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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Macchine d'espressione


La casa editrice Cronopio ha mandato nelle librerie un eccellente saggio su Caro Emilio Gadda (Milano, 1893 – Roma 1973).
Poche sono le interviste in video che abbiamo dello scrittore. QUI una raccolta.
Il titolo del libro è Macchine d’espressione Gadda e le onde dei linguaggi.
L’autore è Giuseppe Episcopo.
È stato Teaching Fellow di lingua e letteratura italiana all’Università di Edimburgo e Visiting Scholar alla Columbia University.
Per Cronopio, ha pubblicato la monografia L'eredità della fine.

Il volume è strutturato in tre parti.
-“Il romanzo in chiave carsica” (la scrittura gaddiana, come nel Pasticciaccio, che scorre sul ‘filo dell’orografia, composta da affioramenti, da invasi e da cavità carsiche’.
- “La macchina geologica e la macchina biologica” (dialettica d’opposti fertilità/infertilità, caldo/freddo, centro/periferia).
- “Ma la carta sogna i media elettrici?” (l’universo sonoro della radio da voce trasmittente a orecchio ricevente).
Ed è proprio questa terza parte che ho apprezzato di più – pur essendo le prime due di grande acutezza – forse perché ho avuto la fortuna di ascoltare dalla voce di Giulio Cattaneo (fu collega alla Rai di Gadda) tante riflessioni sul Gran Lombardo che mi hanno dato la misura dei felici intuiti di Episcopo. Il quale – e questo vale per tutte le tre parti del volume – ha perfettamente rilevato i processi osmotici e dei codici della scrittura gaddiana. La prova proviene da un raro testo dello stesso Gadda, recuperato da Dante Isella, dal titolo “Ingegneria e prosa” (in Mak π 100, numero unico della Scuola Ingegneri di Roma, 1954), lì si legge: Le discipline matematiche e quella dello scrivere, cioè esprimersi nei termini propri d’una lingua, hanno feudi in giurisdizione comune. Istituiscono omologie di problemi: le quali sono avvertite, è ovvio, da chi bazzica le matematiche e frequenta, ad un tempo, la palestra dealbata della pagina .
E, a ulteriore conferma, Italo Calvino su Gadda in “La macchina spasmodica” saggio in forma di lettera: L’oggetto dello scrivere in Gadda è il sistema di relazione tra le cose, che attraverso una genetica combinatoria mira a una enciclopedia del possibile, risalendo una genealogia di cause e concause.
Episcopo percorre con sapienza i percorsi gaddiani facendo una mappa di quel labirinto rendendo necessarie e omogenee la scansione in tre parti del suo lavoro.

Solo applausi? No, ho due contrarietà.
Perché (vizio comune da qualche tempo in molte pubblicazioni di saggistica) non spendere appena 1 o 2 pagine con dati biografici essenziali e bibliografia, o filmografia, oppure principali mostre degli autori trattati?
Perché dare per scontato che tutti sappiano, tutti conoscano o, a quelli che sanno e conoscono, non ricordare dati principali senza costringerli a sfogliare libri o digitare siti?
E ancora (abitudine che va sempre più diffondendosi): perché non mettere l’Indice dei nomi, cosa utilissima per rintracciare passaggi del libro?
Meditate autori ed editori, meditate.

Dalla presentazione editoriale.
«La macchina romanzesca di Gadda viene messa a contatto con altre macchine narrative: siano esse macchine reali e funzionanti, come nel caso del mezzo radiofonico, siano esse invece dispositivi responsabili della stratificazione della narrazione.
Da un lato, allora, il libro stringe il legame con i testi di Gadda che affrontano la geologia, un gruppo di prose raccolte nelle Meraviglie d’Italia, per leggervi in trasparenza quanto la composizione testuale del Pasticciaccio sia fatta di affioramenti e smottamenti. Dall’altro, invece, sta la macchina radiofonica – totalmente rivoluzionaria per il Novecento e decisiva almeno per tre decenni a partire dalla sua nascita – che impone una nuova condizione al tempo presente, ne scandisce il ritmo, crea una diversa percezione del secolo».

Giuseppe Episcopo
Macchine d’espressione
Pagine 141, euro 13.00
Cronopio


Realtà Virtuale

Realtà. Parola che sembra di facile spiegazione perché di solito è riferita a tutto ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo. Eppure basta aprire un dizionario per capire come quelle 6 lettere abbiano scatenato contrasti d’interpretazione, incrociando filosofia e scienza, fin dai tempi dell’antica Grecia, arrivando (senza ancora esaurire teorie, ragionamenti e ipotesi) fino ai nostri giorni; per fare un esempio cinematografico si pensi al film “Matrix”.
Virtuale. Altra parola dal significato semplice se riferito a ciò che è potenziale.
Ma, invece, tanto semplice non è. Perché ha assunto plurali estensioni col progredire delle scienze e delle tecnologie.
Ora prendiamo quelle due parole, accostiamole, ed ecco che l’espressione realtà virtuale, oggi, rimanda subito a quanto è possibile simulare, costruendo, o destrutturando, ambienti, scene, avvenimenti.
È questo un tema che ha rilanciato il dibattito su che cos’è la realtà.
Sia come sia, la VR (acronimo da Virtual Reality in inglese), la cui esistenza è legata a quella di un computer, è diventata una conquista scientifica e tecnologica presente in più campi: dall’industria alla chirurgia, dalle simulazioni belliche alla videoludica, dalle arti (da quelle strettamente audiovisive a quelle del teatro tecnosensoriale, alla performance) ai film che da quell’invenzione hanno tratto soggetti e avvincenti trame così come serie tv e, per prima, la letteratura con il filone noto come cyberpunk.
La nascita del termine VR risale al 1989, anno in cui Jaron Lanier, uno dei pionieri in questo campo, fondò la VPL Research (Virtual Programming Languages, "linguaggi di programmazione virtuale"). Il concetto di cyberspazio, ad esso collegato strettamente, si era originato nel 1982 grazie allo scrittore statunitense William Gibson.
La VR ha un antenato nel “Sensorama” inventato da un cineasta americano diplomato regista in Italia al Centro Sperimentale di Cinematografia; il suo nome (che avrebbe meritato maggiore fortuna) è Morton Helig.
Si tenga presente che Helig pur essendo uomo d’immagini proveniva da studi di filosofia, questa cosa la ritengo importante perché la VR, fin dalla sua preistoria, sorgeva in chi conosceva l’importanza degli interrogativi sulla realtà.
Per fruire della simulazione sensoriale nella VR, è necessaria una complessa attrezzatura che, però, va via via nel tempo semplificando i suoi strumenti: visore 3D, casco, guanti chiamati “dataglove”.

In un vicino futuro come scrive Andrea Carobene "... una sempre maggiore verosimiglianza con ambienti reali consentirà di utilizzare la realtà virtuale per analizzare con sempre maggiore precisione le reazioni di un individuo di fronte a determinate condizioni, anche estreme. In questo modo, per esempio, si potrà valutare l'efficienza dei dispositivi e delle uscite di sicurezza di un palazzo simulando un incendio e verificando il comportamento di chi vi si trovasse coinvolto. O anche semplicemente progettare la migliore disposizione delle merci all'interno di un grande magazzino analizzando le reazioni dei consumatori di fronte ai diversi stimoli di un ambiente virtuale che riproduce gli scaffali”.

