltre a canti tribali di varie parti della Terra.
Di Chuck, quei fortunati alieni ascolterebbero quanto ha udito Cosmotaxi nello Spazio con grande gioia di chi lo guida.
Cioè armando adolgiso, servo vostro.
Che cosa ho ascoltato?
Cliccate QUI e lo saprete.


Una domanda per Paola Bellone

Su queste pagine ho recensito una poderosa inchiesta, pubblicata dalla casa editrice Laterza, intitolata Tutti i nemici del Procuratore L’omicidio di Bruno Caccia.
Autrice: Paola Bellone, da me intervistata giorni fa.

Dalla presentazione editoriale del volume.
“Bruno Caccia fu ucciso dalla ’ndrangheta, senza alcun dubbio. Ma nell’anomala vicenda dell’unico omicidio di un magistrato commesso da un’associazione mafiosa nel Nord Italia rimangono molte ombre. Come sancì la seconda sentenza di appello per il delitto, infatti, e come confermò la Cassazione, il Procuratore fu ucciso in quanto «ostacolava la disponibilità altrui», cioè la disponibilità di altri magistrati verso i malavitosi. Esistono dunque, al di là degli esiti processuali, ben più ampie responsabilità che spiegano anche l’oblio a cui la vicenda è stata destinata.
Il libro passa in rassegna le inchieste aperte da Caccia e prende in esame documenti inediti e nuove testimonianze. Quello che emerge è una fitta trama di relazioni pericolose tra alcuni magistrati, alcuni esponenti della criminalità organizzata e gli indagati nelle inchieste ‘scandalo’, che in quel terribile 1983 coinvolgevano esponenti delle istituzioni, Guardia di Finanza, massoni.
La magistratura nel suo insieme ha avuto in questa vicenda – secondo l'autrice – responsabilità gravissime. È arrivato il momento di riconoscerle”.

La lettrice Aurora Stenonesi, avendo letto la mia nota sul libro e l’intervista all’autrice, in una mail inviatomi, si chiede, e mi chiede, come sia stato possibile che una mentalità ‘ndranghetista tanto lontana da quella piemontese possa essersi infiltrata – trovando connivenze – nel tessuto civile di quella città.
Ho girato la domanda a Paola Bellone (in foto) che così ha risposto.

L’occasione è stata senz’altro la misura del confino nel Nord Italia imposta agli ‘ndranghetisti, così come agli altri mafiosi. Leonardo Sciascia, come sempre profetico, diede una spiegazione più profonda. Nel 1961 scriveva:

A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l’ago di mercurio di un termometro questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma.

Le parole di Leonardo Sciascia mi hanno come folgorata, rileggendole mentre scrivevo il libro, perché le inchieste più importanti in corso nell’83 venivano chiamate proprio inchieste-scandalo: sia quella dei petroli, sia quella delle tangenti ai politici piemontesi. Il fenomeno mafioso continua ad allignare perché è utile a mantenere certi sistemi di potere. Pensare al PM di Palermo Vittorio Teresi, che nel 2013, nel corso di una conferenza stampa, disse: «Voglio fare un appello diverso, questa volta non mi rivolgo ai rappresentanti delle istituzioni per chiedere loro di recidere i legami con la mafia, ma mi voglio rivolgere ai vertici di Cosa nostra, ai vari Riina e Provenzano, ma anche al latitante Messina Denaro: recidete i legami con i vostri politici di riferimento. Voi siete sommersi da ergastoli e loro la fanno sempre franca e si arricchiscono e sono tutti a piede libero».
La domanda, però, mi dà l’occasione di riportare un’intervista di cui non ho fatto cenno nel libro. Agli inizi del mio lavoro ho parlato con un torinese che all’epoca era un ragazzino e più di una volta si prestò a consegnare messaggi per conto dei malavitosi calabresi dell’epoca dietro compensi modesti. Lui aveva il preciso ricordo di casalinghe torinesi che portavano da mangiare ai latitanti calabresi. È uno spaccato di miseria umana, ma allo stesso tempo può servire a sperare che il fenomeno mafioso si può combattere. Se da una parte, infatti, essa è uno strumento del potere, dall’altra è anche vero che essa trova spazio a partire dal basso, cioè a un livello che è di tutti. Per questo è fondamentale l’educazione contro la mentalità mafiosa e le sue insidie
.

Paola Bellone
Tutti i nemici del procuratore
Pagine 228, Euro 20.00
Laterza


Fuori dall'orbite - nulla di cosmico


L’editrice La Mandragora ha pubblicato un nuovo libro di Silvana Baroni intitolato Fuori dall'orbite - nulla di cosmico.
La stessa casa, nel 2014, stampò, della medesima autrice, il volume Il doppiere e lo specchio.

Psicoanalista a Roma, Silvana Baroni è una raffinata aforista e, particolare non di poco momento, una delle pochissime firme femminili in Italia di quel genere letterario.
Ha scritto testi teatrali, ha pubblicato racconti e poesie su varie riviste letterarie e in volume.
Presente in numerose mostre nelle quali ha esposto le sue creazioni di arti visive.
Come aforista ha pubblicato nel 1992 “Tra l’Io e il Sé c’è di mezzo il me“, raccolta di aforismi e disegni umoristici per il Ventaglio edizioni, nel 1997 “Acquerugiola-acquatinta“, raccolta di grafiche e haiku per le edizioni dell’Oleandro e nel 2007 “Laccati di cristallina neppure i fossili sono più quelli di una volta“, edizione Quasar (quest’ultima raccolta si è classificata al secondo posto nel Premio internazionale per l’aforisma “Torino in sintesi 2010“).
Tempo fa, proprio in occasione del successo riportato a Torino, in queste pagine fu intervistata sul suo lavoro.

Dalla presentazione editoriale di “Fuori dall’orbite – nulla di cosmico”.
“Silvana Baroni ha percorso una carriera aforistica diffusa in un'ampia serie di titoli da cui emerge la sua elegante ironia, il suo garbo pungente. Con questa sua nuova e brillante raccolta rivela uno spirito arguto e urticante, capace di agglomerare frammenti di alta temperatura, aforismi spassosi e faceti.
Sempre guidati dal nume salutare dello scetticismo”.

QUI il sito web che l’autrice conduce in Rete.

Silvana Baroni
Fuori dall'orbite
Pagine 104, Euro 12.00
Editrice La Mandragora


10 years old


Nel presentare una mostra fotografica di cui riferirò fra poco, voglio far precedere la presentazione stessa da alcune riflessioni di grandi firme.
Anche i grandi possono dire delle cospicue castronerie. Ne volete un esempio? E’ di Paul Gauguin: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita... sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile”.
Pure il grandissimo Kafka, a proposito d’immagini riprodotte, ne disse una che, forse, oggi più non direbbe: “Se il cinema è una finestra sul mondo, ha le persiane di ferro”.
Con Walter Benjamin, la musica cambia: “Non chi ignora l'alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l'analfabeta del futuro”.

In Italia, un Centro di eccellenza sulla fotografia come luogo didattico ed espositivo si trova in Emilia. ed è la Fondazione Fotografia Modena – voluta e sostenuta dalla Fondazione Cassa di risparmio di Modena – che quest’anno raggiunge un duplice traguardo: compie dieci anni d’attività ed entrerà a far parte del nuovo Polo dell’Immagine e dell’Arte Contemporanea della città.
Dieci anni sono trascorsi dalla nascita di quel progetto culturale interamente intitolato all’immagine, che si è evoluto nel corso degli anni in un centro espositivo, di ricerca e formazione di livello internazionale.
Un organismo ben diretto da Filippo Magia, una struttura che funziona benissimo nei suoi vari reparti; dall’ufficio mostra che vede al lavoro Claudia Fini e Chiara Dall’Olio alla didattica con Alice Bergomi e Daniele Ferrero alll'Ufficio Stampa e Comunicazione curato da Cecilia Lazzeretti, ai tanti altri impegnati nelle varie aree della Galleria.
A celebrare questo primo, importante anniversario sarà una mostra che riflette l’ampia attività svolta dall’istituzione.
Un percorso di 250 opere, tra video e fotografie, di 95 artisti contemporanei provenienti da oltre 70 paesi in tutto il mondo. Titolo: 10 years old.

