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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Sulla danza (1)

Uno splendido saggio intitolato Sulla danza, edito da Cronopio, esplora quell’antica arte scenica in chiave filosofica come merita se è vero che il gesto danzante, ponendosi fra segno e significato, è “parola che passa attraverso il corpo” (copyright Carla Fracci).
Il libro è a cura del filosofo e co-fondatore di Cronopio Maurizio Zanardi; per un profilo delle sue origini culturali e delle motivazioni su cui fu fondata nel 1990 quell’editrice: CLIC!.
Il volume raccoglie scritti di Jean-Luc Nancy (Rühren, Berühren, Aufruhr); Romano Gasparotti (Saggezza del danzare); Nuria Sala Grau (Tempo-corpo-spazio: alchimia silenziosa); Flavio Ermini (La dimora del pensiero danzante); Maurizio Zanardi (Dal regno dei morti).
Il curatore precisa che si tratta di «una costellazione di scritti, non sempre consonanti, per aprire un campo ai pensieri provocati dalla danza, con l’intenzione di insistere in futuro nell’elaborazione teorica, ritornare alle questioni qui affermate, aggravarle, svilupparle, variarle».

Di fronte a un teatro che ha visto molti gruppi di ricerca arretrare tornando al teatro di parola (un solo esempio italiano fra i tanti: ricordate gli splendidi spettacoli dei “Magazzini Criminali”? Oggi Lombardi e Tiezzi sono lontani da quelle loro invenzioni), trovo che principalmente gli spettacoli di danza riescono ancora a trasmettere tensioni d’attualità. Naturalmente qualche sigla che fa cose sperimentali egregie c’è ancora; anche qui, per rapidità, faccio un solo esempio: La Fura dels Baus.
Non pochi credono che la danza sia ancora quella cosa in tutù, ignorando che accanto a quella scena di tradizione, da tempo – e con moto sempre più accelerato – la danza (dopo la pausa seguita alle esperienze delle avanguardie storiche) si è sviluppata scoprendo l’uso dell’hi-tech che ha dato nuove proposizioni espressive con la musica elettronica, la performance confinante con le arti visive, le sinestesie multimediali.
Si pensi a Romano Marini Dettina con “I Live You” con il pubblico che con delle bacchette luminose interagisce con i movimenti dei ballerini creando una coreografia colorata ripresa da una telecamera e proiettata all’istante su di un gigantesco schermo grazie a una raffinata tecnologia digitale.
Oppure alla rivisitazione di grandi opere alla luce dell’hip hop: il lago dei cigni di Ciaikovskij (nella versione “Swan Lake Reloaded”) rivissuto fra street dance e breaking dance del coreografo Frederick Rydman dove il perfido mago Rothbart, vestito di pelle nera, armato di iPad e smartphone, si muove con passi che ricordano il Michael Jackson del tenebroso video “Thriller”. O ancora – visto settimane fa a Reggio Emilia – Kader Attou, nome maiuscolo dell’hip hop d’oltralpe e il gruppo Accrorap (dal collaudato impegno politico), che in “The Roots” propone poesia attraverso cifre acrobatiche, vertigini acustiche e luministiche.

Insomma la danza propone oggi molti temi e «ha intensificato la sua presenza sulle scene e fuori di esse nelle trame dei discorsi più vari» – è detto nella presentazione editoriale di “Sulla danza” – «si tratta di comprendere che non solo la sua attrattiva ha qualcosa da insegnarci sul nostro tempo, sulla ricerca che lo agita -più o meno coscientemente- di nuove disposizioni spaziali, di nuovi gesti, ma anche che è la danza stessa a essere oggi in gioco, perché la promozione che la investe non necessariamente favorisce la natura dei suoi atti».

Mi piace concludere questa prima parte della riflessione su questo libro, con parole di Nietzsche: “Potrei credere solo a un Dio che sapesse danzare”.

Segue ora un incontro con Maurizio Zanardi.


Sulla danza (2)


A Maurizio Zanardi (in foto), ho rivolto alcun domande.
Che cosa si propone questa raccolta di saggi sulla danza da te curata?

Al di là di ogni intenzione, mi pare che di fatto il libro offra al lettore una collezione di pensieri, in forma di concetti o di meditazioni, che si sforzano di non pre-giudicare gli atti della danza, ma anzi di pensare «con» e «dalla» danza, grazie al suo “tocco”, per dirla con Jean-Luc Nancy. La danza ha la precedenza; è la condizione, senza concetto, dei concetti e delle meditazioni che vogliono favorirne la forza affermativa.

Come scrivi nell’Introduzione, “… negli ultimi anni la danza ha intensificato anche nel nostro paese la sua presenza sulle scene e fuori di esse”.
Faccio mia una tua domanda: che cosa significa questa promozione e accresciuta comunicazione della danza
?

Nell’introduzione scrivo che “promuovere” non significa necessariamente “favorire”. La promozione è sempre in qualche modo un’anticipazione, e così un’appropriazione, di ciò che viene promosso. Non solo promossa sulle scene, nell’audiovisivo, nel cinema, la danza viene continuamente nominata nei discorsi più vari. Per spiegare ciò che una musica, una messa in scena, una scrittura letteraria, un quadro mettono in opera, sempre più spesso si fa un qualche vago riferimento alla danza. Ho l’impressione che l’attrattiva della danza risponda alla catastrofe dei vecchi ordinamenti spaziali, che sia un sintomo dell’imporsi della questione, qui e ora, in loco, di nuove disposizioni spaziali, di gesti inediti, di cui non c’è sapere. Da questo punto di vista la “promozione” della danza significa riconoscere la necessità di nuovi gesti, ma nello stesso tempo tentare di controllarne, neutralizzarne o utilizzarne l’azzardo. Non è un caso che la chiamata in causa della danza sia nel nostro tempo per lo più povera di pensiero. Da questo punto di vista, la teoria, l’astrazione, al contrario di quello che pensano gli amanti del “concreto”, sono necessarie proprio per “favorire” la singolarità inclassificabile, enigmatica, della danza.

Fra i meriti di questa espressione scenica, oggi, nelle aree più avanzate, mi pare ci sia la creazione un intercodice praticando linguaggi che vanno da lente gestualità orientali fino a sfrenate movenze da videogiochi, passi di bharathanatyam su musica house… il tutto fra impaginazione da spot e spazialità da playstation… è identificabile oppure no un territorio da dove sono arrivati i contributi maggiori per numero e peso?

A questa domanda saprebbero rispondere molto meglio di me gli altri autori dei saggi, innanzitutto Nuria Sala Grau per la sua esperienza di danzatrice, coreografa, insegnante impegnata, come si leggerà, sulla soglia tra Oriente e Occidente, e Romano Gasparotti per la sua pratica giovanile del danzare, per la sua passione e studio mai spenti. Per quel che mi riguarda, non sono né uno storico della danza né un esperto di danza contemporanea, per quanto tenti di seguirne le vicende. La danza è una passione recente che mi impegna filosoficamente.
In ogni caso, credo che l’ibridazione sia un destino e che una ibridazione potente non consista in un ammasso di gesti, una sovrapposizione o semplice coesistenza di pratiche riconoscibili nella loro specificità e provenienza. Penso a un’ibridazione che distilli, che metta capo a gesti sobri, “sobrietà, sobrietà!” proponevano Deleuze e Guattari in “Millepiani”, così da ereditare le linee di fuga che attraversano i materiali culturali che vengono ibridati. Più che di sfrenatezza, abbiamo bisogno, nella “società eccitata” che controlla proprio attraverso l’obbligo dell’eccitazione, di un rinnovato rigore, di un severo passare al setaccio, di un paziente lavoro di sottrazione. Inoltre, c’è da affrontare l’immenso problema del rapporto tra il gesto effimero, fugace, perciò indimenticabile, della danza e la crescita, grazie all’audiovisivo, del suo archivio, della sua memoria.

Non solo performers quali Orlan, Stelarc, Stelios Arcadiou, Yann Marussich, usano il proprio corpo come esplorazione antropologica della fisicità. Penso, ad esempio, alla BioArts Gallery alla quale si riferiscono gli artisti biopunk – come Dale Hoyt che n’è capofila - che considerano le biotecnologie una nuova forma estrema di Body Art.
Come interpreti quest’interesse delle arti sceniche, presente anche nella danza, per una sorta di «neocorpo»
?

Pensando al rapporto tra Body Art e danza mi viene in mente Artaud quando scrive che il sangue, evocato nel suo teatro della crudeltà, va pensato come elettricità del corpo, piuttosto che come un liquido. Artaud voleva un corpo, lui che aveva subito gli elettrochoc, che si riappropriasse della forza lacerante delle scariche elettriche, delle irradiazioni e dei vuoti che lo attraversano. Credo che abbiamo lo stesso problema di Artaud, anche se in forme diverse: riappropriarci del vuoto e delle irradiazioni, quelle irradiazioni che invece, come accade nella società che obbliga all’eccitazione, ci fanno morti in vita, anestetizzati o dipendenti, proprio perché ci investono con un continuo bombardamento di choc. Abbiamo bisogno di un corpo danzante dissociato da se stesso, che ami i suoi vuoti, costituito da un insieme di battiti-irradiazioni senza scopo e, nello stesso tempo, sottratto ai paralizzanti choc sociali. La danza, quando c’è, se c’è, è sempre interruzione delle abitudini senso-motorie che costituiscono il corpo; è un’altra scrittura, come ci ricorda Flavio Ermini nel libro. Ma bisogna congedarsi dall’idea, come suggerisce giustamente Gasparotti nel suo saggio presente nel volume, che la danza sia, come si è soliti dire, l’arte del corpo. È il corpo che deve adeguarsi alla danza, al suo evento, al suo gesto, e non la danza al corpo.