Spiegare il funzionamento di questo dispositivo elettronico non è facile e ancora più difficile spiegarlo ai giovanissimi anche se però i cosiddetti “nativi digitali” hanno una capacità d’apprendere le nuove tecnologie superiori a quella dei loro genitori.
Quest’impresa divulgativa è stata condotta felicemente dalla casa Editoriale Scienza pubblicando Realtà Virtuale Scopri come funziona e vivi 5 fantastiche esperienze in 3D.
Testo di Jack Challoner, immagini di Emma Hobson.
Il volume, infatti, accanto all’illustrazione, in termini i più semplici possibili, di che cosa sia la VR, contiene un cofanetto dove i ragazzi sono chiamati a cimentarsi nella costruzione di un visore 3D del quale sono forniti tutti i pezzi necessari e le istruzioni per il montaggio.

Jack Challoner
Realtà Virtuale
Traduzione di Paola Vitale
Disegnatrice: Emma Hobson
Con visore da costruire
Pagine 32, Euro 18.90
Editoriale Scienza


Cosa farebbe Frida Kahlo?


Ancora oggi nel mondo scientifico solo un 5% dei vertici è donna, mentre è donna oltre il 60% della manovalanza e il 35% occupa ruoli di segreteria o amministrativi.
Nel 1999 l’Unesco ha creato un organismo per aiutare la donna a entrare nel mondo della scienza, a questo progetto ha dato il nome “Ipazia”.
Perché Ipazia? Perché Ipazia (370 - 415 d.C.), erede della Scuola Alessandrina, fu filosofa, matematica, astronoma, antesignana della scienza sperimentale; studiò e realizzò l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro.
Ne ebbe gioie? Mica tanto. Aizzati dal vescovo Cirillo nel marzo del 415 un pio gruppo di uomini di fede cristiana, guidati dal lettore Pietro, la sorprese mentre ritornava a casa, la tirò giù dalla lettiga, la trascinò nella chiesa costruita sul Cesareion e la uccise brutalmente, scorticandola fino alle ossa (secondo alcune fonti utilizzando “ostrakois” - letteralmente "gusci di ostriche"), e trascinando i resti in un luogo detto Cinarion, dove, giusto per andare sul sicuro, bruciarono quei resti.
Cirillo d’Alessandria? Fu fatto santo.
Del resto, che vogliamo aspettarci da quella parte se un Dottore della Chiesa qual è San Tommaso d’Aquino così scrive “La donna è fisicamente e spiritualmente inferiore (…) Essa è addirittura un errore di natura, una sorta di maschio mutilato, sbagliato, mal riuscito”.
Ovviamente, ben diverso il pensiero di Rita Levi Montalcini: "Geneticamente uomo e donna sono identici. Non lo sono dal punto di vista epigenetico, di formazione cioè, perché lo sviluppo della donna è stato volontariamente bloccato".

Queste righe per introdurre in questa nota un libro mandato nelle librerie dalla Casa Editrice Sonzogno intitolato Cosa farebbe Frida Kahlo? Lezioni di vita da 50 donne coraggiose.
Autrici: Elizabeth Foley e Beth Coates entrambe editor londinesi.
L’Ipazia sulla quale ho detto, fa parte delle donne presentate dalle due autrici come uno dei primi esempi comparsi nella storia di donne che hanno lasciato il proprio nome simbolo dell’affermazione femminile in società ostili.
Se chiedete a Foley e Coates qual è stato il loro metodo d’indagine e scelta dei personaggi citati nelle pagine, vi sentirete rispondere che hanno preferito quei casi che a loro avviso “sono riuscite a gestire affermazioni di sé, fallimenti, relazioni del cavolo, amicizie femminili, lutti. Imposture, tradimenti, figli (o loro assenze), impegno politico e cose cruciali come la paura di essere tagliate fuori, l’orgoglio per le proprie tette”. Già, perché fra i nomi che scorrono nelle pagine troviamo anche chi non si è fatta scrupolo di usare le armi del proprio fascino e dello scandalo per emergere, un nome fra tutti: Mae West.
E ancora: perché quel titolo? Perché da quelle donne di epoche così diverse fra loro, provengono esempi di vita e consigli buoni anche per i nostri tempi. La Kahlo, ad esempio, “sull’importanza di trovare il proprio stile dopo che un terribile incidente stradale la consegnò a una vita di strazianti dolori fisici”.
Le donne hanno affinato, nei secoli, una capacità politica e strategica che Angela Putino, filosofa napoletana e convinta femminista scomparsa nel 2007, definiva “Funzione Guerriera”. È una definizione che ben s’attaglia alle donne di questo volume.
Insomma un libro che è specchio per ieri, riflessione sull’oggi, monito per futuro.
Ancora una cosa. Fra i 50 nomi, solo 4 sono di italiane (Artemisia Gentileschi, Maria Montessori, Elsa Morante, Anna Magnani), non solo patriottismo vuole che mi sembrano un po’ poche, spero che in una successiva edizione s’aggiungano altri nomi che largamente meritano d’essere presenti in quel luminoso elenco.

Dalla presentazione editoriale
«Non ti va di avere figli? Non vedi l’ora di tradirlo? Il capo non ti lascia parlare? Vuoi tenerti i capelli bianchi e ti vuoi vestire da uomo? Essere donna e averne piene le scatole degli stereotipi è pesante, nella vita privata come in quella professionale. È evidente che il femminismo non ha completato la sua missione: se nel mondo di oggi c’è ancora da sudare, figuriamoci in quello di ieri. Allora chi meglio delle eroiche, spregiudicate e corsare figure femminili del passato può indicare la via giusta da seguire? Cleopatra insegna a tenere a bada i parenti serpenti, Frida Kahlo a sfoggiare con orgoglio il proprio stile (anche se non piace a tutti), Dorothy Parker a tenere testa ai maschi stronzi, Caterina la Grande a gestire i pettegolezzi, Agatha Christie a guarire dalle ferite d’amore, Hedy Lamarr da quelle della disistima altrui, Ada Lovelace a giocare d’azzardo. Dall’antichità all’Età dell’oro, dal vecchio West alla Parigi del dopoguerra, questa ricca carrellata di storie esemplari, tratte dalle biografie delle donne più illustri, compone una brillante miniera di consigli per affrontare le sfide di tutti i giorni con ironia, determinazione e, perché no, una buona dose di sfrontatezza».

Elizabeth Foley
Beth Coates
Cosa farebbe Frida Kahlo?
Traduzione di Ida Amlesù
Illustrazioni di Bijou Karman
Pagine 220, Euro 16.00
Sonzogno


Il caso Braibanti

In Italia ci sono stati processi che hanno caratterizzato un’epoca segnando grandi dibattiti non solo giudiziari perché investivano anche il costume. Vite condotte da politici e loro parenti sui quali gravavano ombre e sospetti oppure che riflettevano condotte giudicate appena pochi anni fa in modo abissalmente lontani non soltanto dalle leggi ma pure dal sentire di oggi.
Alla prima categoria va associato, ad esempio, il caso Montesi degli anni Cinquanta, alla seconda, esemplificamente, il caso Braibanti degli anni Sessanta.
Due momenti che si prestano ad un’analisi sociale e politica del com’eravamo e dal dove veniamo. Due casi che avvolgono in un solo nodo psicostorico derive ideologiche, tic religiosi, contrapposizione fra città e provincia, contrastanti modi d’intendere il pubblico e il privato, concezioni dell’azione politica di cui risentiamo ancora l’eco perché prodotta da un suono che, forse, ci è proprio: il tartufesco.

Ora Il caso Braibanti è approdato a teatro e, dopo un felice debutto milanese arriva, prima di visitare altre piazze, a Roma al Teatro Torlonia nell’ambito della XVIII edizione di Garofano Verde, rassegna ideata e diretta dal critico teatrale Rodolfo di Giammarco.
Il testo è pubblicato dall’editore Caracò.