In foto Aleksander Petlura: “The empire of things”, 2000

Sono esposte le tappe principali, dal 2007 a oggi, della creazione di una grande collezione d’arte contemporanea, offrendo uno spaccato sulla storia e sui temi affrontati dal centro modenese.
La mostra è a cura di Filippo Maggia e di Chiara Dall'Olio.
All’interno della collezione internazionale, così come in quella italiana, è possibile individuare alcuni temi ricorrenti. Lo scenario politico irrompe nelle opere degli autori che hanno vissuto sulla loro pelle conflitti e tensioni razziali, come nel caso di numerosi artisti dell’Europa dell’est, Medio Oriente, Sudafrica; altrettanto forte è la rivendicazione di un’identità personale, culturale, o di genere, laddove i diritti umani sono messi in discussione oppure addirittura prevaricati. Nei paesi più evoluti, dove la libertà di espressione non è messa a repentaglio, la ricerca degli artisti si è potuta concentrare invece sull’estetica della fotografia e sulle potenzialità del linguaggio fotografico stesso, come nel caso di autori dell’Estremo Oriente, degli Stati Uniti e dell’Europa.
Un’altra chiave di lettura della collezione passa attraverso l’analisi dei generi che vi sono rappresentati – il ritratto, il paesaggio, il reportage – approdando a soluzioni artistiche variegate, che vanno dalla fotografia tradizionale all’installazione, al video.
Il percorso espositivo comprenderà anche le opere di cinque artisti italiani under 40, selezionati attraverso un bando open call promosso da Fondazione Fotografia: Leonardo Cannistrà (Catanzaro, 1989), Irene Fenara (Bologna, 1990), Gianni Ferrero Merlino (Torino 1976), Guido Nosari (Trescore Balneario BG, 1984) e Marco Tagliafico (Alessandria, 1985).
Gli artisti affrontano nelle loro opere il tema del controverso rapporto tra giovani generazioni e potere, mostrando il dilemma tra necessità di lasciare il proprio paese in cerca di condizioni migliori e desiderio di restare, così come le contraddizioni della politica, dalla quale non si sentono rappresentati, e più in generale, la crisi di ogni autorità riconosciuta, anche dal punto di vista artistico. Questo focus su giovani autori, intitolato “Essere Politico”, rispecchia una delle principali vocazioni assunte da Fondazione Fotografia dal 2007 a oggi: la formazione e la promozione di nuovi talenti, espressa principalmente nel master sull’immagine contemporanea. Un percorso biennale, che s’ispira all’omologo modello anglosassone ed è giunto alla settima edizione, rappresentando un punto di riferimento unico in Italia per quanti intendano intraprendere una carriera da artisti nel campo dell’immagine.

Concludo con il pensiero di un grande artista dell’immagine.
Henri Cartier-Bresson: “Le fotografie possono raggiungere l'eternità attraverso il momento”.

Ufficio Stampa e Comunicazione
Cecilia Lazzeretti
tel. 059 – 23 98 88; cell. 338 - 85 96 174
press@fondazionefotografia.org

Fondazione Fotografia
“10 years old”
Modena, Foro Boario,
Via Bono da Nonantola 2
Info: 059 – 22 44 18
biglietteria@fondazionefotografia.org
Fino al 30 aprile 2017


FUOCOfuochino 4


Si definisce “la più povera casa editrice del mondo”, o meglio: così la definisce il suo fondatore, l’artista patafisico Afro Somenzari.
Nata nel 2009, pubblica miniedizioni di racconti brevissimi, aforismi, riflessioni umbratili e volatili. Tra gli autori, troviamo firme che vanno da Gianni Celati ad Andrea Cortellessa, da Pupi Avati a Lamberto Pignotti, da Roberto Freak Antoni a Valerio Magrelli, da Maurizio Maggiani a Ugo Nepolo, e a tanti tanti altri.
Anche quest’anno – come nelle precedenti tre edizioni – è stata pubblicata da Corraini una raccolta di quanto stampato più recentemente da FUOCOfuochino.
Il volume si avvale della prefazione di Elena Pontiggia e tavole di Giuliano Della Casa.

Dalla prefazione.
La casa editrice Fuocofuochino si definisce “la più povera del mondo”, ma in tempi di penuria generale bisognerà trovare un aggettivo più qualificativo. Noi proporremmo appunto “libera”: una parola a rischio di retorica, come insegna il poeta, eppure non inadatta a questo piccolo, mantovano centro del mondo, che si è liberato ab initio dalla zavorra delle monete d’oro (fossero pure quelle di Pinocchio, seppellite nel Campo dei Miracoli) e ha proseguito per una sua strada poco battuta.
Fuocofuochino, del resto, è un nome beneaugurante. Nella sua prima parte allude a un bersaglio centrato, a una meta raggiunta. Subito dopo però si corregge e, con quel diminutivo, ci ricorda che nessuna meta è raggiungibile. Quanto al bersaglio, il genio – si sa – non è chi lo colpisce, ma chi ne scopre uno che noi non avevamo visto. […] Fuocofuochino è nata in provincia, sia pure in terre di nobile ascendenza gonzaghesca che – come si legge in tutte le guide turistiche – risalgono addirittura alla gens romana di Vitellio. Ora, “provincia” deriva dal latino “pro-victa”, conquistata prima. Eppure se, come diceva Eschilo, Atena (vale a dire l’intelligenza) “diserta il campo dei vincitori”, crescere in una terra victa ha i suoi punti di forza. (Il provincialismo, invece, è una dimensione della mente e non ha nulla a che fare con la geografia. Si può essere provinciali a Manhattan e non esserlo a Rio Bo). Questa nuova raccolta ha qualcosa che la accomuna alle tre precedenti. Il lettore non troverà neanche qui frasi fatte o espressioni di circostanza. Troverà un’attenzione anfibia ad autori conosciuti e a poeti senza cattedra (lontani però dalla retorica dell’escluso, più simpatica della prosopopea dell’incluso ma ugualmente perniciosa). Vi troverà, ancora, un filo di follia dadaista, che del resto ha avuto a Mantova una delle sue capitali: una follia vera, non la follia acclamata, che è più conformista della razionalità accademica. Troverà poi altre cose che non ci permettiamo di anticipare, anche per non trattenere chi ha in mano il libro e impedirgli, girando pagina, di incominciare la lettura. Con l’augurio che la serie, di cui esce ora il numero 4, prosegua fino al numero un milione: numero che fa pensare al signor Bonaventura, ma fa anche pensare alle stelle
.

E il fondatore (o proprietario oppure tenutario, fate voi) quale bilancio ha tratto, quale immagine si è fatta (o disfatta), a conti non fatti, di questi otto anni di lavoro letterario?
Leggete appresso e lo saprete.

Dal 2009 FUOCOfuochino viaggia alla velocità del buio, va dove vuole lui in forma anestetica, adibito a rimodellare, ove possibile, la cellulite cerebrale, come la definiva Brunella Eruli, è un cerotto sulle ferite intellettuali, una foglia di acero per nidificare sulle vie poco battute della carriola di tua nonna. Andare a Patrasso è il minimo che si possa consigliare. Chi non lo vuole lo avrà, resisterà fino all’ossobuco, non verserà una lacrima per i sopravvissuti. FUOCOfuochino è una accozzaglia di sognatori, una nuvola leggera, un oggetto di cui si può fare senza, è un cannibale vegetariano, un pugile privo di anelli, è una storia a lieto fine. FUOCOfuochino non è in linea, non ne mangia di quel pane, non è un gregge, non puzza, non ha bandiera, è giù dal treno, è affamato, è solo, ha buon profumo, è silenzioso. Se lo lasciate stare, si accenderà, se lo provocate, si spegnerà come una candela di nostra creazione.


Tutti i nemici del procuratore (1)


In Italia, dal 1969 ad oggi, sono stati ammazzati una trentina di giudici.
Sono caduti sotto i colpi delle Br e dei Nar, di Prima Linea e di Ordine Nuovo, della mafia e della ‘nrangheta.
Eppure, tempo fa, precisamente il 4 settembre del 2003, così un tale che definiva la Magistratura “un insieme di toghe rosse” disse dei giudici italiani: Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana. Uno alticcio in un bar notturno? Macché, lo disse in una cerimonia pubblica un Presidente del Consiglio. Toghe rosse sì, perché “toghe rosso sangue” per citare un titolo di Paride Leporace.