Sulla danza
A cura di Maurizio Zanardi
Pagine 172, Euro14.00
Cronopio


Nessundove


Dal 30 aprile prenderà il via Nessundove Un progetto per riscoprire la città di Torino coinvolgendo quattro luoghi della città e altrettanti artisti.
Il progetto è ideato e realizzato da Davide Gambaretto.
Per un profilo di questo giovane curatore: CLIC!

I partecipanti attraverseranno il capoluogo, ogni domenica mattina, fino all’11 giugno incluso, seguendo le tappe di quattro luoghi disegnando un percorso di riscoperta della città, mescolando tradizione storica e contemporaneità: dalla Chiesa della Gran Madre di Dio a piazza Palazzo di Città, dalla stazione ferroviaria di Porta Susa alla “Hall of Fame” degli street artist in via Braccini.
Quattro gli artisti coinvolti: Fabio Vito LacertosaPaolo MorelliClelia RainoneWOC.
Ognuno dei quattro ha realizzato un contenuto multimediale che sarà fruibile attraverso i QR Code, utilizzando uno smartphone e delle cuffie. Ogni lavoro è strettamente legato al luogo scelto dall’artista, che ne rivisita le caratteristiche, raccontando una storia o abbinandovi suoni e immagini.

Nessundove continua un percorso incominciato con le mostre Boxes/Frames – dall’immagine all’Immaginario (ospitata a Barriera nel giugno 2016) e Is the Form Present? (Associazione Bunker, nel luglio dello stesso anno) - volto ad analizzare come il web abbia mutato la fruizione dei contenuti, artistici e non.
Un contenitore di ricerca che diviene, inoltre, studio per testare i limiti della “mostra”, in quanto momento espositivo di coinvolgimento pubblico.
A una prima fase (inaugurata nell'ottobre 2016 e durata circa un mese e mezzo) dove parte dei QR code sono stati distribuiti in modo che i visitatori potessero scoprirli autonomamente, sono seguiti (dal dicembre dello stesso anno) una serie di tour su invito, con lo scopo di raccontare il progetto. Una maniera per ampliare il momento curatoriale, inglobando gli spostamenti tra una stazione e l’altra, creando così dei talk in movimento. Dal 30 aprile queste visite guidate sono state aperte al pubblico.

L’obiettivo – dice Davide Gambaretto – è quello di creare un percorso di visita che unisca interventi artistici - che sfruttano le possibilità "delocalizzate" del digitale - a luoghi fisici e reali. Questa dualità permette di rivisitare angoli di Torino normalmente vissuti come luoghi di passaggio. È in questo modo che “Nessundove” analizza il rapporto tra web e fruizione dei contenuti, riflettendo su come sia mutata la nostra percezione dei concetti/oggetto in un mondo dove la quasi totalità delle informazioni passano attraverso gli smartphone. Lo fa forzandoci a ritrovare una dimensione personale e relazionale che non vuole essere in antitesi al mondo del web, ma complementare ad esso.

I tour sono gratuiti ma hanno un numero limitato di partecipanti. Per prenotarsi è necessario inviare un’email all'indirizzo nessundovetour@gmail.com, scegliendo tra le domeniche che vanno fino all'11 giugno (è comunque necessario inviare la propria richiesta di partecipazione almeno tre giorni prima della data prescelta).
Per la partecipazione è necessario munirsi di uno smartphone con un’app di lettura dei QR Code (come ad esempio i-Nigma Scanner o QR code Reader; app ideali sia per i dispositivi Android, sia per iPhone) e di un paio di cuffie.

Altre informazioni sul sito web di “Nessundove” e QUI un video di presentazione.


Anniversario della Liberazione

“La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c'è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline”.

Pier Paolo Pasolini, Il caos, 1979 (postumo).


In occasione dell’anniversario della Liberazione, mi sono giunti parecchi comunicati stampa riguardanti manifestazioni che si terranno domani in molte parti d’Italia.
Ringrazio i mittenti tutti.
Spero non sorprenda se la mia scelta per ricordare il 25 aprile del ’45 sia puntata su di una pubblicazione a fumetti – nata in un quartiere di Roma chiamato Tor Pignattara e dall’Associazione impegnata a studiare e animare quel territorio – che racconta le gesta di Giordano Sangalli, partigiano di quel quartiere, ucciso a 17 anni dai nazisti sul Monte Tancia.
Il 25 aprile è una di quelle date che va scolorendosi sulle pagine della Storia perché chi doveva vigilare su di essa perpetuandone i valori, ha rivolto la propria attenzione a cose assai diverse. Pochissimo o nulla facendo, per evitare che vent’anni di berlusconismo (e il recente triennio renziano non è stato da meno) ottundessero coscienze e slanci.
Ma è roba che viene da lontano.
La prima ferita inferta alla Resistenza fu l’amnistia per i repubblichini e le loro spie voluta da Togliatti, il 22 giugno ’46. Togliatti, che assumerà al suo Ministero Azzariti presidente del Tribunale della Razza che diventerà poi Presidente della Corte Costituzionale!
Quell’amnistia fu contestata sia da parte della base del Pci, sia dal fronte democratico non comunista che videro chiaramente il pericolo, puntualmente avveratosi, di una mancata defascistizzazione del Paese. Fu, infatti, seguita da quattro successive amnistie – varate da governi Dc – che allargarono ulteriormente i termini temporali e la casistica dei reati commessi dai fascisti.
Ora, il 25 aprile è ricordato da molti politici, da tanti anni, solo in quel giorno del calendario perché negli altri 364 hanno ben altro cui pensare come dimostrano le benvenute inchieste della Magistratura sulla corruzione.

Torniamo nelle vie di Tor Pignattara.
Non conosco nessuno di quanti nominerò, ho scelto loro perché hanno realizzato un’iniziativa autenticamente popolare, senza trombe e pennacchi.
Il fumetto di cui scrivevo in apertura, è stato realizzato - in occasione delle celebrazioni dei 90 anni di Tor Pignattara - da Nikolay Pavlyuchkov, un ragazzo di origine russa del quartiere, che ha partecipato al workshop Nuvole Resistenti curato dal fumettista Alessio Spataro per la Scuola Popolare proprio di Tor Pignattara.
Nikolay è stato selezionato fra i partecipanti e con l’aiuto di Spataro per la parte artistico narrativa e con la consulenza scientifica della storica Stefania Ficacci ha realizzato un breve racconto sugli eventi a cavallo della cosiddetta Pasqua di sangue del 1944, rendendo omaggio agli eroi “normali” che con il proprio sacrificio ci hanno consegnato un paese libero e democratico.

I proventi della vendita del fumetto saranno destinati alla copertura delle spese per la posa di nuove pietre d’inciampo per i partigiani di Tor Pignattara prevista per il 2018, alla realizzazione di una targa in memoria di Giordano Sangalli da apporre presso la sua casa natale e alla realizzazione del prossimo fumetto della serie “Nuvole Resistenti” dedicato alla storia partigiana del quartiere.

Alla fine del corso - racconta Alessio Spataro - dopo tanti disegni ed esercizi, volevamo regalare a Torpignattara una breve storia a fumetti ispirata al giovane Giordano Sangalli, che nel 1944 scelse di stare dalla parte giusta, quella di chi salvò delle vite dai rastrellamenti nemici dell’ultima fase della Seconda Guerra Mondiale (con le belve nazifasciste sempre più incarognite dalla ritirata), un piccolo contributo alla memoria storica del quartiere. Nikolay Pavlyuchkov ha disegnato e scritto “La battaglia”, incontrando non poche difficoltà di reperimento delle fonti. Ma non s’è accontentato del solo aiuto mio e di Stefania Ficacci. E non si è arreso.

Ufficio Stampa: Carlo Dutto; cell. 348 – 06 46 089; carlodutto@hotmail.it

Per informazioni: 90voltetorpigna@gmail.com


Game of Thrones (1)

“Il Trono di Spade” (Game of Thrones) è una serie televisiva statunitense di genere fantasy creata da David Benioff e D.B. Weiss. Ha debuttato il 17 aprile 2011 sul canale via cavo HBO. È nata come adattamento televisivo del ciclo di romanzi Cronache del ghiaccio e del fuoco dello scrittore statunitense .R. R. Martin.
La serie ha vinto 38 Premi Emmy su 106 nomination totali, diventando la serie televisiva più riconosciuta dall'Academy of Television Arts & Sciences.
A questa famosa opera tv, che conta moltissimi ammiratori in tanti paesi, due autrici hanno sagacemente curato per le edizioni Mimesis una raccolta di saggi intitolandola Game of Thrones Una mappa per immaginare mondi
Le due curatrici: Sara Martin e Valentina Re

Sara Martin è ricercatrice presso l’Università di Parma dove insegna Storia e critica del cinema. Ha conseguito nel 2010 il Dottorato in Cinema, musica e comunicazione all’Università degli Studi di Udine. Si occupa principalmente dei rapporti tra il cinema e le altre arti con attenzione ai linguaggi televisivi e dei nuovi media. Si concentra in particolare modo sullo studio della scenografia e del costume nel cinema e nella televisione. È caporedattore della rivista accademica «Cinergie. Il cinema e le altre arti». È autrice di Scenografia e Scenografi (2013), Gino Peressutti. L’architetto di Cinecittà (2013), Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Alex de la Iglesia (2015). Ha curato alcuni volumi, tra cui “La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo” (2014).