In foto, un momento dello spettacolo in uno scatto di Alberto Molinari.

Dal comunicato stampa
«Il caso Braibanti” è nato dalla penna di Massimiliano Palmese.
Fabio Bussotti e Mauro Conte in scena sono diretti dal regista Giuseppe Marini.
Il caso rievoca uno dei più clamorosi scandali giudiziari della storia italiana del Novecento, il processo ad Aldo Braibanti (1922-2014), ex-partigiano torturato dai nazifascisti, artista, filosofo e naturalista. Nel giugno 1968, mentre nel mondo infiammava la Contestazione, e giovani e intellettuali chiedevano più libertà e più diritti, in Italia si apriva il processo-farsa a Braibanti “per aver assoggettato fisicamente e psichicamente” il ventunenne Giovanni Sanfratello. In realtà il ragazzo, in fuga da una famiglia autoritaria e bigotta, una volta raggiunta la maggiore età aveva deciso di seguire le proprie inclinazioni ed era andato a vivere a Roma con Braibanti. Non accettando l’omosessualità del figlio, il padre affidò Giovanni agli psichiatri con la speranza di guarirlo dalla “seduzione” che avrebbe subito, e denunciò Braibanti con l’accusa di plagio, un reato considerato già allora “un rudere giuridico”. Molti intellettuali denunciarono lo scandalo di un processo montato ad arte dalla destra più reazionaria del Paese in combutta con esponenti del clero e della “psichiatria di regime”. In favore di Braibanti intervennero Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Umberto Eco, Marco Pannella, Cesare Musatti, Dacia Maraini. Tutti i loro appelli caddero nel vuoto. Su un testo che Massimiliano Palmese ha costruito su documenti d’archivio, lettere e testimonianze, che ripercorrono tutte le fasi del processo, Giuseppe Marini ha costruito “un oratorio civile” scandito da incursioni di un sax live. Nei panni dei due protagonisti, Fabio Bussotti e Mauro Conte, che sempre in scena con il musicista Mauro Verrone, recitano anche la parte degli avvocati, dei preti, dei genitori, caratterizzandoli nelle rispettive inflessioni dialettali. Ne fuoriesce uno spaccato di Italia provinciale, clericale e omofoba».

Ufficio Stampa Teatro di Roma: Amelia Realino
mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net; tel. 06. 684 000 308 --- 345. 44 65 117

Teatro Torlonia
Il caso Braibanti
di Massimiliano Palmese
regia Giuseppe Marini
con Fabio Bussotti e Mauro Conte
musiche live Mauro Verrone
Produzione Diaghilev
Dal 30 novembre al 2 dicembre


Paolo Macry: Napoli

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un intenso saggio: Napoli Nostalgia di domani.
L’autore è Paolo Macry, nato a Sulmona nel 1946, storico dell’età contemporanea e commentatore politico. Tra i suoi libri per il Mulino: «Ottocento» (2002), «Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento» (2009), «Unità a Mezzogiorno» (2012).

Scrivere su Napoli è scrivere su di un terreno scivoloso, specie sul periodo che segue la cacciata dei Borboni che furono meglio di quanto si è scritto e peggio di quanto s’immagini.
Il merito principale di questo libro di Mary è d'aver bene illuminato quel passaggio che va dal 1799 al 1860 che pare riflettere il carattere fondamentale della città: migliore dei suoi lodatori, peggiore dei suoi detrattori.
Bene analizzato nel libro risulta, quindi, la prevalenza del concetto di plebe su quello di popolo, una plebe lacera, affamata, pronta a servire i vincitori in maniera talvolta, buffamente, eroica.
Una plebe marchiata dal detto (falsamente attribuito a Goethe che pure ne aveva dette di cosacce su Napoli) “Un paradiso abitato da diavoli”.
Una plebe che fece scrivere a Giacomo Leopardi (dopo un primo periodo d’entusiasmo per la città) in una lettera a Monaldo il 3 febbraio 1885: ”… ho bisogno di fuggire da questi Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e baron fottuti degnissimi di Spagnoli e di forche”.
Una plebe che, con la progressiva scomparsa dell’aristocrazia, ingloberà la borghesia e che – a mio avviso – ancora oggi è la forma mentis anche di chi in senso sociale ed economico plebe non è, ma pensa e opera in maniera plebea.
Una plebe che attraverso il tempo la troviamo quale braccio armato di Masaniello, forza antigiacobina, sostenitore del Borbone, elettrice del protoberlusconiano Achille Lauro, poi al servizio dei democristiani Gava padre e figlio, piazza nevralgica della Destra fino all’avvento di Bassolino. Qui si ebbe un periodo di rinascenza urbanistica, sorsero centri culturali di forza internazionale, tutto parve essere un periodo quasi fuori della continuità fino a quando proprio il napoletano Bassolino fece una scelta plebea. Cioè dell’arraffare. Accettò da D’Alema di diventare Ministro del Lavoro oltre che sindaco. Ministro del Lavoro in Italia! Dove non bastava (né basterebbe oggi) un impegno di 25 ore al giorno e contemporaneamente sindaco di Napoli? L’incanto si spezzò. Plebeo lui, plebei tutti.

Ci sono state nel recente passato accuse a Macry d’essere un diffamatore dei napoletani.
Francamente mi pare un’accusa demenziale. Si può essere d’accordo con lui oppure no, ma due cose sono improponibili nei suoi riguardi: l’assenza di serietà di studioso e l’assenza di un’avversione verso la città.
Anzi, a dirla tutta, mi pare che, specie quando analizza fatti e misfatti dalla metà del secolo scorso ad oggi, sia perfino tenero.

Sento la necessità adesso di comunicare al lettore di queste righe che io a Napoli sono nato e da lì sono fuggito facendo tesoro di quanto Eduardo, alla fine degli anni ’60, rivolto soprattutto ai giovani, gridò: “Fuitevenne!”. Andai via e non ne sono pentito, anche se Roma, dove vivo da molto, vada sempre più rassomigliando a Napoli.

Sulla bandella del libro “Napoli. Nostalgia di domani” leggo due frasi. C’è è scritto che Napoli è “Un mondo da pensare. O forse un modo di pensare”.
Sulla prima espressione, nulla da dire e tutto la condivido.
Circa il modo di pensare, quello non lo auguro a nessuno.

Dalla presentazione editoriale
«Napoli è una sorpresa che deve essere cercata senza pigrizie nella carne viva del suo corpo affollato, accettando le tensioni di un viaggio in territori ignoti. È un catalogo di possibilità che la storia ha reso talvolta drammatico. Uno specchio di intelligenze, passioni, ferite, in cui a ciascuno è dato ritrovare qualcosa di se stesso.
Napoli è uno di quei luoghi che ciascuno crede di conoscere anche se non li ha mai visti. Un immaginario spesso ideologico, fatto di stereotipi, di racconti ossificati, di un’infinita aneddotica. La città si giudica continuamente e viene continuamente giudicata. Sconta il pessimismo indulgente che non di rado gli stessi “nativi” si cuciono addosso e sconta la lontananza culturale, arcigna o paternalistica, di chi la osserva dall’esterno. Di Napoli, Paolo Macry tocca le nervature profonde, ripercorre i segni di un tessuto urbano bimillenario, i comportamenti di lungo periodo della popolazione. Insegue le fratture drammatiche della sua storia, le esperienze politiche che l’hanno segnata, fino alle vicende di tre sindaci-sovrani, Lauro, Bassolino e de Magistris. Ci trasmette la suggestione di una città difficile e mai rassegnata. Napoli, per chi voglia conoscerla, capirla, ritrovarla, continua a essere un mondo. Un mondo da pensare. O forse un modo di pensare».