Fra i magistrati assassinati, ci fu uno che cadde il 26 giugno 1983 a Torino, davanti al numero 15 di Via Sommacampagna, la strada dove abitava, colpito da molte pistolettate esplose da due giovan giunti lì su una 128.
Il suo nome: Bruno Caccia. Dopo cinque mesi avrebbe compiuto sessantasei anni.
Cominciarono le indagini. Dapprima orientate negli ambienti del brigatismo perché quel giudice aveva condotto inchieste sulle Br poi sui neofascisti dei Nar, infine, in seguito a soffiate si capì che a sparare era stata la ‘ndrangheta.
E qui comincia un balletto di rtardi, oscurità, doppiezze, splendidamente percorse in un libro pubblicato da Laterza http://www.laterza.it intitolato Tutti i nemici del procuratore L’omicidio di Bruno Caccia.
Ne è autrice Paola Bellone.
Titolo di avvocato nel cassetto, è vice procuratore onorario a Torino dal 2002.
Ha collaborato con l’agenzia editoriale “la Vespina”, come redattrice del “Foglio dei Fogli”.
Ha firmato articoli on-line sul precariato nella giustizia sia per “Possibile” sia per “Questione Giustizia”; biografie dei malavitosi pubblicate nel Catalogo dei viventi 2009 di Giorgio Dell’Arti - Massimo Parrini (Marsilio); è intervenuta sul sito www.cinquantamila.it ; è coautrice di Precari (fuori)legge. Ogni giorno in tribunale http://www.roundrobineditrice.it/rred/scheda.aspx?bk=9788895731667 (Round Robin 2013).

Il libro ha ottenuto un’accoglienza calorosa di pubblico e di critica alla quale mi unisco entusiasta, ma con un distinguo sia pure da eccellenti firme che hanno lodato il volume. Alcuni, infatti, credendo forse di elogiare quelle pagne le hanno definite “romanzo” mentre da quel genere letterario, in questo titolo, Bellone è lontanissima.
Si tratta, infatti, di un’inchiesta serratissima affidata a documenti e testimonianze con lampi di riflessioni che per la loro durezza fanno pensare semmai al pamphlet. Il tutto è affidato a una scrittura scattante che tiene il lettore – come mi è capitato – incollato allo scritto perché le scansioni degli avvenimenti sono incise con un ritmo incalzante.
Un libro perciò che ha due meriti, da una parte illuminare un episodio di vita e malavita italiane con angoli tenebrosi nelle istituzioni e dall’altro di farsi leggere in modo scorrevolissimo pur attraversando incroci e intrighi di rete a fitte magle.

Dalla presentazione editoriale.
“Bruno Caccia fu ucciso dalla ’ndrangheta, senza alcun dubbio. Ma nell’anomala vicenda dell’unico omicidio di un magistrato commesso da un’associazione mafiosa nel Nord Italia rimangono molte ombre. Come sancì la seconda sentenza di appello per il delitto, infatti, e come confermò la Cassazione, il Procuratore fu ucciso in quanto «ostacolava la disponibilità altrui», cioè la disponibilità di altri magistrati verso i malavitosi. Esistono dunque, al di là degli esiti processuali, ben più ampie responsabilità che spiegano anche l’oblio a cui la vicenda è stata destinata.
Il libro passa in rassegna le inchieste aperte da Caccia e prende in esame documenti inediti e nuove testimonianze. Quello che emerge è una fitta trama di relazioni pericolose tra alcuni magistrati, alcuni esponenti della criminalità organizzata e gli indagati nelle inchieste ‘scandalo’, che in quel terribile 1983 coinvolgevano esponenti delle istituzioni, Guardia di Finanza, massoni.
La magistratura nel suo insieme ha avuto in questa vicenda – secondo l'autrice – responsabilità gravissime. È arrivato il momento di riconoscerle”.

Segue ora un incontro con Paola Bellone.


Tutti i nemici del Procuratore (2)

A Paola Bellone (in foto), ho rivolto alcune domande.
Che cosa in particolare ha determinato la scelta di dedicare all’omicidio di Caccia questo libro?

Devo partire proprio dall’anno in cui fu ucciso Bruno Caccia. Nell’83 avevo 10 anni e la mia mamma non mi faceva andare ai “giardinetti” perché all’epoca, sotto casa nostra (vicino a Fiat Mirafiori), avevano ammazzato a colpi di pistola due uomini, uno proprio nel bar dove andavo a prendere il ghiacciolo alla menta. I “giardinetti”, in realtà, erano un’isola di cemento all’incrocio di due corsi, con un’altalena e uno scivolo in mezzo, che di verde aveva solo le panchine. A casa sentivo i miei genitori che commentavano gli articoli di cronaca della “Stampa” dicendo che i killer erano “i calabresi” (si trattava di omicidi di ‘ndrangheta, ma allora gli organi di informazione parlavano di “omicidi dei calabresi”, come se tutti i Calabresi fossero malavitosi – per fortuna di lì a breve, nei primi processi contro la criminalità organizzata di origine calabrese, la magistratura torinese rese giustizia ai Calabresi per bene, chiamando i criminali col loro nome, ‘ndranghetisti, tra cui, per altro, militavano anche piemontesi, seppure non iniziati ritualmente nell’organizzazione).
Cinque anni fa ho letto la sentenza per l’omicidio di Bruno Caccia, e mi sono ricordata i giardini di cemento, perché la sentenza parlava anche degli omicidi di ‘ndrangheta che mi avevano tenuta lontana dai giochi all’aperto. La prima risposta alla tua domanda è questa: i giardinetti sono stati un luogo della mia infanzia, dove «accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico», per citare Cesare Pavese. Ma la scelta è stata dettata anche da una motivazione più razionale. La sentenza raccontava una storia importante completamente ignorata: il primo omicidio di un magistrato nel Nord Italia commesso da un’organizzazione criminale mafiosa, l’unico omicidio di ‘ndrangheta, accertato per via giudiziaria, commesso dalla ‘ndrangheta, e lasciava senza risposta tante domande sul possibile coinvolgimento di altri nella deliberazione dell’omicidio. Inoltre aveva un vero e proprio plot, che meritava di essere condiviso con un pubblico più ampio rispetto ai lettori di una sentenza (la storia delle indagini che hanno portato al responsabile dell’organizzazione dell’omicidio, le “relazioni pericolose” tra alcuni magistrati e i malavitosi…). È stato un lavoro molto tormentato e nei momenti più difficili ho trovato la vera fonte di determinazione a portarlo a compimento: il dovere di riportare alla memoria Bruno Caccia, che deve essere un esempio civico per tutti.

Quale lo scenario sociale di Torino nel periodo intorno al 1983, anno dell’uccisione del giudice?

Lo scenario sociale era quello tipico delle grandi città industriali dell’epoca. La peculiarità di Torino era lo scenario criminale. All’epoca operavano in città due gruppi criminali. Quello dei Catanesi (mafiosi che non hanno niente a che vedere con Cosa Nostra) e quello dei Calabresi, che invece di farsi la guerra, si spartirono i traffici e arrivarono a una sorta di alleanza sancita dal cosiddetto “scambio di favori”. La città usciva dall’emergenza terrorismo (pensiamo che Patrizio Peci fu proprio arrestato a Torino e la sua collaborazione portò allo smantellamento dell’organizzazione). Ma era insanguinata da omicidi che ricordano la Chicago degli anni ’30. Quando morì Bruno Caccia ci fu un tentativo di depistaggio che portava alle BR. Invece poi si scoprì che la pista giusta conduceva al gruppo dei Calabresi. Sebbene le indagini per l’omicidio spettassero agli inquirenti di Milano, bisogna ricordare che l’offensiva portata avanti dai magistrati torinesi a questi due gruppi criminali contribuì in modo decisivo a individuare i veri responsabili. Nel libro descrivo il contesto storico (nazionale) in cui l’omicidio fu commesso, a partire dalle elezioni politiche in corso il giorno del delitto, che portarono al primo governo socialista.

Il tuo libro contiene una dura accusa anche a parte della Magistratura denunciando giudici corrotti o troppo distratti. Quali misure sarebbe opportuno adottare per rendere l’ambiente dei Magistrati libero da soggetti malfidati?