Valentina Re è professore associato presso l’Università degli Studi Link Campus University. Ha conseguito nel 2005 il Dottorato in Studi teatrali e cinematografici all’Università di Bologna, e dal 2009 al 2014 è stata ricercatrice presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Le sue attività di ricerca riguardano principalmente i rapporti tra teorie del cinema, teorie dei media, estetica e teoria letteraria, i rapporti tra cinema e altri linguaggi, le forme di distribuzione, circolazione e consumo dell’audiovisivo in ambiente digitale. Tra le sue pubblicazioni i volumi: “L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84” (con Alessando Cinquegrani, 2014); “Cominciare dalla fine. Studi su Genette e il cinema” (2012); “Visioni di altre visioni. Intertestualità e cinema” (con Giovanni Guagnelini, 2007); “Ai margini del film. Incipit e titoli di testa” (2006).

Il libro, dopo un’introduzione delle due curatrici, presenta i seguenti saggi.

- Le cronache del ghiaccio e del fuoco: elementi storici e suggestioni letterarie, di Valentina Bonaccorsi

- Game of Thrones e l'impatto sul territorio, di Stefano Baschiera

- L'anomalia emotiva di Game of Thrones: coinvolgimento del pubblico e design della narrazione, di Sara Casoli

- Gli abiti di Game of Thrones: mappe che svelano i personaggi, di Sara Martin

- Gli storyboard di Game of Thrones, di Nicola Stefani

- Le città visibili di Game of Thrones, di Elisa Poli

- Here Be Dragons: La mappa come soglia, racconto, creazione; di Marta Boni e Valentina Re.

Un’accurata scheda tecnica sulla serie e le biografie dei saggisti apparsi nelle pagine, concludono il volume.
Segue ora un incontro con Sara Martin e Valentina Re


Game of Thrones (2)


A Sara Martin e Valentina Re ho rivolto alcune domande.
Le sentirete rispondere con una voce sola; prodigi della tecnologia a bordo di Cosmotaxi.

Qual è la caratteristica che ha reso “Game of Thrones” un prodotto unico nel panorama seriale?

Pensiamo sia difficile individuare in un solo elemento ciò che ha reso “Game of Thrones” un racconto così amato e riconoscibile. Piuttosto, riteniamo che in gioco ci siano molteplici elementi. Proviamo qui a indicare un decalogo, per ragioni di spazio, perché di certo i motivi dell’unicità di questa serie non si fermano a dieci punti:
1- il fascino romantico del racconto di genere fantasy
2- una nota saga letteraria come matrice
3- una particolare e sapiente orchestrazione narrativa capace di giocare con le aspettative, di spiazzarci per poi gratificarci
4- la grande cura nella messa in scena delle sequenze ‘action’
5- la carica erotica dei personaggi
6- le ambientazioni spettacolari
7- i titoli di testa che introducono la collocazione geografica di ogni episodio
8- il motivo musicale della serie
9- un racconto irrimediabilmente spietato
10- la capacità di parlarci anche del nostro presente pur in maniera indiretta, attraverso la fitta rete di riferimenti storici rimaneggiati nella chiave del racconto fantastico.

Aldilà della discendenza diretta da Martin, (e da Tolkien, citato dallo stesso Martin) quali sono gli altri riferimenti dello scenario letterario nei quali rintracciate un’influenza su questa serie tv?

I riferimenti a epoche passate e a mondi letterari in “Game of Thrones” si sovrappongono, si stratificano uno sull’altro, generando un universo costellato di citazioni e richiami eterogenei, francamente più facilmente identificabili nelle vicende storiche del passato che in precise correnti letterarie. Per rispondere meglio a questa domanda non possiamo che usare le parole di Valentina Bonaccorsi, che all’interno del nostro libro ha scritto un saggio agli elementi storici e alle suggestioni letterarie nella serie: “Game of Thrones per la presenza di creature fantastiche ed eventi soprannaturali viene comunemente riconosciuta come saga fantasy, ma sarebbe fortemente riduttivo limitarne il genere attraverso questa definizione. Certo, la magia ha un ruolo importante, ma raramente prende il centro della scena, restando ambiguamente confinata in uno sfondo spesso sinistro. Non si tratta nemmeno di uno scontro tra schieramenti distinti di eroi buoni e antagonisti malvagi, tipico delle saghe fantasy più tradizionali: i personaggi creati dalla mente di George Martin sono tutti caratterizzati da una profondità tale da renderne impossibile una definizione stereotipata. Resta il fatto che Martin, come gran parte degli scrittori che si sono cimentati prima e dopo di lui con il genere, sia fortemente in debito con i precursori di questa letteratura (…). Il mondo creato da Martin non è il classico universo tolkieniano popolato da razze immaginarie – quali nani, elfi, orchi – bensì da semplici uomini, che agiscono in un mondo composto da elementi per lo più realistici. Se, intatti, Tolkien si basò prevalentemente sulla mitologia per creare il suo universo, Martin lavora rielaborando e riadattando numerosi eventi storici antichi e medievali. Tuttavia, mancano delle corrispondenze veramente marcate con determinate epoche o eventi del passato, per una precisa scelta stilistica e creativa dello stesso scrittore”.

Gli episodi di “Game of Thrones” sono stati realizzati da oltre 10 registi. In virtù di quale meccanismo sono tanto compatti stilisticamente da sembrare frutto di un solo autore?

Questo accade perché la figura di riferimento nel processo di costruzione di una serie tv, dall’ideazione, alla sceneggiatura, alla realizzazione, non è più il regista ma lo showrunner. Cos’è uno showrunner? È una figura nuova nella filiera produttiva della serialità televisiva. È colui che dirige l’orchestra della serie televisiva. Ha il controllo sulla scrittura – ovvero è il responsabile di quella che viene chiamata in termini tecnici “la Bibbia” di una serie. La Bibbia è un documento che indica al team di sceneggiatori il punto di arrivo di una serie e, a grandi linee, quali saranno le tappe intermedie. Sarà un team di sceneggiatori, poi, a sviluppare ogni singolo episodio. Lo showrunner inoltre guida il processo produttivo della serie, stabilisce le location, le tempistiche di messa in onda e prende le decisioni più importanti relativamente al casting degli attori. Non è più il regista, ma questa nuova figura professionale, capace di una visione d’insieme del prodotto audiovisivo, a garantire il successo di una serie. Nel caso di GoT, gli showrunner Db Weiss e David Benioff, sono i primi responsabili della coerenza e della buona riuscita di ogni stagione della serie.

Che cos’è un racconto serial tv? Che cosa lo caratterizza?

Difficile darne una definizione stringente. Molte delle categorie tradizionali di cui disponiamo - per esempio la classica distinzione tra episodio, narrativamente concluso, e puntata, che rimane aperta - stanno strette a gran parte della serialità contemporanea, che continua a rielaborare e a volte stravolge format e generi codificati. E si espande inoltre su altri media, così come nelle appropriazioni creative dei fan. Ma vorremmo provare a suggerire che il racconto seriale oggi ha molto a che fare con una sorta di “puro” piacere della narrazione. Piacere di incontrare personaggi e familiarizzare con loro, con i loro luoghi e la loro epoca. Piacere di entrare in una storia, in un mondo narrativo, e abitarlo a lungo, portandoselo fin dentro il nostro mondo ordinario e quotidiano: nei casi più interessanti, infatti, piccole storie individuali, apparentemente molto distanti da noi, diventano capaci di raccontarci anche il nostro presente e spiegarci un po’ del mondo che viviamo. E non è certo un caso che un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna, che si occupa proprio di serialità, abbia proposto di definire i racconti seriali contemporanei come degli “ecosistemi narrativi”.

In parecchi sostengono che le serie tv sono la nuova letteratura dei nostri anni.
Voi come la pensate?

Sì e no. Se pensiamo ai nuovi modelli di circolazione e fruizione dei prodotti seriali (Netflix e il binge watching, per esempio), la televisione si è avvicinata alla letteratura. Gli studiosi sottolineano come si sia passati da una “flow industry” a una “publishing industry”, vale a dire dal flusso del palinsesto preorganizzato a un accesso diretto e personalizzato, sia nei tempi sia nei modi di visione. Altri hanno effettivamente parlato, per la nuova serialità, di “visual novel”, romanzi visivi, a indicare un grado di “complessità narrativa” (in termini di personaggi, ambienti, storylines) del tutto inedito e capace di consentire inedite possibilità espressive per orchestrare questi mondi di lunga durata.
Ma forse un paragone “monomediale” sarebbe oggi un po’ riduttivo. Della tv “tradizionale” i fenomeni seriali contemporanei preservano sia la “logica dell’appuntamento” (che sia per una maratona o per un singolo episodio) sia l’idea di una visione, o meglio di un’esperienza, condivisa (anche se magari non perfettamente simultanea), che poi si riversa online, sui social network, nelle community, nei fan work che si diffondono. Insomma, la serialità contemporanea ha una rilevanza “transmediale” che crediamo non debba essere sottovalutata.