Paolo Macry
Napoli
Pagine 218, Euro 15.00
il Mulino


Da Zero all'Infinito

Questo il titolo di una mostra antologica dedicata ad Adriano Spatola (Sapjane, 1941 – Sant'Ilario d'Enza, 1988), in foto, che si terrà presso lo Studio Varroni a cura di Giovanni Fontana e Piero Vannoni.
A proposito di Fontana, ricordo il suo recente Discrasie

Dal comunicato stampa.
«La mostra presenta opere e documenti di Adriano Spatola, uno dei più significativi esponenti della neoavanguardia italiana nel trentennale della scomparsa. Nonostante siano stati finora pubblicati diversi studi di rilievo, di Spatola, poeta, teorico e critico, c’è ancora molto da dire, specialmente per quanto riguarda la sua attività di sovvertitore di modelli linguistici ed espressivi, non solo nell'ambito poetico cosiddetto lineare, ma anche nel settore performativo, sonoro e visivo.
Lo Studio Varroni, in ragione delle peculiarità del proprio lavoro, ritiene di dover considerare questo trentennale come una buona occasione per rendere omaggio al poeta, ma nello stesso tempo per ridestare l'attenzione su un tema in continua evoluzione, ma che solo Spatola aveva saputo affrontare con le dovute densità e compiutezza, con sapienza tecnica e con verve polemica in un memorabile saggio pubblicato nel 1969: quello che tratta del possibile itinerario "verso la poesia totale". Un percorso che a tanti anni di distanza merita di essere rivisitato. Specialmente oggi che l'informatica e la complessità mediatica hanno aperto nuovi orizzonti di conoscenza, sembra particolarmente utile, se non addirittura indispensabile, affrontare la problematica con tutti gli aggiornamenti del caso. Del resto globalizzazione e vortici mediatici, allora impensabili, sono prodotti di trasformazioni radicali che inglobano fortemente l'universo linguistico e il
panorama delle arti e che innescano processi di usura vertiginosi. Lo stesso Spatola scrive nella premessa al suo saggio che "la poesia totale si consuma ad una velocità non più commensurabile".
Ciò è vero proprio perché costituisce una dimensione inglobante, fortemente dinamica, frattale, proprio come accade, del resto, nelle sue memorabili performance, dove il corpo diventa il centro di un campo di forze magnetiche collegate al mondo; ogni battito, ogni pulsazione è un modo di permettere la comunicazione, di favorire collegamenti iper-estetici. Il corpo è un tam tam che dissipa energie, che attua un processo di ionizzazione».

Adriano Spatola
“da zero ad infinito”
a cura di
Giovanni Fontana e Piero Varroni
Studio Varroni / Eos Libri d’Artista
Via Saturnia 55, int. 2 (angolo Piazza Epiro) – Roma
10 dicembre – 2 marzo 2019


Società Low Cost (1)

È nelle librerie, pubblicato da Mimesis, un nuovo lavoro di Stefano Cristante intitolato Low Cost 2011-2017: gli anni del grande scombussolamento .

Cristante insegna Sociologia della comunicazione e Sociologia della scrittura giornalistica all’Università del Salento. Ha scritto, tra gli altri: Potere e comunicazione (1999, 20042), Azzardo e conflitto (2001), Media Philosophy (2005), Comunicazione (è) politica (2009), Prima dei mass media (2011). Per Mimesis ha pubblicato La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo (con Valentina Cremonesini, 2015), Corto Maltese e la poetica dello straniero (2016), Andrea Pazienza e l'arte del fuggiasco (2017). Dirige la rivista internazionale H-ermes, Journal of Communication e la collana “Public Opinion Studies” della casa editrice Meltemi, per cui ha curato l’edizione italiana dell’opera di Elisabeth Noelle-Neumann La spirale del silenzio (2017).

Dalla prefazione editoriale
«Tra la fine del primo decennio del XXI secolo e i nostri giorni la parola globalizzazione è entrata definitivamente nel lessico occidentale e mondiale. A fare da sfondo a imponenti fenomeni globali (migrazioni, terrorismi, precarietà, nuove povertà) la crisi economico-sociale più forte del dopoguerra, accompagnata dall’affermarsi di nuovi populismi, di nuove ideologie e di nuovi leader. In decine di brevi scritti sociologici sotto forma di articoli giornalistici, il sociologo Stefano Cristante interpreta lo spirito del tempo, descrivendo le conseguenze e le ripercussioni degli eventi politici, sociali, culturali e di costume e analizzando le mosse dei principali protagonisti nazionali e internazionali di questi anni decisivi».

Segue ora un incontro con Stefano Cristante.


Società Low Cost (2)


A Stefano Cristante (in foto) ho rivolto alcune domande.


Chi sono i genitori della società low cost?

Paradossalmente, per offrire ai consumatori merci e servizi a basso costo servono grandi investimenti. Oggi non sono molte le aziende in grado di operare in questo modo, e quindi la primogenitura del low cost si deve alle grandi aziende tradizionali che non hanno colto l’occasione offerta dalle nuove tecnologie per rivoluzionare merci e servizi, offrendo quindi spazio a nuovi competitori spregiudicati e corsari. Ad ogni modo, genitori in senso stretto del low cost non ce ne sono: il capitalismo digitale e il neo-liberismo, con la loro scia di disuguaglianze abissali e di crisi permanente, svolgono bene il ruolo di portatori di framing, cioè di incorninciatori ideologici.

Ci aiuta ancora a comprendere quanto accade intorno a noi la contrapposizione Destra-Sinistra o è superata? Se sì o no, perché?

Certamente la contrapposizione destra-sinistra è superata: si tratta di un retaggio “topologico” della rivoluzione francese. D’altronde però anche ciò che si è ipotizzato dietro la coppia destra-sinistra è da rivedere: conservatori e progressisti non va bene (la nozione positiva di progresso è stata iper-criticata), e non sempre la destra è conservatrice. Non va meglio per reazionari e rivoluzionari. Resterebbe, per la “sinistra”, il baluardo dell’uguaglianza, ma in questi ultimi decenni è stato detto e fatto tutt’altro dalle sinistre al governo. Penso inoltre che la “sinistra” dovrebbe lavorare sul valore della fraternità, lasciato in mano ai religiosi, ma non mi sembra che questo sia ancora il tempo delle parole nuove o di quelle recuperate da grandi tradizioni: è il tempo della crisi, e va vissuto fino in fondo, che lo si voglia o no.

Quale ruolo hanno i media nella società low cost?

C’è bisogno di un’industria del senso in una società frammentata e complessa come la nostra. E c’è bisogno di chi smerci e rappresenti valori dominanti, come sempre. Se ora l’obiettivo è coinvolgere nel consumo di massa miliardi di individui, il ruolo dei media è quello di presentare una sorta di “naturalità” del low cost, con il corollario di una caduta dei diritti dei lavoratori e di una sciatteria diffusa, su cui il singolo cittadino è impotente. Ma i media devono anche cantare con aria scanzonata le magnifiche sorti e progressive del “poco per molti” (ma non per “tutti”).

Si parla nel libro anche del caso Regeni. Come s’inserisce nel panorama degli anni da te studiati? E si arriverà alla verità?