Come ho scritto nel libro l’indipendenza dei magistrati è un bene del popolo, non un privilegio dei magistrati. Non credo affatto, perciò, che si debba ridurre la loro indipendenza. Sarebbe un rimedio peggiore del male. Credo che essa debba essere custodita con massimo rigore. I fatti che ho raccontato rivelano, infatti, che alcuni giudici non furono indipendenti nell’esercizio delle loro funzioni. Il problema è che il CSM non li sanzionò adeguatamente. Più che introdurre una misura specifica, credo, banalmente, che “se ne debba parlare”. Certi temi non devono essere, cioè, un tabù e devono essere sottoposti al controllo dell’opinione pubblica. Credo che si tratti di un tema in qualche modo collegato con l’indipendenza dei giornalisti. Tutto si tiene.

Alla luce delle più recenti indagini, si arriverà mai a una sentenza che faccia luce sull’assassinio di Bruno Caccia?

Immagino che ti riferisci, oltre che al processo in corso a Milano (nei confronti di Rocco Schirripa), alle dichiarazioni rese recentemente dal collaboratore di giustizia che accusa un uomo di Prima Linea di avere partecipato all’esecuzione dell’omicidio?

Sì, esattamente

Dico una cosa banale: la verità processuale spesso è parziale, perché i processi si svolgono secondo regole probatorie ferree. Non significa che non bisogna avere fiducia nella giustizia. Ma esiste anche l’indagine storica e a distanza di tanti anni molti fatti diventano compito degli storici più che dei magistrati. Rimane la speranza che chi sia a conoscenza diretta dei fatti, riveli ciò che sa. Spero anche che il libro serva a fare conoscere le circostanze che ho raccontato anche a persone non coinvolte nella vicenda, in grado di collegarle con altri fatti che non emergono nella mia narrazione. Penso, per esempio, all’ultimo capitolo, in cui ho riportato le dichiarazioni rese da Gino Ilardo, il mafioso siciliano ucciso a un passo dalla formalizzazione della sua scelta di collaborare con la giustizia. Il caso dell’omicidio di Bruno Caccia, benché inspiegabilmente ridotto, finora, a vicenda torinese, deve essere affrontato con un respiro più ampio, che tenga conto del contesto storico in cui il delitto fu commesso. Nel libro cito le minacce rivolte da un criminale dell’epoca al direttore del centro clinico del carcere torinese in cui si svolge parte dei fatti che racconto: lo avvertiva, in sostanza, che nella vicenda era coinvolta «mezza Roma». Queste parole mi hanno fatto riflettere molto.

Paola Bellone
Tutti i nemici del procuratore
Pagine 228, Euro 20.00
Laterza


Fontana allo Studio Varroni

Questo sito, come sanno quei generosi che leggono le mie note, non si occupa di narrativa d’oggi e di poesia. Un’eccezione la faccio per quei lavori che s’avvalgono di plurali strumenti espressivi, oppure di operazioni particolari sulla scia dell’Oulipo, come quando – e l’occasione mi è propizia per farlo ancora – anni fa ho segnalato Vincenzo Mazzitelli.
Fra quelli che, invece, usano l’intercodice, considero di primo piano il lavoro di Giovanni Fontana.
Poliartista, performer, tra gli autori storici della poesia visiva e sonora.
Negli anni Settanta inizia la sua collaborazione con Adriano Spatola, che gli pubblica “Radio/Dramma” (Geiger, 1977), testo che si pone tra poesia verbo-visiva, scrittura paramusicale, fonetismo, partitura d’azione, libro d’artista. Nel 1978 entra nella redazione di “Tam Tam” e inizia a frequentare i territori della sperimentazione poetica internazionale stringendo rapporti di collaborazione con i più significativi esponenti: da Dick Higgins a John Giorno, da Henri Chopin a Bernard Heidsieck, da Julien Blaine a Jean-Jacques Lebel. Nel 1979 costituisce con Arrigo Lora Totino, Adriano Spatola, Giulia Niccolai, Milli Graffi e altri poeti sonori italiani il gruppo “Il Dolce Stil Suono”.
Seguono tante produzioni che potete trovare elencate sul suo sito web.


Tempo fa, presentai su queste pagine la sua opera intermediale “Déchets” (Dernier Télégramme, 2014) e ricordo che è autore di “romanzi sonori”, tra i quali “Tarocco Meccanico” (Altri Termini, 1990) e “Chorus” (Manni, 2000); in Irlanda è stato pubblicato il testo verbo-visivo “Wasted time” (Redfoxpress, 2011).
Traggo dall’Introduzione di Serge Pey a “Déchets” alcune righe assai sagaci su Fontana: …poeta sonoro, è sicuramente uno dei poeti della lingua italiana sovvertita, ma anche un trasmettitore di senso. In perlustrazione nel mondo, la sua poesia è una dialettica tra lentezza e velocità, guerra e pace, armonia e disarmonia […] La sonorità suggerita dal testo, con i suoi caratteri, corpi e stili tipografici, è sicuramente quella riferita ad una vocalità che segna accenti e melodie come in una partitura.

Una sua mostra è in corso allo Studio Varroni / Eos Libri d’Artista che così la presenta in un comunicato stampa.
In questa piccola antologica l’autore presenta il suo multiforme lavoro di ricerca, svolto con passione, nelle diverse modalità di sperimentazione che lo contraddistinguono. Sono esposti libri d’artista e opere su carta, oltre ad una notevole documentazione di libri di poesia, di narrativa, di saggi e riviste, che testimoniano parte della sua produzione editoriale. Sono inoltre documentate alcune delle numerose performance.
Possiamo definire Giovanni Fontana un poeta della voce e del corpo, maestro di intermedialità e cultore di sinestesie. Molteplici sono gli aspetti che confermano i diversi linguaggi da lui sperimentati, in un flusso continuo di esperienze legate alla vocalità e alla scrittura poetica sonora e visiva.
Verranno presentati per l’occasione una riedizione del libro d’artista “The last jump of the slacker poet” del 1997 e il primo numero di “RivistaFoglio”, dedicato alla sua poetica
.

A conclusione di questa nota, v'invito a vedere 3’00” di un suo recital.

Giovanni Fontana
one more jump
Studio Varroni / Eos Libri d’Artista
Via Saturnia 55, int. 2 (angolo P.zza Epiro) – Roma
Info: +39 06 8812298 - Cell. +39 3487347243 – info@eosedizioni.it
Fino al 14 aprile 2017


Alfabeta2

Giorni fa ho segnalato l’Associazione e rivista Alfabeta2 che si avvale della redazione composta da Nanni Balestrini, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa.
Adesso è stato aperto il “Cantiere di Alfabeta”, così annunciato dalla redazione.

Si tratta di un forum cui hanno accesso i soci dell'associazione Alfabeta. Studiato per una partecipazione attiva da computer, tablet o smartphone, ospiterà discussioni su temi che consideriamo cruciali (la prima, sui lavoratori "innamorati"e sulla "fabbrica felice", è già stata avviata, a cura di Lelio Demichelis) e materiali d'archivio - in particolare testi e numeri della prima serie di Alfabeta e contenuti di Alfabeta2 2010-2014 - che consideriamo strumenti preziosi per comprendere il presente. Ci auguriamo che sarete in tanti ad aderire all'associazione Alfabeta, perché il Cantiere si nutre del confronto fra una pluralità di voci. Vi aspettiamo!

A proposito di appuntamenti: il 21 marzo al Moby Dick di Roma l'associazione Alfabeta tiene il primo dei suoi seminari. Il titolo è “Fake news”: le ricadute politiche e sociali della falsa informazione.

Per entrare nel Cantiere, CLICCARE QUI.
Propongo ora un’intervista a Maria Teresa Carbone (in foto) apparsa sul blog dell’Agenzia Letteraria Sul Romanzo diretta da Morgan Palmas, e qui lo ringrazio del permesso che mi ha dato di pubblicarla.

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Morgan Palmas - Alfabeta2 ha da poco compiuto sei anni. Cos’è cambiato in questo periodo nel panorama dei blog e delle riviste letterarie?