Game of Thrones
A cura di Sara Martin – Valentina Re
Pagine 136, Euro 14.00
Mimesis


Teatro delle Orge e dei Misteri


Il mio teatro delle Orge e dei Misteri concentra l’esperienza intensa, il rituale nel senso della forma, creando un festival dell’esistenza, un’esperienza concentrata, consapevole e sensuale, del nostro esser(ci).

Così afferma Hermann Nitsch, nato a Vienna il 29 agosto 1938.
Sue opere sono esposte in una mostra in corso a Foligno, al CIAC (Centro Italiano Arte Contemporanea), intitolata O.M.T. Orgien Mysterien Theater - Colore dal Rito.
L’esposizione è a cura di Italo Tomassoni e Giuseppe Morra che dal 1974 è lo storico gallerista ed editore degli scritti di Nitsch cui ha dedicato nel 2008 un museo a Napoli.
Nitsch, è il massimo esponente dell’azionismo viennese, creatore di performance e installazioni molto discusse, da tanti condannate, rimaste, però, memorabili, al di là delle aspre polemiche suscitate.

Già dal 1957-1960 elabora la sua idea di Orgien Mysterien Theater (Teatro delle Orge e dei Misteri): esperienza di arte totale legata al concetto psicanalitico di “Abreaktion”, cioè la scarica emozionale che consente a un soggetto di rimuovere gli effetti di accadimenti drammatici. L’esecuzione di atti orgiastici e onanistici con la messinscena di riti sacrificali consente, secondo l’artista, la liberazione catartica da tabù religiosi, moralistici, sessuali. Nel frattempo Nitsch dipinge seguendo il movimento del «tachisme» cioè l’immediatezza del gesto e versa o schizza colori sulla tela, anche usando direttamente le mani. Dal 1961 s’intensificano le azioni in cui Nitsch comincia a utilizzare gli animali macellati, il cui sangue è usato come colore, così come aumenta il numero di partecipanti alle sue azioni con attori crocefissi e cosparsi di sangue.
La provocazione si fa sempre più spinta tanto che nel 1965 Nitsch andrà in carcere per due settimane, ma si allarga anche il giro delle sue relazioni internazionali, specie con la Germania e gli Stati Uniti.
Nel 1971 acquista il castello di Prinzerdorf in Austria che diventa la sede del suo Orgien Mysterien Theater.
Nel 1974 entra in contatto a Napoli con lo Studio di Giuseppe Morra che diviene la sua galleria ed editore di riferimento, pubblicando l’O.M. Theater 2, opera teorica fondamentale per ben capire Nitsch, e gli spartiti musicali delle sue molteplici azioni sceniche.
Negli anni Settanta-Ottanta s’infittiscono le partecipazioni alle grandi rassegne internazionali, gli interventi in importanti musei e le esecuzioni musicali.
Nel 1984 la sua 80.ma azione dura tre giorni e tre notti consecutive e dieci anni dopo Morra ne pubblica la partitura integrale.
Dagli anni Novanta si hanno in tutto il mondo esposizioni in cui Nitsch installa gli oggetti, le grandi tele, le partiture, i progetti grafici che hanno dato vita alla sua singolare esperienza artistica, in cui confluiscono teatro, pittura, musica, fotografia, video, performance.

La mostra in corso adesso a Foligno presenta alcune celebri installazioni e completano l'esposizione nove litografie del ciclo The Architecture of the O.M. Theatre realizzate tra il 1984 e il 1987-1991, dove ogni quadro appare come parte di una scenografia più grande e in cui Nitsch esprime la sua teoria riguardo all’Architettura, l’elemento più complesso e importante del suo Teatro delle Orge e dei Misteri. Queste opere hanno una duplice natura: da un lato costituiscono un modello base del labirinto sotterraneo a sei-sette livelli di profondità che Nitsch voleva costruire sotto il castello a Prinzerdorf, dall’altro i piani incorporano la dimensione temporale, anticipando il dramma che l’artista avrebbe messo in scena in futuro. L’Architettura dell’O.M.T. è in definitiva un cosmo sotterraneo, un castello interiore.
Sono, inoltre, esposti vari volumi, da lui scritti, a testimonianza della sua vasta attività teorica.

Nitsch non esaurisce nella ritualità la complessità metaforica e teorica dei suoi oggetti e delle sue azioni – afferma Tomassoni - dal rito si liberano infatti, come annuncia il titolo della Mostra, una chimica del colore e una potenzialità di fenomeni estetici che vanno ben oltre il limite liturgico dell'azione.

Ufficio Stampa: Lucia Crespi, tel. 02 89415532 - 02 80401645, lucia@luciacrespi.it

Hermann Nitsch
Al CIAC
Via del Campanile 13, Foligno
Info: 0742 – 481222; 342 3682454
info@centroitalianoartecontemporanea.it
Fino al 9 luglio 2017


Come un granello di sabbia


Uno dei più gravi, atroci, errori giudiziari in Italia, fu quello che vide coinvolti quattro ragazzi accusati ingiustamente da uomini in malafede di duplice omicidio.
Ancora più grave è il caso se si pensa che quegli uomini erano tutori della legge.
Quella vicenda è stato documentata da un libro, lo segnalerò fra breve, e tradotto in un adattamento che ha meritato il secondo posto al premio teatrale “In-Box”.

Il titolo è: Come un granello di sabbia Giuseppe Gulotta, storia di un innocente.
Testo e regia di Salvatore Arena e Massimo Barilla, con Salvatore Arena in scena (qui in una foto di Marco Costantino).
Dopo alcune tappe in tournée nazionale negli ultimi mesi (e prima delle repliche future di cui diamo appresso date e piazze) lo spettacolo approda al Teatro Cilea di Reggio Calabria, nell’àmbito della prima edizione del festival MigrArtes, promosso e ideato dalla Fondazione Horcynus Orca e dalle associazioni Mana Chuma Teatro, Teatro di Figura Le Rane, Soledad.

La vicenda di Giuseppe Gulotta – contenuta nel libro “Alkamar- la mia vita in carcere da innocente” (ed. Chiarelettere) da lui scritta insieme a Nicola Biondo - è quella di un giovane muratore di 18 anni, con una vita come tante, che viene arrestato e costretto con torture a confessare l'omicidio di due carabinieri ad "Alkamar", una piccola caserma in provincia di Trapani.
Il delitto nasconde più misteri: servizi segreti, uomini dello Stato che trattano con gruppi neofascisti, traffici di armi e droga.
Gulotta ha vissuto ventidue anni in carcere da innocente e trentasei anni di calvario con la giustizia. Non è mai fuggito, ha lottato a testa alta fino al processo di revisione (il decimo, di una lunga serie, ostinatamente cercato e ottenuto), che lo ha definitivamente riabilitato.
In questo video la sua storia, dalle conseguenze non risanabili, è raccontata da lui stesso.
Lo spettacolo si avvale di Aldo Zucco per le scene. Musiche originali di Luigi Polimeni; disegno luci di Stefano Barbagallo; equipe tecnica di scenografia Antonino Alessi, Grazia Bono, Caterina Morano; assistente alla regia Ylenia Zindato.

La voce di Giuseppe – scrivono gli autori Arena e Barilla – ci ha posto di fronte ad una grande responsabilità. Responsabilità tecnica ed espressiva: ben scandire l’incredibile storia legale che ha vissuto, la lunghissima serie di omissioni, errori, leggerezze, falsificazioni, palesi violazioni della legge, rappresentando sulle tavole del palcoscenico una vera e propria frode giudiziaria. Raccontare scenicamente il vortice in cui un uomo è stato scaraventato, come abbia trovato per la prima volta qualcuno disposto ad ascoltarlo, la gioventù interrotta, l’arresto, le torture, i colpevoli silenzi, i pregiudizi, ma anche l’irriducibile speranza in una restituzione della propria umile e alta identità. Alla sua si aggiungono altre voci necessarie allo sviluppo drammaturgico: un vicequestore illuminato schiacciato anche lui dal micidiale ingranaggio, l’ufficiale dell’arma regista occulto delle torture (un Kurz rovesciato, lucido e per nulla tormentato), la moglie Michela, i genitori.

Prossime repliche: 28 aprile, TIP Teatro, Lamezia Terme, Ricrii14; 13 maggio, Teatro alla Guilla, Palermo, Da capo a capo; 28/29 maggio, Sala Laudamo, Teatro Vittorio Emanuele Messina.