Il caso Regeni ha rappresentato il risveglio angoscioso dopo il sogno delle primavere arabe. Il paese più importante dell’area, l’Egitto, ha imboccato per l’ennesima volta la via della dittatura. Il dittatore di turno, il generale Al-Sisi, ha stretto le maglie dello spionaggio e della repressione su ogni forma di opposizione, compresa quella sindacale di una categoria di una certa importanza, quella degli ambulanti. Giulio Regeni investigava, come ricercatore sociale con borsa di studio inglese, proprio su quella realtà. Le sue ricerche davano fastidio al potere, che ha assimilato il ruolo di Giulio a quello di un sobillatore/eversore. Tutte le persone di buon senso si rendono conto che Giulio è stato torturato e massacrato da strutture parallele ai servizi segreti egiziani, ma la relazione tra Italia ed Egitto sembra troppo importante sul piano commerciale per costringere il nostro paese a esercitare tutta la pressione necessaria per fare davvero chiarezza. Tuttavia nelle università la storia e il nome di Giulio sono ancora sulla bocca di molti, e l’indicazione è di non mollare. All’Università del Salento il dottorato in Human and Social Sciences è dedicato alla memoria di Giulio Regeni, ricercatore.

Visto lo spazio a nostra disposizione, limitiamoci all’Italia su quanto segue.
Non dimentico che da anni sei un attento interprete dell’espressività artistica.
Quali ripercussioni ha avuto sulle arti – cinema, teatro, musica, letteratura, arti visive – i fatti politici e sociali da te studiati
?

Tutto ciò che si presenta come una specie di regalo (o di grosso sconto) agli utenti in realtà prevede di scaricare su di essi una parte del lavoro. È uno degli assi della società Low Cost. Ne deriva una certa sciatteria di fondo. Una parte dell’arte e della cultura contemporanea oppone a questa logica la qualità, o quantomeno la sua ricerca. Da un punto di vista generale, affermare che tutto è già stato scritto, detto, dipinto e rappresentato porta a uno stallo, dove la sciatteria del Low Cost si mescola agli ultimi residui del postmodernismo nella predicazione di una specie di riassemblaggio continuo dell’esistente, senza innovazioni sostanziali, senza rivoluzioni. L’arte che a me interessa si muove in tutt’altra direzione, e spero che interessi a un numero crescente di persone. Almeno per togliere il cattivo odore plasticoso del pre-fabbricato.

…………………………...

Stefano Cristante
Società Low Cost
Pagine 292, Euro 24.00
Mimesis


Outsider Art

La storica dell’arte Eva Di Stefano (QUI una sua sintetica biografia) annuncia la pubblicazione del numero 16 di Outsidedr Art.
Così dice nel flash che segue.

Questo nuovo numero è dedicato a un tema speciale quanto finora non frequentato per il quale abbiamo coniato un neologismo: “Archeobrut”.
Storie di autori spontanei con un immaginario arcaico le cui opere finiscono sul mercato dei falsi archeologici. In Sicilia e altrove.
Alcune di queste si trovano perfino al British Museum!
Inoltre, i disegni dei pazienti di Jung, un saggio di Thomas Roeske sull'incredibile cella dipinta dal detenuto tedesco Klingebiel, Bispo do Rosario raccontato da Lucienne Peiry, un saggio inedito di Mario Perniola, un'intervista a Bianca Tosatti, le ultime novità italiane dal campo
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Download gratuito da questo sito.
La copia stampata si acquista su Amazon al seguente link.


Buona lettura!


Passione dell'indifferenza. Francesco Lo Savio (1)

Prima di presentare il libro di cui mi occupo oggi, voglio dedicare uno spazio alla casa che lo ha edito: Humboldt Books.

Dal sito web dell’editrice: “Humboldt Books è una casa editrice specializzata in narrazioni ed esperienze di viaggio che dà vita a progetti editoriali interdisciplinari incrociando geografia e letteratura, fotografia e arte.
Humboldt Books collabora con artisti, scrittori, fotografi, designer e architetti internazionali, ne raccoglie le storie di viaggio – reali o immaginarie – e racconta queste esperienze con sguardo nuovo e non convenzionale.
Humboldt Books ritorna ai classici della letteratura di viaggio curandone nuove edizioni e riportando in vita avventure del passato che abbiano un gusto contemporaneo.
La casa editrice è stata fondata nel 2012 da Alberto Saibene e Giovanna Silva”.
In redazione. Chiara Carpenter e Stefania Scarpini.
Alle raffinate scelte editoriali, la Humboldt accoppia una veste grafica particolarmente elegante e un sito in Rete ben fatto.

Veniamo al libro: Passione dell’indifferenza Francesco Lo Savio.
L’autore: Riccardo Venturi.
È Ricercatore in Storia e Teoria delle Arti presso l’Accademia di Francia – Villa Medici, Roma (2018-2019). Ha pubblicato “Mark Rothko. Lo spazio e la sua disciplina” (Electa 2007), “Black paintings. Eclissi sul modernismo” (Electa 2008) e recentemente co-curato, con Silvia Lucchesi e Alberto Salvadori, la retrospettiva Francesco Lo Savio al MART di Rovereto. Scrive per “Artforum”, “Alias – Il Manifesto” (rubrica “Cristalli liquidi”) e conduce il blog Screen Tests su Doppiozero.
Mi piace ricordare, a proposito dell’eleganza grafica di cui dicevo prima che il volume vede designer Teresa Piardi del Maxwell Studio.

Francesco Lo Savio non è noto quanto meriterebbe.
Nato a Roma il 28 gennaio 1935, fratello di Tano Festa, nel 1958 presentò al pubblico le sue prime opere. Sposò la giovane marsigliese Marianne di Vettimo nel 1958. Ebbe fra i suoi pochi amici Toti Scialoja. Breve fu la sua attività, appena cinque anni perché morì suicida a Marsiglia dopo nove giorni di coma il 21 settembre 1963.
A lui Venturi ha dedicato un magnifico libro usando una scrittura di originale struttura narrativa, evitando ogni romanzeria, consegnando al lettore un ritratto che incrocia biografia e critica nello stesso, splendido, tessuto di scrittura.
Ne esce un ritratto in 3D di quest’artista dalla contrastata esistenza nella vita e nell’arte.

Dalla presentazione editoriale.
«Artista tra i più significativi della seconda metà del Novecento, Francesco Lo Savio (1935 – 1963) realizza i suoi lavori in un lasso di tempo molto breve, terminato con la morte a soli ventotto anni: una carriera bruciante, ricca di intuizioni colte solo dopo la sua scomparsa. In “Passione dell’indifferenza. Francesco Lo Savio” lo storico dell’arte Riccardo Venturi ricostruisce, in forma narrativa, gli ultimi anni della vita dell’artista in un testo a due voci. La prima voce ripercorre a ritroso, come il flashback di un film noir, gli episodi salienti dell’opera e della vita di Lo Savio. Incontriamo l’artista a Roma al vernissage deserto della sua ultima mostra personale; lo seguiamo in un albergo di Torino dove ha appuntamento con Pierre Restany; lo accompagniamo nel tragico gesto finale a Marsiglia, in una cellula abitativa dell’amato maestro Le Corbusier. A questa voce fa da controcanto una seconda traccia, un pensiero rabdomante che ricostruisce l’ambiente artistico e umano in cui Lo Savio si è trovato a vivere. Nella cornice dei vitalissimi anni Sessanta è boicottato a Milano da Fontana e Manzoni; acclamato a Leverkusen tra Reinhardt e Verheyen; osteggiato a Roma dagli artisti del Caffè Rosati; vegliato, infine, nei suoi ultimi giorni a Marsiglia, dall’amata Marianne e dal fratello Tano Festa. Completa il volume un profilo sull'opera di Lo Savio. Il volume colma una lacuna critica su un artista sempre più apprezzato in Italia e nel mondo e segue l’esposizione “Francesco Lo Savio” al Mart Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto».