Maria Teresa Carbone - Considerando l'impostazione di alfabeta2, forse – prima di parlare dei cambiamenti nel panorama dei blog e delle riviste letterarie – è il caso di chiedersi cosa è cambiato in questi anni in Italia e nel mondo. Quando è nata la nuova serie della storica Alfabeta, il clima politico e culturale del Paese era dominato dalla figura sempre vacillante ma apparentemente inossidabile di Berlusconi. Il clima era quindi al tempo stesso febbrile e stagnante, mentre in campo internazionale la recente elezione di Obama, le primavere arabe e i prodromi del movimento Occupy lasciavano presagire l'emergere di una nuova, più determinata e diffusa consapevolezza sociale. Oggi, sei anni dopo, la stella di Berlusconi sembra essersi definitivamente spenta ma – a dispetto degli annunci di rivoluzioni e rottamazioni – è difficile parlare di un vero cambiamento che non sia quello portato da una comprensibile e tuttavia disarticolatissima ribellione allo status quo. E dentro e fuori dall'Italia non solo molte speranze si sono rivelate infondate, ma l'opinione pubblica occidentale, di fronte ad accadimenti molto diversi fra loro, l'accentuarsi dei flussi migratori legati a guerre e catastrofi ambientali da un lato, diversi sanguinosi attacchi terroristici dall'altro, ha reagito chiudendosi in un ideale fortino assediato. In un contesto di questo tipo, mentre la forbice del divario economico continua ad allargarsi e le concentrazioni editoriali sono sempre più massicce, non c'è da stupirsi che la maggior parte dei blog e delle riviste letterarie appaiano ancora più residuali di un tempo: in particolare, le pagine e gli inserti culturali dei grandi quotidiani tendono a nutrirsi prevalentemente dei materiali proposti dagli uffici stampa di case editrici e di festival, le riviste letterarie cartacee, quando riescono a sopravvivere, si dibattono nella maggior parte dei casi fra accademia e marginalità (o entrambe le cose). Infine, i blog: qui sicuramente il paesaggio è più ampio e più vivo, rispetto a qualche anno fa, anche se la qualità varia molto e in casi innumerevoli si parla dei testi con l'impostazione del “sentiment”, per usare una parola assai in voga. Insomma, e paradossalmente visto che viviamo in tempi che richiederebbero strumenti ben affinati, la cultura (non parliamo poi della letteratura) è considerata come qualcosa di laterale e di accessorio, per cui ci si chiede pensosamente – e penosamente – se serve e a cosa serve.

Il sottotitolo di Alfabeta2 recita «mensile di intervento culturale». Cosa intendete con “intervento culturale”?

A differenza della prima serie di Alfabeta, dove il sottotitolo parlava di “informazione culturale”, si è scelta la parola “intervento”, proprio per sottolineare la precisa volontà della rivista – riuscita o no, non sta a noi giudicare – di non restare a osservare il mondo di lato, ma di entrarci dentro attraverso libri, spettacoli, arte, e in generale attraverso uno sguardo critico che di cultura si alimenta, anche a costo (come ci è successo, come del resto succede nella vita) di non presentare posizioni univoche, di contraddirci. Ma con la convinzione che in questa società, molto bellicosa nel fondo, ma spaventata di fronte all'idea stessa di conflitto, confronti – e scontri – culturali siano indispensabili per uscire da una situazione dove l'ideologia dominante non è neanche vista come tale ma come l'unica normalità possibile.

Dal cartaceo al web con un vero e proprio blog. Ci può illustrare il percorso decisionale che vi ha spinto verso il web?

Fin dal suo inizio nel 2010 Alfabeta2 aveva dichiarato il preciso intento di vedere nel web un territorio non secondario per i suoi interventi. In realtà, come tuttora succede quasi sempre quando carta e digitale coesistono, la prima per diverso tempo è stata prevalente sul secondo. Abbiamo però deciso di sperimentare, in parallelo con il mensile, una formula quotidiana e allora abbastanza inusuale in Italia, un articolo giornaliero da far viaggiare per email. Quando poi, per ragioni economiche, è stato compiuto il passaggio alla rete questo alfapiù quotidiano è diventato la spina dorsale della rivista, a cui si è poi aggiunto il settimanale alfadomenica. E dall'anno scorso, con un movimento inverso a quello precedente, siamo tornati sulla carta con un almanacco annuale, che contiene una sezione monografica di testi inediti e un’antologia degli articoli usciti nel corso dell'anno. L'uscita dell'almanacco n. 2, è uscito a novembre 2016 e il tema della parte monografica è “L'invasione degli alieni”, dove per alieni si parla di tutti coloro che, provenendo dall'esterno, turbano il nostro modus vivendi.

Quale cambiamento di approccio ha comportato per Alfabeta2 questo nuovo mezzo?

Rispetto alla rivista mensile di carta, la cadenza di alfapiù, newsletter quotidiana in digitale, ha ovviamente un ritmo del tutto diverso: gli articoli sono – con alcune eccezioni – più brevi e si concentrano su un tema unico. Questo vuol dire che proponiamo molte recensioni, il che non ci dispiace affatto, visto che – come dicevo prima – analisi critiche e articolate di libri, film, mostre, spettacoli, sono oggi piuttosto rare. Ma non mancano ovviamente riflessioni e interventi su casi di attualità. E approfittiamo degli spazi “maggiorati” del sabato e della domenica per proporre anche testi lunghi, come – cito un solo esempio – l'intervista a Carlo Ginzburg – che ha riscosso un notevole successo, anche grazie ai numerosi rilanci sui social. Da questo punto di vista Alfabeta2 non vuole tirarsi indietro rispetto alle opportunità di incontro e di dibattito che offre la rete.

Cosa significa, oggi, produrre e proporre cultura? Quali potrebbero essere i vantaggi e i rischi del web?

Posto che si produce e si propone cultura di continuo e anche, se non soprattutto, inconsapevolmente, nel caso di una testata che si vuole di “intervento culturale”, penso sia necessario scegliere i propri temi evitando da un lato la subordinazione alla logica del trendismo, dall'altro l'asserragliamento in una versione contemporanea della torre d'avorio. E fondamentale è anche il modo in cui si parla di questi temi, senza esoterismi e senza approssimazioni. Secondo uno stereotipo consolidato, la fruizione dei materiali in rete è sempre rapida e di conseguenza superficiale. In realtà soprattutto negli ultimi anni una quantità di riviste online in tutto il mondo ha dimostrato che si tratta, appunto, di uno stereotipo e che il web – nelle sue infinite articolazioni – si presta anche a una discussione ragionata e approfondita.

Come può un blog letterario indipendente acquisire autorevolezza? E quali ritiene possano essere i criteri più adeguati a determinare l'autorevolezza di un blog?

Nel caso di Alfabeta2 partiamo in vantaggio, perché alle spalle abbiamo una rivista come Alfabeta, la prima e la seconda, che hanno avuto un ruolo non secondario nel dibattito culturale italiano. L'autorevolezza però va mantenuta, e non solo, va ridefinita costantemente. I criteri di una pubblicazione accademica non sono gli stessi di quelli di un blog culturale, ma la circolazione nel flusso magmatico della rete rende per certi versi ancora più importante la serietà con cui si trattano i temi di cui si parla. Mi trovo d'accordo con il luogo comune secondo cui su Internet bisogna “parlare come si mangia”, nella misura in cui credo che sia fondamentale nutrirsi con gusto e con discernimento.


E poi libri, e ancora libri

Settembre 1931. Spagna. Andalusia. Città di Fuente Vaqueros.
Lì, come in tutta la Spagna, si respira l’aria della libertà e della fiducia nel futuro perché il 14 aprile è stata proclamata la II Repubblica ponendo fine alla restaurazione borbonica.
In quella piccola città di Fuente Vaqueros, un uomo, proprio lì nato, legge un discorso per celebrare l’inaugurazione della Biblioteca locale .
Ha 33 anni, è un poeta e autore teatrale già allora noto.
Le opere che l’hanno reso tale sono “Libro de poemas” (composto fra il 1918 e il 1920) e, soprattutto “Romancero gitano” (1928); a Barcellona è andata in scena con grande successo la ballata popolare in versi "Mariana Pineda" (1927) con fondali disegnati da Dalí.
Quell’uomo si chiama Federico García Lorca.
Appartiene alla “Generazione del ‘27”, una costellazione di autori che si è fatta conoscere nel panorama culturale proprio spagnolo intorno al 1927.
Denominazione ideata da Dàmaso Alonso e sembra identificare una compatta schiera, ma in realtà, non fu un gruppo omogeneo perché in esso sono inclusi anche scrittori non troppo vicini tra loro nello loro scelte, e non soltanto espressive. Vi troviamo, ad esempio, laici e cattolici.
Lorca affermava: “Si è poeti per grazia di Dio o del Demonio”.