Ufficio Stampa: Raffaella Ilari, mob. +39.333 – 43 01 603, raffaella.ilari@gmail.com

Teatro Cilea - Reggio Calabria
Domenica 23 aprile 2007 ore 21.00
“Come un granello di sabbia”
testo e regia di Salvatore Arena - Massimo Barilla
con Salvatore Arena
info email: manachumateatro@glauco.it
tel +39.380.3204740


Apprendista astronauta

Sto per presentare un libro di scienza per ragazzi.
C’era una volt… no, può sembrare una favola. Diciamo meglio: tanto, ma proprio tanto tempo fa, quando si rivolgeva a un ragazzo la stucchevole domanda “Che cosa vorrai fare da grande?”, in tanti replicavano “L’esploratore”. Nessuno, nemmeno i più pavidi, rispondevano “L’impiegato al Catasto”.
Poi, molti, però, finivano proprio lì, o nei paraggi. C’est la vie, non sempre en rose.
Oggi, qualcuno, però, potrebbe dare a quell’importuna domanda una risposta simile a quella di tanto tempo fa, rispondendo “Vorrei fare l’astronauta”.
“Spazio, ultima frontiera” è il grido di Gene Roddenberry, l’inventore di Star Trek, è lì il fascino delle nuove imprese.
Per chi a quelle aspira, e oggi sta gli 8 e i 10 anni, consiglio un libro di Editoriale Scienza di cui è autore Steve Martin che si avvale delle illustrazioni di Jennifer Farley, intitolato, manco a dirlo, Apprendista astronauta.
Com’è nello stile di quella casa editrice, il volume è interattivo sul serio e non come si finge di credere a certi editori che propongono pagine appena colorate da staccare.

Qui è immaginato un viaggio verso Marte e si percorre quanto devono fare le donne e gli uomini che si accingono a quella gita fuori porta.
Ogni momento dell’addestramento è l’occasione per i giovani lettori di una prova da compiere. Anche fra le mura di casa ricavandone per ogni tappa un punteggio. Come? Ritagliando, incollando, scrivendo, cronometrando.

In questo 2017, sono trascorsi sessant’anni da quando lo Sputnik, senza umani a bordo, fu lanciato nello Spazio. Nel giro di pochi decenni un piede americano si è posato nel 1969 sulla Luna e sono passati appena 4 anni da quando nel 2013 l’agenzia statunitense Nasa ha lanciato il razzo Orion progettato per raggiungere Marte. Eppure, nonostante tutti questi progressi scientifici e tecnologici, la vita per i cosmonauti è durissima, piena di pericoli, alcuni dei quali perfino sconosciuti agli stessi scienziati e tecnici che lavorano ai voli nello Spazio.
Il libro di Martin, guida passo passo i piccoli aspiranti astronauti attraverso domestiche simulazioni che vanno dalla sperimentazione di sempre nuove tute alla valutazione dei tempi reattivi di mente e corpo, da come tenersi in forma in ambienti a gravità zero al pronto soccorso durante un viaggio che dura mesi, da come difendersi da tempeste di rocce volanti di cui anche una piccola scheggia potrebbe danneggiare irreparabilmente una navicella se la colpisse, fino a fronteggiare temperature ignote ai terrestri, ad avere ingegno per uscire senza rimetterci la pelle da situazioni impreviste perché imprevedibili.
Alcune di queste cose ben affrontate salvarono la vita a quelli di Apollo 13 quando, a 322.000 chilometri dalla Terra, Jack Swigert pronunciò la famosa frase “Houston, abbiamo un problema”, famosa - et pour cause - più di altre quali “Domani è un altro giorno”, “Nessuno è perfetto” e “Baciami, stupido”.
Un libro, "Aspirante astronauta", che giocando giocando permette di avvicinarsi ai veri problemi che gli astronauti si trovano a imbattersi, o potrebbero trovarcisi. Nulla l’autore trascura in questa panoramica sulla preparazion… nulla? Nulla proprio? Lo so, molti di voi noteranno che una cosa nel libro è assente: come fanno gli astronauti i loro bisogni nello Spazio?
Non è colpa dell’autore. Non è un tipo distratto. Il fatto è che il volume per ogni capitolo prevede esercizi e, ammettiamolo, era un po’ complicato suggerire esercitazioni su quel tema. Mai sia detto, però, che in una rubrica come questa che si chiama Cosmotaxi non si trovi una soluzione. Ci siamo collegati con l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti che in questo video, in modo pudico ma chiaro, spiega come risolvere quel problema stavolta prevedibilissimo .

Steve Martin
Apprendista astronauta
Traduzione di Federica Rupeno
Illustrazioni di Jennifer Farley
Pagine 64, Euro 13.90
Editoriale Scienza


Museo del pugilato (1)


A Cosmotaxi piace visitare musei con particolarità attinenti alla storia del nostro costume, luoghi che ospitano da collezioni eterodosse alla cultura materiale, dall’artigianato allo sport.
Oggi mi occupo di un museo dedicato alla boxe inaugurato ad Assisi nel febbraio scorso.
La boxe: lo sport più antico e più discusso, più attaccato e più esaltato..
Due nomi fra i tanti di quella folla animata da opposti sentimenti. Ecco sul pugilato abbattersi i fendenti di Eugenio Montale, ecco levarsi lo scudo di Ernest Hemingway.

Non è un caso che ad Assisi (a Santa Maria degli Angeli, a poca distanza dalla stazione ferroviaria) sia sorto il Museo del Pugilato, perché è lì che agisce il centro federale dove si prepara la nazionale italiana.
A febbraio di quest’anno ha aperto i battenti alla presenza di atleti famosi, dirigenti sportivi, della sindaca Stefania Proietti che, simpaticamente, si è prodotta nel taglio di una corda da ring invece del solito nastro tricolore.
È stato così coronato un sogno partito anni fa, nel 2004, da un’idea di Franco Falcinelli, allora presidente della FPI (Federazione Pugilistica Italiana), raccolta da Mario Pescante a quel tempo Sottosegretario ai Beni Culturali.
Diciamo che non si è trattato di una cosa troppo veloce. Assisi in Italia sta.
Falcinelli – oggi a capo di alcune organizzazioni internazionali sportive – è un idolo nella città umbra e non soltanto in quella città. Se lo merita. Per quanto ha dato alla “noble art” sia sul piano tecnico sia promozionale.
L’inaugurazione si è arricchita anche di altri significati. Ha detto, infatti, Alberto Brasca da presidente della FPI: Oggi si chiudono idealmente i festeggiamenti dei nostri 100 anni, iniziati nel marzo scorso. Questo spazio museale li ripercorre dando modo ai futuri visitatori d’immergersi in questo secolo segnato anche dalle gesta dei nostri atleti. Questo è solo un primo passo, perché il Museo crescerà nei suoi contenuti nel tempo e ospiterà anche eventi, mostre, presentazioni librarie, cinematografiche, dibattiti. Sarà uno spazio vivo e non solo dedicato alle testimonianze storiche.
Ho percorso le sale, cordialmente guidato da Fausto Bastianini funzionario del Museo, notando che gli ambienti sono allestiti benissimo (nell’immagine un angolo in uno scatto di Fabio Bozzani) con foto, giornali d’epoca, video, cimeli, aree informative multimediali e didattiche, memorabilia.
Ero preparato alla visita dalla ricca documentazione scritta e visiva inviatami in maniera competente e puntuale da Michela Pellegrini dell’Ufficio Stampa FPI che qui ringrazio in modo assolutamente non formale.


Museo del Pugilato (2)


Oggi, molti ragazzi al pugilato preferiscono le arti marziali fra le quali nelle loro scelte eccelle l’animalesca MMA (Mixed Martial Art) che, non è un caso, si combatte dentro una gabbia ottagonale di ferro.
Quando ero giovane – vale a dire mooolto tempo fa – la boxe aveva come concorrente il judo che non è un’arte marziale. Oggi anche il judo – nonostante successi olimpici di nostri atleti – non se la passa troppo bene. Pino Maddaloni, oro olimpico e sei volte campione d’Europa, non ha nascosto le sue difficoltà.
A tutto questo non è estranea, non può esserlo, l’atmosfera della società in cui stiamo vivendo, non solo in Italia. C’è voglia di avere pochissime regole e, possibilmente, trasgredirle pure.
La boxe, ha troppe regole. Così, in parallelo, troppe regole nell'agonismo sociale sono mal sopportate. Lo slogan, nella vita di tutti i giorni, sembra essere “meglio furbi che leali”. Si dirà che anche in altre epoche le cose andavano suppergiù così. D’accordo, l’età dell’oro mai c’è stata. Trovo, però, che l’aggressività un tempo si indossava, oggi si sfoggia

Altra questione che investe la boxe è data dalla sua pericolosità.
C’è chi prova goffamente a negarlo. E, invece, no. La boxe è pericolosa. Ma provate ad assistere ad un incontro di hockey o di basket, o pensiamo al calcio con le sue ossa rotte ogni domenica per la felicità degli ortopedici e le non rare commozioni cerebrali, oppure date uno sguardo QUI e poi mi date una voce.