Segue ora un incontro con Riccardo Venturi.


Passione dell'indifferenza. Francesco Lo Savio (2)

A Riccardo Venturi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nell’accingerti a scrivere il tuo libro quale cosa per prima hai deciso che era assolutamente da fare e quale per prima assolutamente da evitare?

Lo Savio è un artista con poco più di cinque anni di attività (1958-1963), intensi, brucianti, ma insufficienti per redigere una monografia classica che procede cronologicamente. Ne verrebbe fuori un artista minore, incompleto. Per cui si trattava anzitutto di trovare una strategia critica alternativa a questo modello dominante, che permettesse di mettere in valore la sua opera, che fosse calcato, in qualche modo, sulla sua opera. Scrivere una monografia critica per così dire, che mancava su Lo Savio come su tanti artisti italiani dello stesso periodo purtroppo, e di cui è più facile trovare il catalogue raisonné.
Ho trovato la soluzione nella struttura a spirale del libro, nel suo piglio cartografico e internazionale, nell’indagine del rapporto di Lo Savio – d’elezione o di distacco – con alcuni luoghi specifici. Un modo per far i conti con la città di Roma che così poco ha dato a Lo Savio che vi era nato.
Un altro parti pris (ce ne sono altri nel libro) è stato quello di tenersi il più possibile al modo del verbo presente. Mi sono sforzato d’immergermi nel presente di Lo Savio. Che ha vari vantaggi, non ultimo quello di poter parlare del suicidio al futuro, come qualcosa che non è ancora avvenuto. È una strana commistione temporale quella di poter indirizzarsi a un decesso avvenuto così violentemente al futuro, come a un evento (sempre) a venire.

In che cosa, di quali correnti Lo Savio è stato un anticipatore?

Sull’onda dell’entusiasmo, e vedendo quanto accaduto sulla scena internazionale dell’arte durante gli anni sessanta, è difficile non evocare il minimalismo. Del resto nel 1966 Richard Serra esponeva gli animali impagliati a La Salita, la stessa galleria romana in cui Lo Savio aveva esposto i suoi Metalli e Spazio-luce. Quando torna negli Stati Uniti diventa lo scultore che tutti oggi conosciamo. Che Serra si fosse ricreduto vedendo in magazzino le opere di Lo Savio, da poco scomparso? Ora, le questioni di primogenitura mi appassionano poco e non m’interessa sollevare un altro “affaire” Rauschenberg-Burri.
Quando mi chiedono – sempre più spesso a dir il vero – se Lo Savio abbia anticipato il minimalismo americano, esito a rispondere. Credo che il nodo della questione sia piuttosto nel modernismo, in una ipotetica via italiana al modernismo alternativa alla narrazione statunitense. Ma che resta da indagare soprattutto da noi storici e critici italiani, perché oggi sono sopratutto i nostri colleghi stranieri a parlare di un “modernismo italiano”.
Solo passando per questa strada – più lunga e impervia, lo ammetto – si potrà dar pienamente ragione del salto mortale di Lo Savio che, attraverso la Bauhaus e Le Corbusier, Malevich e Mondrian, si ritrova ad anticipare l’estetica minimalista. Forse sarebbe stato il primo a restare meravigliato.

Qual è stato il rapporto con le avanguardie del suo tempo?

Dipende da cosa s’intende con avanguardia. Lo Savio non esitava a considerare come sue figure di riferimento Malevich, Mondrian e Le Corbusier, il razionalismo e non dada, l’astrazione e non la pop, la spinta utopica e non il rapporto alto/basso. E’ vicino al tedesco Gruppo Zero, all’idea di Yves Klein di “sensibilizzare lo spazio vuoto”, al ritorno al monocromo della neo-avanguardia, alla sperimentazione di tecniche artistiche che lo conducono presto a una pratica post-studio…

Scrivi: “Dentro una bianca architettura di Le Corbusier Lo Savio si sposa, dentro una bianca architettura di Le Corbusier si toglie la vita”. Che cosa significò Le Corbusier per Lo Savio?

Nella frase che riporti si coagula un paradosso al cuore della vicenda esistenziale di Lo Savio: da una parte ammira Le Corbusier, studia la struttura della Cappella di Ronchamp, in cui vagheggia persino di aver sposato la sua compagna Marianne; dall’altra sceglie un’architettura lecorbusiana, l’Unité d’habitation di Marsiglia, come sua ultima dimora, visto che si toglie la vita in una stanza singola dell’albergo che Le Corbusier aveva voluto al suo interno per gli ospiti dei residenti – e che è ancora operativo.
Così di recente mi sono fatto coraggio e sono andato a dormire in una di queste stanze, che hanno mantenuto quasi intatto lo spazio, lo spirito e, in alcuni casi, persino il mobilio d’epoca. Solo allora mi sono reso conto che le stanze singole sono calcate sul modello del monastero de La Turette. Come se non vi fosse differenza tra il cliente di un albergo e un monaco nel chiuso della sua celletta.
Evoco quest’aneddoto per rilevare che tante contraddizioni sono, prima che nel rapporto irrisolto di Lo Savio con Le Corbusier, nel progetto moderno stesso. Del resto a Marsiglia l’Unité d’habitation è soprannominata Maison du Fada, cioè Casa dei matti – e ancora oggi il suo terrazzo lunare attira come mosche tanti potenziali suicidi.
Nella prima parte di “Passione dell’indifferenza” insisto sul rapporto mancato tra Lo Savio e Le Corbusier, uno dei tanti incontri mancati di cui è costellata la vita di Lo Savio – un artista che ha sempre tenuto l’architettura come principio primo, come ideale progettuale. Sebbene sia difficile immaginare la realizzazione di molti suoi schizzi e progetti, se si fa eccezione per la Maison au soleil, l’architettura restò, per Lo Savio, un potente e immaginifico operatore per i suoi scritti e le sue opere.
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Riccardo Venturi
Passione dell’indifferenza. Francesco Lo Savio
Pagine 158 con foto in b/n, Euro 16.00
Humboldt Books


Essere una macchina


La casa editrice Adelphi ha pubblicato un libro di vertiginosa lettura: Essere una macchina Un viaggio attraverso cyborg, utopisti, hacker, futurologi per risolvere il modesto problema della morte.
L’autore è Mark O’ Connell, nato a Dublino, collabora a “Slate”, “The Millions”, “The Guardian”, “New Yorker”.
È un'ottima pubblicazione principalmente per due ragioni: la particolarità dell’argomento che tratta e il modo in cui è concepita la scrittura.
Il tema è il Transumanesimo, la sua storia, le sue previsioni, i suoi protagonisti.
L’autore scrive sulla materia con taglio giornalistico e, senza banalizzare i contenuti, li rende di facile comunicazione.
Non fa un libro di filosofia, ma illustra una filosofia.
Perché O’ Connell non è un transumanista, è lui stesso a dirlo: “Non sono e non sono mai stato un transumanista. Sono sicuro di non voler vivere nel loro futuro. Non sempre, però, sono sicuro di non vivere nel loro presente
Qual è l’essenza del pensiero transumanista? In estrema sintesi: il transumanesimo è una corrente tecnofilosofica che prevede un’età in cui l’uomo entrerà in una vita postbiologica.
In altre parole si realizzerà una nuova specie in cui il nuovo passo dell’evoluzione non lo troveremo scritto in un libro di biologia ma in uno d’informatica.
Quando? Qui le ipotesi sono molteplici, ma c’è chi ha azzardato perfino date non lontane.
Un primo sostanziale passo lo segnerebbe la Teoria della Singolarità.
E qui, chi ancora non lo conoscesse, è bene faccia la conoscenza di Ray Kurzweil.