17 luglio 1936: sollevazione dell'esercito di stanza nelle colonie in Marocco .
Inizio del conflitto noto come Guerra di Spagna.
È il 52° golpe dal 1814.
Quella guerra finirà nel marzo 1939 con la vittoria dei nazionalisti guidati da Francisco Franco – governerà da dittatore per 36 anni – che mai l’avrebbe vinta senza il decisivo appoggio dell’aviazione di Hitler e delle truppe inviate da Mussolini, alla loro partenza benedette, come si vede nelle foto e filmati dell’epoca, da preti cattolici.

16 agosto 1936. García Lorca è arrestato dai franchisti.
19 agosto 1939. È l’alba. Una pattuglia guidata da Mariano Ajenjo Moreno porta il poeta su di una Buick a Viznar luogo dove sarà fucilato perché “perché di sinistra, omosessuale e massone”. Un plotone formato da sei soldati spara. È agli ordini del capitano Nestares, con la promessa di una promozione e di un compenso una tantum.
Il cadavere gettato in una tomba senza nome a Fuentegrande de Alfacar nei dintorni di Víznar, vicino a Granada. Il suo corpo mai è stato ritrovato.

Torniamo a quel settembre 1931, mentre Lorca sta pronunciando il discorso in occasione dell’inaugurazione della biblioteca di Fuente Vaquero, sua città natale.
Dobbiamo a Lucilio Santoni la pubblicazione, in italiano di quell’allocuzione.
Santoni è nato nel 1963. Lavora come operatore culturale e organizzatore di eventi letterari e teatrali. Suo libro recente è “Cristiani e anarchici”.
Scrive sull’Huffington Post.
Trovò il testo di cui qui si parla nella seconda metà degli anni ’80, durante un suo viaggio in Spagna, nella Casa Museo di Lorca che, come scrive nel Prologo, è “da sempre il mio poeta più amato”.
Quel discorso è un’esaltazione della cultura e dei libri come il principale strumento di trasmissione del sapere, del conoscersi, del comprendersi, perché … se avessi fame e mi trovassi in mezzo alla strada, non chiederei un pane, ma chiederei mezzo pane e un libro… quando Dostoevskij era prigioniero in Siberia, isolato dal mondo, chiuso fra quattro mura e circondato da pianure desolate coperte di neve senza fine, rivolgeva lettere accorate alla famiglia: «Mandatemi libri, molti libri, perché la mia anima non muoia!». Da qui il titolo, pubblicato dalla casa editrice Lindau: E poi libri, e ancora libri di quel discorso forse ingenuo, troppo speranzoso, considerando quanto di lì a poco sarebbe accaduto alla Spagna e a lui stesso. E anche pensando a quanto nei secoli era già successo in Europa e fuori del nostro continente.
Ma quell’ingenuità – ammesso che tale sia – è anche la testimonianza di ciò che per una creatura umana è forse doveroso sostenere affinché non ci si arrenda alla barbarie smettendo di sperare.
Quel discorso è l’occasione per Santoni di scrivere un saggio – che è gran parte del libro – chiedendosi dapprima come sia stato possibile per la Spagna (e non soltanto per la Spagna) un lungo “vuoto di pensiero, cultura e storia”, per poi interrogarsi sul valore della poesia in pagine ricche di sagaci citazioni di versi e pensieri.
E sul valore delle biblioteche che “è inutile edificare fisicamente se prima non le abbiamo costruite nell’anima”.

CLIC per una scheda editoriale.

Federico García Lorca
E poi libri, e ancora libri
A cura di Lucilio Santoni
Pagine 112, Euro12.00
Lindau


Numeri e forme (1)

Darwin diceva: “La matematica dota una persona di un nuovo senso”.
Eppure, sono in tanti ad arretrare atterriti di fonte alla matematica nonostante tutto ciò che ci circonda, e usiamo quotidianamente, sia fatto di numeri: dal bancomat al cellulare, dal navigatore satellitare alle macchine fotografiche digitali, dalle attrezzature mediche che analizzano il nostro corpo alle mail che ci scambiamo, dalla musica che ascoltiamo nei compact disk ai film che vediamo nei Dvd, dal computer ai videogiochi.
Del resto, come potrebbe essere diverso? Pitagora sostenne che la natura ultima della realtà fosse matematica, concetto che governa il pensiero scientifico contemporaneo e non solo contemporaneo. Secondo Aristotele, i pitagorici sostenevano che "il mondo intero fosse armonia e numero". Idea ripresa anche da Galileo Galilei nella sua frase: "Il libro della natura è scritto in lingua matematica". Cosa questa che stava per costargli cara. Non può certo fare piacere ai sacerdoti (specie se di religioni monoteiste) sentire simili cose, s’arrabbiano di brutto, e viene loro il mal di fegato.
La frequente ostilità verso la matematica, probabilmente, ha quando affrontiamo per la prima volta i numeri. Presentati, spesso, in maniera astratta tanto da finire con il diventare fantasmi che terrorizzano poi successive ore scolastiche.

Un eccellente libro, pubblicato dalla casa editrice Zanichelli, rappresenta una brillante guida per genitori e insegnanti affinché i numeri siano presenze amichevoli per la verde età e non fonte di fatica e paura.

Il volume è intitolato Numeri e forme Didattica della matematica con i bambini.
Ne è autrice Ana Millán Gasca professore associato di Matematiche complementari presso l’Università Roma Tre.
Tra i suoi libri: “Pensare in matematica” (con Giorgio Israel, Zanichelli 2012), “All’inizio fu lo scriba. Piccola storia della matematica come strumento di conoscenza” (Mimesis 2009), “Il mondo come gioco matematico. La vita e le idee di John von Neumann” (con Giorgio Israel, premio Peano, Bollati Boringhieri 2008); “Fabbriche, sistemi, organizzazioni. Storia dell’ingegneria industrial” (Springer 2005), “Euclides. La fuerza del razonamiento matemático” (Nivola 2004).

Dalla presentazione editoriale.

“Come insegnare bene la matematica ai bambini? Apprendere la matematica è una forzatura imposta dagli adulti? Le pagine di «Numeri e forme» rispondono a queste e a molte altre domande che insegnanti e genitori si pongono, facendo emergere che c’è una meravigliosa sintonia fra pensiero infantile e matematica. Fin dall’inizio della scolarizzazione, infatti, i bambini entrano in contatto con concetti genuinamente matematici che sono uno dei lasciti più straordinari della nostra tradizione culturale: i numeri naturali, le frazioni, i rapporti, i simboli, il punto, la retta, le figure. In «Numeri e forme» si trova l’applicazione alla prassi didattica dell’analisi del rapporto tra la geometria e l’intuizione del continuo da una parte e il concetto di numero dall’altra. L’autrice propone una selezione di chiavi pratiche per insegnare bene la matematica e delinea un percorso efficace per i bambini, dalla scuola dell’infanzia all’inizio della scuola secondaria di primo grado, che sia per ognuno opportunità di scoperta, esperienza gioiosa, occasione di mettersi alla prova con impegno, allenamento all’osservazione e all’indagine, addestramento alla concentrazione.
All’indirizzo online.universita.zanichelli.it/millangasca saranno resi disponibili nel tempo esercizi e approfondimenti curati dall’autrice”.

Ho cominciato questa nota con un aforisma, la chiudo ricordando un episodio.
Un giorno il grande matematico David Hilbert notò che un certo studente aveva smesso di frequentare le sue lezioni.. Quando gli venne riferito che aveva deciso di abbandonare la matematica per diventare poeta, Hilbert rispose: “Ha fatto bene. Non aveva abbastanza immaginazione per fare il matematico”.

Segue ora un incontro con Ana Millán Gasca.


Numeri e forme (2)

Ad Ana Millán Gasca (in foto) ho rivolto alcune domande
È vero o non è vero che esiste una predisposizione ad imparare la matematica?

Una visione umanistica richiede di capovolgere il punto di vista: imparare la matematica, come la grammatica o la musica, “forma” l'essere umano. Questa è la grande lezione della paideia greca, che l'Europa ha recuperato alla modernità grazie all'Umanesimo. Platone scrive che la matematica “sveglia chi per natura e sonnolento e tardo d'intelletto”: la matematica sveglia l'umanità dell'essere umano. Quell'umanità si manifesta nel bambino molto piccolo, che – accanto a chi lo accoglie e lo cura – impara a parlare; che cerca e raccoglie, impila; che ama muoversi e tracciare sul foglio. Tutti quindi – in tanti hanno contribuito a renderlo possibile nel mondo di oggi – possono imparare la matematica.
Esiste invece una predisposizione, questo sì, che porta alcune persone a interessarsi per la matematica sempre di più, addentrandosi in essa, facendola diventare il proprio mondo professionale o di studio; come succede per la musica, o per il linguaggio: infatti, si richiede un qualcosa in più per diventare musicista o compositore, scrittore o giornalista.