Altra cosa. Chi sostiene la boxe, afferma che la caccia e la lotta siano connaturate agli umani. Quel parallelo solo in tempi lontani aveva una sua validità. Oggi non più. Il pugilato, è sì lontano da quello praticato nell’antichità, ma sostanzialmente sempre di due che s’affrontano si tratta. La caccia, invece, con la comparsa delle armi da fuoco (e il loro progresso tecnologico fino ad oggi) ha stravolto il rapporto fra cacciatore e preda. Si usa l’atomica per abbattere un passerotto. Le regole (cioè le leggi) sono trasgredite massicciamente dai cacciatori mettendo a rischio il prossimo; gli incidenti, anche mortali, infatti, non mancano. Tutt’altro discorso per la boxe. Ha tempi rigorosi di svolgimento, si affrontano uomini di pari peso, un arbitro a poca distanza da loro vigila sul rispetto del regolamento. La caccia si svolge – ed è comprensibile – in silenzio, da soli o in piccolissimi gruppi. La boxe ha un pubblico. Non è cosa da poco. Avvengono tràstule? Sì, certamente. Ma non più di quante ne avvengono in altri sport e fuori dello sport. Insomma, smettiamola, oggi, di accostare caccia e boxe in nome di una pretesa tesi antropologica non più vera perché nella realizzazione di quei due istinti, pur innegabilmente insiti nel sistema nervoso centrale che indossiamo, molto è cambiato

Di recente, le polemiche hanno trovato nuovi fuochi con la boxe femminile che, è stata autorizzata dal 1993, ma verità storica vuole che nasca addirittura nel 1876 a New York.
La scrittrice Joyce Carol Oates, autrice di ‘Sulla boxe’ (uno dei più acuti saggi scritti sul pugilato) in quel libro condanna il ring al femminile. Le ragioni che porta sono tutte interessanti e condivisibili perché – queste sì! – autenticamente, seriamente, antropologiche. Mentre a molti che condannano le pugilesse perché… “poco eleganti”, vorrei chiedere se considerino più eleganti deputate e senatrici che vomitano insulti in Parlamento e si lasciano andare a gesti ed espressioni che forse neppure un marinaio ubriaco in una taverna al porto pronuncerebbe.

La foto in pagina ritrae Maria Moroni che è stata la prima donna tesserata come agonista dalla Federazione Pugilistica Italiana. Il 21 luglio del 2001 le è stata infatti consegnata la tessera n. 1 dal Presidente della FPI Franco Falcinelli.
Percorrerà una carriera di successo che la porterà ad essere campionessa d’Europa dei pesi piuma.


Museo del pugilato (3)


Andai dunque a trovare il signor Gide... Finalmente l'uomo fece la sua comparsa. La cosa che allora mi colpi' maggiormente fu che non mi offri' assolutamente nulla, a parte una sedia; e pensare che, verso le quattro del pomeriggio, una tazza di te', se proprio si tiene al risparmio, ma meglio ancora qualche liquore e del tabacco orientale sono giustamente ritenuti, nella società europea, l'ideale per creare quella disposizione indispensabile che le permette di essere alle volte brillante.
Almeno, così la penso io Arthur Cravan.
- Signor Gide, attaccai, mi sono permesso di venire a trovarvi, credo però sia il caso di mettere subito in chiaro il fatto che io preferisco alla letteratura di gran lunga la boxe
.

Da "Tre suicidi contro la società: Arthur Cravan, Jacques Rigaut e Jacques Vache'", a cura di Ottavio Fatica, Arcana, 1980.


Nessuno sport ha ispirato le arti quanto la boxe.
Romanzi e poesia, cinema e teatro, arti visive e danza, radio e televisione, fino ad essere presente oggi nei videogames.
Non mi azzardo, quindi, a citare questo o quello nella tale area espressiva o in tal’altra. Finirei con l’affogare in un mare di omissioni.
Del resto, non esiste, una pubblicazione che raccolga, mettendole insieme, in un’opera unica, sia pure in più volumi, le sterminate presenze del pugilato in tutti i campi artistici.
Per fortuna, però, oggi, con la Rete, è possibile esplorare plurali settori a furia di clic. Eppure, anche così, sicuro non sono che il problema sia risolvibile in modo soddisfacente.

Nella foto di Fabio Bozzani: ring degli anni ’30 in mostra al Museo del Pugilato

Credo, però, che siano il cinema e la letteratura i due campi dove i guantoni abbiano fornito più spunti agli autori.
Osserviamo due casi italiani dei nostri giorni.
Partiamo dal cinema.
Un docufilm. Titolo: “Il pugile del Duce”. Ne è autore Tony Saccucci. È narrata la storia di Leone Jacovacci, pugile dalla pelle nera, nato in Congo nel 1902 (morirà nel 1983) da padre italiano e madre africana.
Il trailer è stato proiettato all’inaugurazione del Museo del Pugilato.
Jacovacci, amatissimo dal pubblico romano, era inviso al Regime. Le cose si complicarono ancora di più quando riuscì a battere il fascistissimo Mario Bosisio (1901 – 1988), grande boxeur, idolo del Fascio.
QUI un’intervista con Tony Saccucci ricca di ghiotte notizie.

Letteratura.
Voglio fare il nome di Gabriele Tinti , finissimo giovane autore, nato a Jesi, che alla boxe ha dedicato parte della sua opera.
QUI ne spiega il perché.
Ecco uno scrittore che ben vedrei all’opera in una serata al Museo del Pugilato.
In questo video Franco Nero legge una poesia sulla boxe di Gabriele Tinti.


Il mistero degli antichi astronauti (1)


Poteva questa sezione di Nybramedia intitolata Cosmotaxi non occuparsi di cose che volano in lontani cieli? Certo che no. Ed ecco che mi occupo di un libro scientifico – pubblicato da Carocci – d’estremo fascino per l’argomento che tratta e per il modo in cui lo avvicina e lo esplora: Il mistero degli antichi astronauti.
Ne è autore Marco Ciardi.
Insegna Storia della scienza e della tecnica all’Università di Bologna.
Ha pubblicato nel 2014, con un’Introduzione di Giulio Giorello, A bordo della cronosfera; il suo Galileo & Harry Potter è stato finalista al Premio Asimov 2016.
QUI una serie di suoi interventi sul webmagazine Query diretto da Lorenzo Montali.

Quanto è grande l’universo?
Sappiamo che esistono 100 miliardi di galassie, ognuna delle quali ospita 100 miliardi di stelle. “Tutt’altro paio di maniche, però, è entrare in contatto con altre forme di vita” – scrive Filippo Zerbi – “sia per le distanze galattiche e intergalattiche, sia per l’intersezione dei tempi della nostra civiltà con quella ipotetica aliena”.
Si stima che il diametro dell’universo (escludendo qui l’ipotesi di più universi) possa essere valutato da 78 a 93 miliardi di anni-luce e un anno luce equivale a circa 9 461 miliardi di chilometri.
Senza escludere la presenza di altre esistenze (con vari livelli di progresso tecnologico, da età somiglianti, ad esempio, alla nostra età della pietra a quelli di tecnologie molto più progredite dell’attuale terrestre) perché statisticamente del tutto improbabile l’essere soli nell’universo, resta il problema delle distanze che richiedono mezzi d’inimmaginabili capacità non solo per attraversarle ma possedendo, inoltre, anche strumenti in grado di proteggere nelle spedizioni uomini e mezzi da pericoli perfino sconosciuti.

Eppure… eppure c’è chi dice di avere incontrato extraterrestri e in tanti sostengono che in lontani tempi il nostro pianeta sia stato visitato da creature aliene d’altri mondi.
Da qui il libro di Ciardi che indaga su quell’argomento spaziando sagacemente fra scienza e tecnica, filosofia e psicologia, fantascienza e pseudoscienze, cinema e fumetti, radio e televisione.

Dall’Introduzione di “I misteri degli antichi astronauti”.
Quando si parla di “teoria degli antichi astronauti” ci si riferisce in genere alla possibilità che entità extraterrestri abbiano raggiunto il nostro pianeta nel passato, lasciando qualche traccia, più o meno tangibile, del proprio passaggio: si va dall’esistenza di particolari reperti archeologici, non spiegabili all’interno del contesto nel quale sono stati rinvenuti, alla manipolazione del codice genetico degli ominidi preistorici e, quindi, a un’influenza diretta sull’evoluzione del genere umano.
La letteratura relativa a questo argomento, considerato da molti uno dei grandi misteri dei nostri giorni, è stata una delle più prolifiche e commercialmente redditizie della seconda metà del Novecento, e gode tutt’ora di buona, anzi, ottima salute. Ma il termine “teoria” sta in questo caso a indicare qualcosa che ha un fondamento scientifico, oppure no?
Un modo per scoprirlo è quello di ricostruire l’origine di questa problematica, cercando di comprendere quali siano gli ambiti in cui essa si è effettivamente sviluppata e se, fra questi ambiti, possa essere compreso anche quello scientifico.
Per raccontare questa storia, la cosa migliore da fare è indubbiamente quella di attingere soprattutto alle testimonianze dei suoi protagonisti. Verificare testualmente le loro affermazioni, mettendole a confronto, rappresenta infatti un elemento essenziale per comprendere la natura e l’originalità delle argomentazioni messe in campo
.

Segue ora un incontro con Marco Ciardi.


Il mistero degli antichi astronauti (2)

A Marco Ciardi (in foto) ho rivolto alcune domande.
Qual è stata la principale motivazione che ha spinto un docente di Storia della Scienza e della Tecnica, quale tu sei, a interessarsi degli antichi astronauti?