John Horgan (di lui Adelphi ha pubblicato La fine della Scienza,) avversario di Kurzweil, ben descrive, però, la faccenda: “la Singolarità si può declinare in molte versioni, ma la maggior parte di esse presuppone che si acceleri sulla strada del cervello bionico. In una prima fase diventeremo cyborg, e saranno i chip cerebrali a modificare la nostra percezione, la nostra memoria e la nostra intelligenza, eliminando la necessità di telecomandi. Kurzweil profetizza una fusione d'intelligenza biologica e non biologica che culminerà in ‘esseri umani basati su software immortali’. E l'avvento della Singolarità non è previsto nell'arco di un millennio, o di un secolo, ma di decenni”.
Fantascienza? A parte che la fantascienza ha avuto sempre ragione anticipando un mucchio di cose, a guardarci intorno qualche ascolto Kurzweil lo merita.
Kevin Warwick studia l'integrazione Uomo-Macchina innestando chips nel proprio corpo e pensa a nuove tappe del Cyborg Project dall'Università di Reading; secondo futurologi, non transumanisti, in un tempo meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di Spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli.

O’ Connell non si limita a fare la storia del Transumanesimo partendo dagli automi di un tempo e dalle teorie del medico e filosofo materialista La Mettrie ritenuto il fondatore delle scienze cognitive, perché s’inoltra anche fra quelli che si oppongono al futuro dell’Intelligenza Artificiale. Porta ad esempio chi transumanista anni fa, ha ritrattato in larga parte la posizione sostenuta una volta. È il caso di Nick Bostrom che illustra i pericoli possibili in un recente libro (“Superintelligenza, 2017). Riassumo l’Intelligenza Artificiale, afferma Bostrom, è una delle più grandi promesse dell’umanità; grazie ai suoi sviluppi, attuali e futuri, saremo probabilmente in grado di fare cose che oggi sarebbero impensabili, vivremo meglio, e magari più a lungo e più felici. E tuttavia c’è una nube minacciosa sopra il cielo dell’AI: siamo proprio certi che riusciremo a governare senza problemi una macchina «superintelligente» dopo che l’avremo costruita?
Fin qui, Bostrom.
In ogni caso, sia come sia, una cosa mi appare sicura, il futuro ci riserva un controllo sociale decisamente più attrezzato e invasivo rispetto ad oggi.

Anche dalle arti provengono segnali che prospettano il futuro.
Mesi fa incontrai Franz Fishchnaller che così mi disse: “Questo è un momento particolare, di intenso cambiamento strutturale. Con lo sviluppo della tecnologia elettronica e l’avanzato design delle interfacce uomo-macchina, le possibilità di accrescimento delle potenzialità del corpo umano attraverso la tecnologia elettronica si sono notevolmente ampliate. Questo si evince nelle protesi bioniche, nei bio-impianti, nei chips neuronali, nelle interfacce virtuali e nell’inserzione di impianti in rete e tecnologie elettroniche nel corpo umano. Le possibilità di vivere l’’intangibile si estende stimolando nuovi canali di percezione, portando ad altri stati, sentieri e atti di creazione. L’arte subirà senz’altro una profonda mutazione. La trasformazione della percezione spazio-temporale richiede un nuovo modo di elaborazione del pensiero, più astratto e interpretativo, più essenziale e trascendentale, nuove forme artistiche inizieranno a svilupparsi come codici visionari e nei prossimi anni la quantum physics e la string theory ci daranno molte sorprese”.

Fra i non avversi ma dubbiosi sulla validità del pensiero transumanista va annoverato chi si chiede se l’umanità ha davanti a sé tanta vita da conoscere quei traguardi pronosticati.
Già, perché un grande scienziato qual è Stephen Hawking, poco prima di morire, ha rivisto drammaticamente al ribasso una sua precedente previsione. Dicendo che la Terra e noi umani suoi abitanti abbiamo soltanto cento anni ancora prima che il nostro pianeta conosca la sua fine. Da qui, aggiunse, la necessità di trovare altri pianeti abitabili nel più breve tempo possibile.

E allora? L’autore chiude “Essere una macchina” riferendo un incontro alla Grinhouse Wetware con Marlo Webber che gli chiede: E se stessimo già vivendo nella Singolarità?.
E O’ Connell: Era un’ottima domanda, ho ammesso. Ci avrei pensato.

Dalla presentazione editoriale.

«Questo libro è un viaggio straordinario, proprio nel senso in cui lo erano quelli di Jules Verne. Tutto quanto O'Connell racconta sembra frutto di una fantasia vagamente allucinata. Solo che non lo è. I cilindri d'acciaio nel capannone criogenico vicino all'aeroporto di Phoenix contengono davvero i primi corpi umani in attesa di risvegliarsi in un futuro simile all'eternità. Ray Kurzweil, uno dei cervelli di Google, inghiotte davvero 150 pillole al giorno, convinto di vivere a tempo indeterminato. Elon Musk o Steve Wozniak sono serissimi quando dichiarano che di qui a poco la nostra mente potrà essere caricata su un computer, e da lì assumere una quantità di altre forme, non necessariamente organiche. Sì, il viaggio di O'Connell fra i transumanisti – fra coloro che sostengono che, nella Singolarità in cui stiamo entrando, i nostri concetti di vita, di morte, di essere umano andranno ripensati dalle fondamenta – porta molto più lontano di quanto a volte vorremmo. Regala sequenze indimenticabili, come la visita alla setta di biohacker che tentano di trasformarsi in cyborg. E apre uno dei primi, veri squarci sulla destinazione di una parte degli immani proventi accumulati nella Silicon Valley.
Che possibilità reali abbiamo di vivere mille anni? chiede a un certo punto O'Connell a un guru del movimento, Aubrey de Grey. «Qualcosa più del cinquanta per cento» si sente rispondere. «Molto dipenderà dal livello dei finanziamenti».

Mark O’ Connell
Essere una macchina
Traduzione di Gianni Pannofino
Pagine 269, Euro 19.00
Adelphi


Rapporto sulla libertà di pensiero nel mondo


Quali sono per noi atei i dieci paesi migliori e i dieci peggiori in cui vivere?
Dall’ottimo Ufficio Stampa dell’Uaar (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) guidato da Ingrid Colanicchia ho appreso che è stato presentato a Roma, presso la Sala stampa della Camera dei Deputati, il “Rapporto sulla libertà di pensiero nel mondo 2018” promosso dall’International Humanist and Ethical Union (Iheu), di cui l’UAAR fa parte.
L’edizione di quest’anno è la prima - da quando, nel 2012, l’Iheu ha iniziato a pubblicare il Rapporto - a contenere una classifica completa di tutti i paesi del mondo in base al livello di discriminazione nei confronti di atei, umanisti e non religiosi.
Il Rapporto 2018 mostra come: dove atei e agnostici sono perseguitati, di solito lo sono anche le minoranze religiose.

I dieci paesi peggiori in cui vivere per un ateo sono, in ordine: Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, Maldive, Pakistan, Emirati Arabi Uniti, Mauritania, Malesia, Sudan, Brunei.
Mentre i dieci migliori: Belgio, Olanda, Taiwan, Nauru, Francia, Giappone, São Tomé e Príncipe, Norvegia, Usa, Saint Kitts e Nevis.