Nel presentare la matematica ai bambini, qual è la prima cosa da evitare e quale la prima da fare?

La prima cosa da evitare è spegnere la loro curiosità per numeri e forme mettendoli a sedere e a scrivere cifre (e subito dopo conticini in colonna).
La prima cosa da fare è contare ad alta voce mentre si cammina o si apparecchia o si mettono le arance nel frigo, e nel contempo far afferrare l'arancia al bambino e sentire la sua forma regolare, disporre con lui (o lei) gli oggetti in tavola osservando e toccando le forme che qualcuno ha immaginato per essere belle e funzionali.

Come giudica nell’apprendimento della matematica l’uso dei nuovi strumenti che i nativi digitali sanno usare assai spesso meglio degli adulti?

Rispondere a questa domanda richiederebbe un lungo discorso: basti leggere il dialogo su questi temi fra Paul Ricoeur e Pierre Changeux - mi riferisco a “La natura e la regola. Alle radici del pensiero”, pubblicato da Raffaello Cortina nel 1999 – per avere un'idea della sua complessità.
Cerco allora di rispondere con una idea cruciale: non sono gli strumenti digitali che fanno imparare la matematica, ma è imparare la matematica che prepara a padroneggiare, sfruttare e far avanzare il mondo digitale.
Ciò non esclude l'uso di software o schermi come uno, mai l'unico, strumento che può essere usato per apprendere. Attenzione però, perché come ha giustamente detto Eduardo Saénz de Cabezón, la loro efficacia dipende ‘soprattutto’ dall'impatto emotivo che hanno sui ragazzi.

Qual è la dote da possedere per sapere insegnare?

Per sapere insegnare bisogna avere l'interesse specifico per raccontare ad altri ciò che si è saputo o scoperto. Fra coloro che hanno scoperto nuove frontiere come esploratori, non tutti hanno testimoniato o narrato. Bisogna anche avere interesse per le domande semplici delle persone più giovani o di chi ancora non sa. Bisogna volere impiegare il proprio tempo per trovare le parole, le immagini, che rendono semplice ciò che è stato frutto di lunghe e faticose ricerche: e questo impegno è forse maggiore per la matematica e per la scienza moderna più che per ogni altro sapere. Non tutti vogliono o riescono a farlo. In Italia si sono avuti grandi narratori della scienza, a cominciare da Galileo. Luigi Cremona, alla fine dell'Ottocento, ha scritto la sua sofferenza nell'interrompere la sua ricerca entusiasmante da geometra per rispondere al suo dovere “civile” di avvicinare la matematica a tutti esponendo in modo efficace idee nuove che potevano servire in molte professioni. E cent'anni fa, Tullio Levi Civita, uno studioso italiano capace di padroneggiare ogni settore della fisica (celebre il suo contributo alla relatività, ammirato da Einstein), anno dopo anno ha riscritto e ripensato le sue lezioni universitarie, per trovare le parole giuste, i simboli più chiari, l'ordine più appropriato dell'esposizione: è una testimonianza di virtù nel senso più alto.

Nell’Introduzione lei scrive che “Numeri e forme” è una continuazione del precedente “Pensare in matematica” scritto con Giorgio Israel, sempre per Zanichelli. Quale la differenza fra I due volumi?

Entrambi i libri sono nati dall'esigenza di avere volumi in italiano per formare i futuri insegnanti della scuola primaria e dell'infanzia, i quali si abilitano in Italia all'università soltanto dal 1996 (prima bastava ottenere il diploma magistrale di scuola secondaria superiore). Il miglior bagaglio per introdurre i bambini alla matematica è proprio conoscere i concetti basilari della matematica da un punto di vista superiore: si tratta di avvicinarsi alla struttura delle teorie (le proprietà dei numeri e la geometria euclidea) anche avvalendosi dalle ricerche sulla storia della matematica – oggi sappiamo molte cose interessanti sulle origini della matematica, ed è un campo di ricerca in continuo avanzamento – e dalle riflessioni sulla natura della matematica stessa e sul suo significato antropologico. Quindi la matematica è il centro del libro “Pensare in matematica”. Per volontà molto determinata di mio marito Giorgio Israel, il libro va oltre la aritmetica elementare e la geometria, e include capitoli, sempre elementari, su molte altri parti della matematica, rivolgendosi così anche a un lettore interessato semplicemente a capire qualcosa su cos'è la matematica.

… e “Numeri e forme” ?

“Numeri e forme” si concentra invece sulla didattica della matematica con i bambini, derivata dalla visione della matematica da questo punto di vista ampio e moderno (quindi non come insieme di procedure di calcolo e qualche formula geometrica). Per fare questo parte anche qui dalla storia: da quanto tempo, come e perché si insegna la matematica elementare ai bambini? E perché garantire questo insegnamento a tutti? Come ha scritto Margaret Donaldson, quest'ultimo obiettivo è veramente una grande scommessa della cultura europea, oggi condivisa in ogni angolo del pianeta, eppure ciò non toglie che si tratti di un'ambizione che comporta grandi difficoltà.
“Numeri e forme”, inoltre, percorre il cammino di maturazione e sviluppo del bambino che cresce con la sua famiglia e andando a scuola: i capitoli seguono gli anni che passano, fino all'inizio della scuola media. Il lettore troverà molti temi trasversali (l'indice analitico aiuta in questo secondo tipo di lettura): l'intuizione geometrica come punto di forza nell'infanzia, come far vibrare la classe attraverso il dialogo, la risoluzione dei problemi trasformata da incubo in fonte di emozioni e di miglioramento di sé, l'equilibrio fra l'approccio filosofico-scientifico e quello retorico-espressivo nell'educazione della mente, la corporeità e la mimesis nella comprensione e nel modo di vedere il mondo dei bambini.

Ana Millán Gasca
Numeri e forme
Pagine 300, Euro 30.40
Zanichelli


Il Nullafacente


Sul non fare nulla hanno scritto in tanti, narratori, filosofi, scienziati.
Il fatto è che non esiste un solo modo di non fare, ma plurali motivazioni e maniere di realizzare quel progetto di esistenza.
Si va dall’angoscia di Kierkegaard alla serenità dello Zen.
Il non fare di Paul Lafargue è diverso da quello di Bertrand Russell, quello di Proust è differente da quello di Feynman e così via. Gli esempi sono un’infinità.
C’è poi un’ulteriore considerazione da non trascurare, avanzata anch’essa da molti: è possibile “non fare”?
Scelgo uno soltanto che si è posto questa domanda: William James, genio matematico vissuto nei primi del Novecento; secondo alcuni, uomo fra quelli con il più alto quoziente intellettivo nella storia. Così si è risposto: “Quando dobbiamo prendere una decisione e non la prendiamo, è in sé una decisione”.
Insomma, è pure difficile non fare. Perché diverse sono le cause che determinano questa condizione mentale e fisica. E diversi ancora i modi di praticarla.

Qual è quella descritta da Michele Santeramo nel suo testo Il Nullafacente?
Per saperlo bisogna assistere allo spettacolo in scena al Teatro Era Pontedera, in prima nazionale da domani.
Santeramo, è stato vincitore nel 2011 del premio Riccione per il Teatro con “Il Guaritore”. Nel 2012 scrive e produce con Teatro Minimo “Storia d’amore e di calcio”. Del 2013 è il testo “La prima cena”. Vince ancora nel 2013 il Premio Associazione Nazionale Critici di Teatro (ANCT). Pubblica nel 2014 il romanzo “La rivincita” edito da Baldini e Castoldi. Scrive nel 2014 “Alla Luce”. Riceve nel 2014 il premio Hystrio alla drammaturgia.
Conduce laboratori di scrittura teatrale.

La regìa dello spettacolo “Il Nullafacente” è di Roberto Bacci, suo nuovo lavoro dopo la bella esperienza del “Lear” dell’anno scorso, ospitato anche alle Olimpiadi del Teatro di Wroclaw, nell'ambito di Wroclaw Capitale Europea della Cultura 2016.
In scena, con l’autore: Michele Cipriani, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Tazio Torrini.
Musiche di Ares Tavolazzi.
L’immagine qui riprodotta è una delle belle foto di scena scattate da Guido Mencari.