Da molti anni mi occupo dei rapporti tra scienza e pseudoscienza, fin dai miei primi studi, svolti all'inizio degli anni '90, sulla genesi della moderna teoria atomica. Nel 2002 ho scritto un libro in cui ho cercato di dimostrare che i dibattiti sull'esistenza di Atlantide hanno fatto a lungo parte della scienza, non della pseudoscienza. L'introduzione del mito di Atlantide all'interno di un contesto non propriamente scientifico, o pseudoscientifico, è avvenuta tra gli ultimi decenni dell'Ottocento e i primi del Novecento. Nel 2011 ho dedicato un volume alla ricostruzione degli articolati sviluppi delle 'metamorfosi' di Atlantide e dei complessi intrecci fra le questioni scientifiche e quelle pseudoscientifiche, letterarie e artistiche relative al continente perduto. Dal tema di Atlantide a quello degli antichi astronauti il passo è stato breve. Infatti, a partire dalla fine dell'Ottocento, spesso la storia dell'uno non può essere raccontata senza la storia dell'altro. Era dunque venuto il momento di cercare di fare il punto sui dibattiti che hanno visto il tema degli extraterrestri nel passato coinvolto in questo complesso contesto.

Perché in una tua pagina raccomandi la lettura di Galilei ai cultori della teoria degli antichi astronauti?

Una delle argomentazioni utilizzate dai sostenitori di teorie alternative a quelle riconosciute dalla comunità scientifica può essere più o meno riassunta in questo modo: “la mia teoria è oggi inaccettabile e considerata eretica, come a suo tempo fu giudicata inaccettabile ed eretica la teoria eliocentrica. In realtà, io sono come Galileo, ingiustamente perseguito e discriminato”. Purtroppo questa affermazione non ha fondamento e nasce da una inadeguata conoscenza delle ragioni che portarono alla nascita della scienza moderna. Al tempo di Galileo, la scienza moderna ancora non esisteva, né esisteva la professione di scienziato. Galileo subì il giudizio della Chiesa e dei filosofi aristotelici, ma non quello dei suoi 'colleghi'. Fu invece proprio Galileo a porre le basi per la costruzione di ciò che oggi noi chiamiamo genericamente 'metodo scientifico', indicando quei criteri che devono essere rispettati se si intende essere accettati all'interno della comunità scientifica, e se si vuol cercare di provare la verità di una teoria o di una affermazione.

Esiste un modo per distinguere le scienze dalle pseudoscienze? Se sì, qual è?

Tutti coloro che propongono una nuova teoria o affermano di aver fatto un'incredibile scoperta devono accettare il confronto con la comunità scientifica, consentendo agli scienziati di tutto il mondo di poter sottoporre a verifica le affermazioni fatte o le prove addotte. Questo perché la scienza, in opposizione alla magia, nasce come sapere pubblico, controllabile e verificabile da tutti, universale e fondato sul principio dell’uguaglianza delle intelligenze. Porsi al di fuori di questa fondamentale regola, presentandosi come martiri incompresi o gridando al complotto, significa abbandonare in partenza la possibilità di dimostrare che la scoperta o la teoria che si sostiene possa essere vera. Questo è un atteggiamento pseudoscientifico. Fino ad oggi, non siamo stati in grado di costruire una forma di sapere, diversa della scienza, che riesca ad essere aperta a tutti e sia in grado di garantire, senza discriminazioni di partenza, le stesse possibilità di accesso alla conoscenza, e che sia suscettibile di controllo, nel caso di errori o di frodi. A volte ci vuole tempo per distinguere il vero dal falso, o a riconoscere una truffa, ma alla fine si ottengono risultati migliori rispetto a qualsiasi altra attività o forma di pensiero umana.

Quale meccanismo psicologico induce a reputare per vere cose impossibili? Perché accade che un mondo senza misteri sia creduto meno meraviglioso di uno popolato da enigmi?

In primo luogo esiste un grande fraintendimento intorno alla natura della scienza. Per fare gli scienziati è necessario avere, oltre a capacità logiche e razionali, grande fantasia e immaginazione. La scienza, contrariamente a quello che si può pensare, è ricca di fascino, di mistero e di soluzioni imprevedibili. Che però vanno accertate, non solo pensate. Il metodo scientifico, sebbene sia alla portata di tutti, richiede impegno, studio e fatica. Così spesso diventa più facile affidarsi alle affermazioni di persone che assecondano le nostre convinzioni, i nostri desideri e le nostre speranze.
Come ha affermato Francis Bacon, “l’uomo crede più facilmente vero ciò che preferisce vero” e respinge “le cose difficili perché è impaziente nella ricerca”. Per questo in tanti, ancora oggi, si rivolgono a persone che promettono soluzioni facili per la risoluzione di problemi personali, malattie e molte altre questioni.

Qual è il tuo giudizio sulla divulgazione scientifica in Italia attraverso i media: dalla radio alla tv, dalla stampa ad internet?

Sia i media che la scuola parlano molto di scienza, ma senza aiutarci a riflettere veramente su che cosa è la scienza, come funziona e quali sono i suoi valori. Dovremmo insistere più sul metodo e sui fondamenti, sulle distinzioni essenziali, come quelle fra scienza e magia, scienza e pseudoscienza, scienza e arte. Come diceva Carl Sagan, la scienza più che un insieme di conoscenze è un modo di pensare. Invece molte persone, pur avendo un grande interesse per questioni di natura scientifica, non vengono messe nelle condizioni di padroneggiare gli strumenti culturali utili a comprendere le caratteristiche essenziali della scienza e il modo in cui si è sviluppata nel corso del tempo. Un esame storico della scienza certamente può contribuire a restituire al discorso scientifico quella complessità che da sempre lo ha caratterizzato, permettendo di stabilire come si possa distinguere una credenza da ciò che ha un fondamento scientifico. Questo diventa oggi essenziale, dato che sempre più persone attingono informazioni dalla rete senza avere gli strumenti concettuali per farlo.

Marco Ciardi
Il mistero degli antichi astronauti
Pagine218, Euro 19.00
Carocci Editore


Vecchi per niente


Dice il mio amico Pino Caruso che la vecchiaia nuoce gravemente alla salute.
Vagli a dare torto!
Intorno a quell’età ne sono state scritte e dette tante. Alcune insopportabili proprio!
Come quelli che sostengono sia una dei periodi belli e luminosi della vita per la sapienza raggiunta. Ed io non so proprio quale luce assista uno con il piede nella fossa, e, poi, non so cosa farmene della sapienza quando anche l’altro piede sta per seguire il precedente.
Per non dire della saccenza, più che sapienza, di molti vecchi che amano dare ammonimenti. Diceva bene La Rochefoucauld: i vecchi amano dare buoni consigli, per consolarsi di non essere più in grado di dare cattivi esempi.
Poi ci sono quelli che per mascherare il confine (spesso da loro già attraversato) che separa giovinezza e maturità dalla vecchiaia affermano che non è possibile stabilire quando si diventa vecchi.
Un metodo c’è. Buono sia per le donne sia per gli uomini. Lo descrive Valentino Bompiani in un suo librino (“I vecchi invisibili”) dove afferma che si è vecchi, quando si diventa appunto, invisibili. Un tempo si veniva scrutati e valutati dal sesso opposto, ora lo sguardo vi scivola addosso, non siete neppure giudicati, siete invisibili, siete (e siamo) vecchi.

Sul tema della vecchiaia, arriva a Roma, dopo successi riportati in altre città, lo spettacolo Vecchi per niente scritto e diretto da Nicola Russo.
Nato nel 1975, fonda nel 2010 la compagnia Monstera , nome beneaugurante perché è quello di una pianta rampicante sempre verde. Nello stesso anno scrive e dirige Elettra biografia di una persona comune che si aggiudica la vittoria dell’E45 Napoli Fringe Festival e giorni fa è andato in scena nella Capitale al Tordinona.
Come attore è in molti spettacoli dell'Elfo di Milano per la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani. Ha lavorato come protagonista con Luca Ronconi in “Peccato che fosse puttana” di John Ford, con Marco Bellocchio nel “Macbeth” di William Shakespeare, con Eimuntas Nekrosius in Anna Karenina di Tolstoj.

“Vecchi per niente” è ispirato a La forza del carattere dello psicanalista junghiano James Hillman (1926 – 2011).
A proposito di questo spettacolo, così Russo scrive: Ho voluto parlare della vecchiaia da un punto di vista insolito: come espressione massima del carattere di una persona e non come crepuscolo o decadimento del corpo e della mente. Spesso nei miei lavori ho messo in discussione il concetto di physique du rôle e questo progetto è un passo avanti nella stessa direzione: fare pulizia dei luoghi comuni legati alla rappresentazione, ai sentimenti e ai ruoli che associamo automaticamente alla nostra età e a quella degli altri. Due vecchi non hanno niente in comune per il fatto di condividere la stessa età, men che meno la saggezza. In questo senso i vecchi non esistono, esiste l’identità, esiste il carattere. Per parlare della forza del carattere ho messo insieme le storie di persone anziane sui propri genitori e in particolare sul momento della morte dei propri genitori, riportando così i vecchi alla condizione di figli. Se essere figli e morire sono esperienze che accomunano tutti, mettere in scena i vecchi come figli è stato un modo per tentare di colmare quella distanza che di solito poniamo tra noi e loro.