Dal comunicato stampa.

“In un tempo che richiede presenza, prestanza, efficienza, lavoro, programmazione, qui il protagonista è uno, il Nullafacente (Michele Santeramo) che non fa niente. E non è facile perché anche il far niente ha bisogno di metodo, applicazione, pazienza, determinazione.
Ha una Moglie malata terminale (Silvia Pasello) e forse per fortuna, perché essendo incurabile, non bisogna far nulla per provare a guarirla. Sarebbero felici se il mondo attorno a loro li lasciasse in pace anziché accanirsi ognuno con le proprie regole e la propria morale. Il Fratello (Francesco Puleo), il Medico (Tazio Torrini), il Proprietario (Michele Cipriani) sono una sfaccettatura di quel mondo dal quale il Nullafacente ha deciso di star fuori, tipologie umane facilmente riconoscibili, che non sono necessariamente esempi negativi ma solo un altro modo di intendere la vita, opposto a quella del Nullafacente. Sua vera ispirazione è il dialogo con un bonsai: una pianta costretta ad una forma ma che in quella costrizione ha trovato la giusta capacità per essere bonsai. Al bonsai riconosce questo primato: l’aver compreso dove sia la vita dentro quella costrizione, dove sia la bellezza, dove sia il muoversi frenetico sia una pianta mette in moto ogni secondo, e dove sia la capacità di sembrare fermi, nonostante tutta quella vita.
Quel che il bonsai sa, il Nullafacente lo sta imparando, nella sua ricerca di risposte, accettando fino in fondo la sfida con se stesso di trovare maggiore consapevolezza e presenza, che lo portino a non perdere tempo, l’unico assoluto bene prezioso della vita. Perché è nella presenza nel tempo che risiede la felicità.
Il Nullafacente è come il bonsai: fa mille cose, reagisce, si oppone, lascia andare, ma lo fa in un modo diverso dagli altri, lo fa guardando, lo fa cercando dentro risposte che altrove non ci sono. Cos’altro c’è di più propriamente nostro se non il tempo che viviamo? Questo si chiede il Nullafacente. E quando il tempo è visibilmente vicino a terminare, non è forse più importante goderselo piuttosto che provare a distrarsi e a dimenticarlo? Al tempo è legato tutto il resto: il rapporto con i soldi, con la morte ma soprattutto con la vita, con l’amore sempre minacciato dall’assenza, con tutto”.

Scrivere questo testo - afferma Michele Santeramo - è stato ed è ancora, per me, il continuo e quotidiano riflettere su cosa sia giusto fare per stare bene. Ma il Nullafacente, un giorno, ha voluto correggermi e mi ha detto: caro mio - siamo ormai in confidenza -, tu sbagli domanda; quella giusta sarebbe: cosa, ogni giorno, NON devo fare, per stare bene?

In una società che guarda come ci vestiamo, come votiamo, come ci rapportiamo al contesto, il Nullafacente smette di essere guardato e si mette a guardare, cerca di capire cosa non fare.
Le scelte estreme del Nullafacente e la malattia terminale della moglie – scrive Roberto Bacci – li conducono fino all'ultima porta da attraversare, mano nella mano. Oltre quella porta c'è la natura di cui siamo fatti: la morte. C'è una parte di noi che si rifiuta di assistere a questa storia giudicandola assurda, pericolosa, tenebrosa. Eppure, se resistiamo nell'abitare quelle tenebre, si può scorgere una luce di cui, almeno una parte di noi, ha un necessario bisogno per "saper esistere".

Calendario Repliche
3/12 marzo, Teatro Era - Pontedera
30 marzo/2 aprile, Teatro Studio ‘Mila Pieralli’ - Scandicci
23/28 maggio, Teatro della Passioni - Modena
21/26 novembre, Arena del Sole, Sala Salmon - Bologna

Ufficio Stampa: Raffaella Ilari
mob. +39. 333 430 16 03; email: raffaella.ilari@gmail.com

Ufficio Comunicazione Fondazione Teatro della Toscana : Melanie Gliozzi
Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale
T. 0587.55720; mob. +39.328.9675843; email m.gliozzi@teatrodellatoscana.it

Info: Fondazione Teatro della Toscana - Centro Sperimentazione e Ricerca Teatrale
Parco Jerzy Grotowski – Via Indipendenza, Pontedera: tel. 0587.55720 / 5703


Benvenuti a Cervellopoli

Il cervello non è uguale per tutti, da qui il mio invito alla prudenza consigliando di usare per alcuni la parola ”testa” invece di “cervello”, così andate sul sicuro.
Pensate, ad esempio, a quelli che s'oppongono a una legge sull'eutanasia.
E così correttamente diremo di quel tale o quella tale: “Che cosa mai avrà nella testa?” e non “Che cosa mai avrà nel cervello?”, oppure “Chissà cosa avrà nella testa!” invece di “Chissà cosa avrà nel cervello!” e così via.
Andando su dati fisici, due cose che non troverete nel libro che sto per presentare: 1) il cervello umano, ha un peso medio di 1.330 grammi, è più voluminoso di quello di qualsiasi altro grande primate e più piccolo soltanto di quello degli elefanti, dei grandi delfini e delle balene; 2) Ha più di 100 miliardi di cellule; ciascuna connessa con almeno altre 20.000; probabilmente le combinazioni possibili sono più grandi del numero di molecole dell’universo conosciuto.

Una riflessione. Ogni organo del corpo umano, sia femminile sia maschile, ha uno specialista e uno solo che se ne occupa in quest’epoca della specializzazione che se da un lato presenta indiscutibili vantaggi, comporta pure la perdita di una visione olistica del nostro essere perché ciò che accade in un punto non è sempre diviso da quanto avviene in un altro. Si dà colpa di questa visione frammentata al progresso tecnologico, eppure sarà proprio da quel (da tanti) vituperato progresso che la medicina tornerà a essere olistica, quando, cioè, basterà un solo chip impiantato in noi per ottenere una visione d’insieme e senza neppure recarci dal medico o, allora più probabilmente, da un genetista.
Ma siamo nel 2017, e sorprende che ci sia un solo organo che vede applicate su di esso ben quattro professioni mediche!
Indagano, disputano, accolgono pazienti, infatti, quattro specialisti, in ordine alfabetico: il neurologo, lo psicanalista, lo psichiatra, lo psicologo.

Perché queste righe su quell’organo che tutti gli altri governa?
Perché Editoriale Scienza, proseguendo nella meritoria opera di divulgazione scientifica per la più verde età, ha pubblicato Benvenuti a Cervellopoli Ecco come funziona il cervello.

Autore del testo e delle illustrazioni a colori: Matteo Farinella.

Classe 1984, bolognese, si è dapprima laureato in biologia a Bologna e poi ha ottenuto la laurea specialistica in neurobiologia alla Sapienza di Roma. Dopo il dottorato in neuroscienze, conseguito all’University College di Londra nel 2013, ha deciso di coniugare le sue conoscenze con la passione per il disegno, per rendere la scienza accessibile a tutti. Oltre a collaborare a diversi progetti di ricerca, Matteo ha vinto una borsa di studio alla prestigiosa Columbia University di New York, per approfondire il legame tra arti visive e divulgazione scientifica, in particolare come queste possano influenzare la percezione della scienza da parte del pubblico.
“Benvenuti a Cervellopoli” è il suo primo libro per ragazzi. É anche autore di Neurocomic, graphic novel pubblicata da Rizzoli Lizard (2014).
QUI il suo sito web.

“Benvenuti a Cervellopoli” – consigliato dall’Editrice dai 9 anni in su – è un libro verbovisivo che traccia una mappa del cervello attraverso il viaggio che compie un neurone chiamato col nome di fantasia «Ramon».
Durante il viaggio dal talamo alla corteccia fino al cervelletto, all’amigdala e all’ippocampo, Ramon scopre le aree del cervello e a quale compito sono destinate.
Ci sono quelle che si occupano dei movimenti, altre delle emozioni, altre ancora della memoria.
Ogni temine è spiegato nella stessa pagina in cui compare la prima volta e alla fine del volume è raffigurato, in un’efficace immagine, il sistema nervoso centrale e periferico.

Matteo Farinella
Benvenuti a Cervellopoli
Pagine 44, Euro 14.90
Editoriale Scienza


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