Interpreti, in ordine alfabetico, Benedetta Barzini, Sara Borsarelli, Teresa Piergentili, Marco Quaglia, Agostino Tazzini, Guido Tonetti (qui in una foto di scena scattata da Fabio Artese). Scene e costumi Giovanni De Francesco; luci Cristian Zucaro; foto e grafica Liligutt Studio; organizzazione Isabella Saliceti; produzione Teatro Franco Parenti con Monstera.

Ufficio Stampa: Simona Carlucci: tel. 335 – 59 52 789; s.carlucci@tim.it

Ufficio Stampa Teatro Vascello: Cristina D’Aquanno, promozione@teatrovascello.it

Teatro Vascello
Roma, Via Giacinto Carini 78
“Vecchi per niente”
Testo e regìa di Nicola Russo
11 – 14 aprile ‘17


Toghe Rosso Sangue

Giunge a Roma – con il patrocinio dell’Associazione Nazionale Magistrati – dopo precedenti successi, Toghe Rosso Sangue, uno spettacolo che, oltre ad essere ben fatto, ha la qualità d’essere necessario in anni come i nostri con la criminalità organizzata che, rispetto ad epoche trascorse, trova nuovi, più raffinati e articolati agganci con il mondo delle istituzioni. Con la politica che non è particolarmente vicina ai Magistrati, anzi sembra impegnata a restringere le possibilità d'intervento della Giustizia specie se si tratta di trovare strumenti difensivi per la Casta.
All’origine del testo, il libro, dall’omonimo titolo, di Paride Leporace che in questo video spiega come nacque il volume cui ha dato forma teatrale il drammaturgo Giacomo Carbone che QUI illustra la struttura del lavoro.
La regìa è di Francesco Marino che in un'intervista dice dell’impegno a riscoprire un pezzo di storia italiana.

29 magistrati in Italia hanno perso la vita per mano della mafia, della ‘ndrangheta, del terrorismo nero, di quello rosso.
Il primo, Antonino Giannola, ucciso il 26 gennaio del 1960 nel Palazzo di Giustizia di Nicosia, l’ultimo, Fernando Ciampi, il 9 aprile 2015 nel Palazzo di Giustizia di Milano.
E pensare che il 4 settembre del 2003 così disse un tale dei giudici: “Sono doppiamente matti. Per prima cosa perché lo sono politicamente, e secondo perché sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”.
Chi parlò in tal modo?
Un etilista in un bar notturno? Uno sfuggito al Tso? No, un presidente del Consiglio.
Il nome lo sapete già.

“Toghe rosso sangue” vede in scena Sebastiano Gavasso, Diego Migeni, Francesco Polizzi, Emanuela Valiante.

Quattro voci, quattro attori.
"Quattro anime avvolte da un’atmosfera tra il realismo e il noir" – come si legge nel comunicato stampa – "e da una scenografia essenziale, che mirano con rabbia e con amore a un teatro che non spettacolarizza ma, silenziosamente grida un omaggio a uomini morti nell’adempimento del loro dovere: un omaggio al loro senso dello Stato. Con pochissime eccezioni, oltre alla pena di morte decretata dai mandanti e decantata dagli esecutori, tali magistrati hanno subito una nuova morte: l’oblio.
Da qui, dalla voglia di «fare memoria», conoscere quella parte della nostra storia italiana a volte dimenticata e messa in ombra
".

Il pensiero di Rita Borsellino: “Toghe rosso sangue ha per tema la vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustizia. Grazie a questa messa in scena si rinnova la loro memoria e il senso dello Stato che li ha accompagnati nella loro vita e nella loro professione”.

Ufficio Stampa HF4
Marta Volterra: marta.volterra@hf4.it - 340.96.900.12
Barbara Andreoli: 328.89.65.458

“Toghe Rosso Sangue”
Teatro Sala Vignoli
Via Prenestina 104, Roma
Info: 06 - 244 08 383
8 e 9 aprile 2017

Teatro Argentina
in matinée il 12 aprile


AccurataMente


Questo sito si è più volte occupato di Complus Events e del suo direttore artistico Piero Pala, perché svolgono una pregevolissima attività.
Cito a memoria: la presentazione di film di Mattew Barney, una rassegna dedicata allo svizzero Peter Liechti, una retrospettiva sull’opera del regista e sceneggiatore Dan Oki con un intervento di Pala, qualche altra occasione che adesso non mi sovviene.

Da oggi, Complus Events (in foto il logo) presenta al Centro Diurno San Paolo una rassegna cinematografica di quattro giornate dal titolo AccurataMente cammini particolareggiati come espedienti del procedere a cura del suo direttore artistico, con film ed interventi sul tema dell’arte
e l’incontro con gli ambiti terapeutici.

I primi due giorni saranno dedicati a Lorenza Mazzetti, cineasta e scrittrice (“Together”, 1956, 35mm, 52’00”; e “K” 1954, 35mm, b/n, 28'00") i seguenti due a Gianfranco Mingozzi (La Taranta,1962, 20’00”), e a Antonio Paradiso (“Sculture filmate antropologiche”, 1969-1975, 25’00”) mentre chiuderà il ciclo l’omaggio a Rymonde Carasco con la proiezione di due suoi medio metraggi (Gradiva – Esquisse I , Tarahumaras 78).

Il progetto tematico AccurataMente – scrive Piero Pala presentandolo – nasce con la finalità di innescare un metodologia di mediazione culturale per un confronto aperto e differente tra l’ambito terapeutico e quello artistico. L’incontro di reciproca incidenza tra i due ambiti, l’interagire, spalanca porte e abbatte barriere di protezione. Il progetto è stato concepito come uno strumento di incubazione per orientare alla comprensione e alla messa in pratica di differenti processi di intervento terapeutico e altrettanti esiti artistici. A tale proposito la decisione di mettere in scena un’offerta culturale variegata ha sollecitato l’esigenza di articolare il progetto in quattro programmi di proiezioni cinematografiche.

AccurataMente
a cura di Piero Pala
Centro Diurno S. Paolo, Roma
Viale Giustiniano Imperatore 45
da oggi 6 Aprile ’17, ore 18:00
info: info@complusevents.com
tel: 333 - 735 89 83


Cin Cin per Sergio Spina


“Chi sfogliasse il Radiocorriere della settimana dal 3 al 9 gennaio 1954, la settimana in cui nacque la tv in Italia, troverebbe mercoledì 6 alle 19.00 un programma chiamato "Strapaese", per la regìa di Sergio Spina (qui in una foto di quegli anni).
Cosa che lo portò a essere iscritto di diritto nella storia della nostra tv. Gli portò però anche zella. Lo stesso anno, per motivi politici, fu licenziato dalla Rai da un tale che nemmeno nomino sennò insozzo 'sta pagina web”.

Comincia così un'intervista a Sergio che realizzai su questo sito nell’ottobre 2000 e, per suo merito, ancora attuale e godibile.
Ho appreso solo l'altro ieri che ci ha lasciato il 19 gennaio di quest’anno.
I suoi amici pugliesi di Press Reader gli hanno dedicato uno spazio con un omaggio assolutamente non formale nel quale è ricordata la sua attività di regista, docente, scrittore, militante politico.
Sergio è stato tante cose, ma soprattutto un dissipatore di se stesso.
Per scelta, mai promotore della sua attività artistica che pure vanta plurali esperienze in vari campi e tanti anni: da Caroselli con Macario dei ’50 fino al recente docufilm “Sandokan” (soprannome del camorrista Schiavone) tratto dall’omonimo libro di Nanni Balestrini.
Maiuscolo un suo film (1960) sulla guerra d’Algeria con il commento di Jean Paul Sartre.
Tutto questo passando per il cinema di lungometraggio – “Fantabulus” presentato al Festival di Locarno nel 1965 e un intrigante “Asino d’oro” da Apuleio (1970) – e il documentario “L'addio a Enrico Berlinguer” (1984), “Un altro mondo è possibile” (2001).
QUI troverete altre sue produzioni più recenti.
In letteratura si è misurato, felicemente, con un giallo edito da Manni nel 1997: “Killernet” che possiedo impreziosito da una sua dedica.
Ha dato tantissimo alla tv pubblica e ha formato, insegnando loro come stare in uno studio televisivo e nelle inquadrature, personaggi divenuti poi molto noti.
Non farò nomi, solo cognomi: Santoro… Minoli.
Nonostante tutto questo, è stato un tenace negatore della propria opera, elegantemente impegnato a non dare peso al suo passaggio sul mondo, ostinato nel volere appartenere agli archivi del silenzio.
Amaro spesso, disperato mai, vedeva nero il presente ma aveva fiducia nel futuro.
Siamo ad aprile e tra le sue presenze sulla Rete, scelgo un intervento, sulla vicina data della Liberazione, in cui s’incrociano riflessione storica e ricordi di vita privata.

Voglio ricordarlo come le tante volte in cui l’ho visto allontanarsi dalla vineria dove c’incontravamo perché da entrambi frequentata. Con la pipa fra i denti a cavallo della sua moto e mi capita di avere a tiro una frase dello scrittore Eugenio Baroncelli che mi pare s’attagli alla figura di Sergio: “Sono arrivato alla canuta ora in cui correggere le bozze della nostra vita come fossero quelle di un libro. Fare di un periodo una frase, di una frase una parola, di una parola, niente. Di un anno fare un mese, di un mese un giorno, di un giorno l’alba che lo annuncia”.


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