E l’Italia?
L’Italia si piazza al 159° posto, subito dopo lo Zimbabwe e prima dello Sri Lanka.
A farci guadagnare questa poco invidiabile posizione sono diverse criticità: dall’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche al sistema dell’8 per mille; dalla massiccia presenza della Chiesa in tutte le istituzioni arrivando a condizionare spesso anche il palinsesto radiotelevisivo pubblico e privato. Non dimentichiamo, inoltre, che anche l’Italia è tra i paesi che puniscono la blasfemia (art. 724 codice penale) e che tutela il sacro in maniera particolare attraverso il reato di vilipendio, tra cui l’ultima, aggiunta nel 2006, che è una fattispecie speciale di danneggiamento che prevede fino a due anni di carcere.
Ricordiamo che il reato di blasfemia è stato abolito con un referendum di recente perfino nella cattolicissima Irlanda.
Nel mondo sono 71 i paesi in cui ci sono restrizioni legali all’espressione della blasfemia: in 18 è prevista una multa, in 46 la prigione, in 7 la condanna a morte (Afghanistan, Iran, Mauritania, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita e Somalia). 18 sono invece i paesi che criminalizzano l’apostasia: in 6 è punibile con la prigione (Bahrein, Brunei, Comore, Gambia, Kuwait, Oman) e in 12 con la pena di morte (Afghanistan, Iran, Malaysia, Maldive, Mauritania, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Yemen). Inoltre, la maggior parte di questi 12 paesi spesso considera la blasfemia come prova di apostasia.

Come già evidenziato in precedenti edizioni del Rapporto, uno dei punti in comune tra i paesi che meno garantiscono la libertà di espressione e di coscienza è che hanno codici legali in cui è profondamente radicata una visione conservatrice dell’islam. Questo non significa però che i paesi con una popolazione a maggioranza musulmana siano sempre e comunque tra i peggiori: ci sono Stati come il Burkina Faso e il Senegal che si piazzano, infatti, relativamente bene nella classifica (rispettivamente al 19° e al 55° posto), ben prima dell’Italia, tanto per capirci.

Siamo molto contenti di aver presentato il Rapporto in questa Sala Stampa della Camera dei Deputati – ha commentato Adele Orioli, responsabile iniziative legali dell’Uaar – perché è manifestazione di un interesse da parte delle nostre istituzioni. Un interesse quanto mai necessario e che speriamo si traduca in atti concreti perché se è vero che i problemi più gravi si riscontrano in Afghanistan, Iran eccetera, è anche vero che il nostro 159° posto dovrebbe indurre le istituzioni a muoversi con urgenza per colmare il gap che ci separa dai paesi ai primi posti della classifica.

A questo link è scaricabile il Rapporto nella sua versione integrale.


Gli ormoni cioè l'anima

L’epistemologa Maria Turchetto (in foto) – dirige con Francesco D’Alpa una pubblicazione a me cara: il bimensile dell’Uaar “L’ateo”.
Tempo fa, improvvisatasi astronauta, venne a trovarmi nella taverna spaziale che gestisco sull’Enterprise di Star Trek. Ripropongo quell’incontro perché, per merito suo, quella conversazione non ha perso smalto e interesse pur essendo avvenuta anni fa. Non troverete, però, il suo sito web che cito in quell’occasione. Quando la Turchetto deciderà di metterne una nuova edizione in Rete sarà sempre tardi.
Tante cose sono successe da allora che la vedono protagonista, ne cito, ad esempio, una: la pubblicazione di Sconfinamenti: scritti in onore di Maria Turchetto.

Passiamo ai nostri giorni. La troviamo a “Torino Spiritualità 2018” con una relazione dal folgorante titolo: “Gli ormoni, quello che gli uomini chiamano anima”.
Ne stralcio un passaggio.

«I materialisti esistono, anche se sono una minoranza e, nella storia della filosofia, rappresentano una “corrente sotterranea”, come diceva il filosofo francese Louis Althusser. Mi sento in dovere di affermarlo perché a volte le concezioni del mondo dividono gli uomini in fazioni che non solo non riescono a dialogare, ma non credono nemmeno l’una nell’esistenza dell’altra. Lo sosteneva un altro francese, più lontano nel tempo, Félix Le Dantec, un chimico positivista che all’inizio del secolo scorso scrisse un saggio intitolato “L’ateismo” (1907). Sostiene appunto Le Dantec che atei e credenti hanno un cervello configurato tanto diversamente da non credere gli uni nell’esistenza degli altri: “l’ateo è per il credente tanto verosimile quanto il credente per l’ateo”. Ciascuno pensa che l’altro menta, “reciti per ipocrisia o per orgoglio”. E gli do ragione: mi è capitato di discutere con credenti convintissimi che tutti credano in qualcosa, magari non nel Dio della Bibbia, magari nemmeno in un Dio vero e proprio, ma in un’“entità”, un “principio”, un “aldilà”, un “oltre”… insomma, “qualcosa di spirituale”. E mi è capitato di sbottare dicendo: “ma insomma, credi nella resurrezione dei morti, nella verginità della Madonna, negli angeli e nei diavoli… e non riesci a credere che esistano i materialisti? Nemmeno quando ne hai davanti uno?”. Sì, sono materialista. In modo integrale. Ed esisto, posso portare prove empiriche».


Polypoetry


La poesia sonora deve molto a Enzo Minarelli che da anni è attivissimo come autore nonché, custode e promotore internazionale della performance acustica.

"Enzo Minarelli” – scrive Pasquale Fameli – “è oggi tra i più notevoli promotori di un approccio poetico totalizzante, per la sua comprovata capacità di assimilare e coniugare forme e modi della poesia sonora in tutte le sue declinazioni, un atteggiamento in tutto e per tutto rispondente agli eclettismi fioriti sul finire degli anni Settanta".
"La qualifica che più compete a Enzo Minarelli” – aggiunge Renato Barilli – “è quella di poeta, magari risalendo nell'occasione al significato etimologico della parola, per cui si tratterebbe di un "fabbricatore" col materiale più nobile a disposizione dell'uomo qual è la parola, nei suoi due volti, sonoro e grafico".

In occasione del trentennale del Manifesto di Polipoesia (Valencia 1987-2017), esce ora Polypoetry 1987-2017 (Eduel, 2018) una raccolta di saggi che focalizza lo sviluppo di questa teoria performativa sia in Europa sia nelle Americhe.
Oltre ai testi dei due curatori (lo stesso Enzo Minarelli [creatore del Manifesto] e Frederico Fernandes) ci sono ricerche svolte da Lis Costa (Università di Barcellona), Jean-Pierre Bobillot (Università di Grenoble), Dean Suzuki (Università di San Francisco), Fabio Doctorovich (Università di Buenos Aires) ed artisti storici come, tra gli altri, Clemente Padin.
Il libro si pone come momento di riflessione su quanto è avvenuto fino ad ora sul terreno delle performance di poesia sonora, nel contempo rilancia la sfida verso un futuro dove questo tipo di disciplina non ha per nulla esaurito la sua carica propulsiva, anzi, resta viva più che mai proprio alla luce delle nuove tecnologie a disposizione del polipoeta.

Polypoetry 1987-2017 può essere acquistato sul sito di Eduel e su Amazon.


Un Museo della psichiatria.

Il titolo di questa nota si riferisce a quello di Reggio Emilia.
Che non è uno dei tanti, ma il più grande d’Europa.

Dal sito web del Museo.

«Il “Padiglione Lombroso”, uno degli edifici simbolo del complesso manicomiale del San Lazzaro – che dal 2 marzo 1945 al 6 dicembre 1948 ha ospitato anche il pittore Antonio Ligabue – è stato trasformato in Museo della psichiatria e aperto al pubblico il 30 settembre 2012. Per quasi un secolo luogo di dolore e costrizione, il museo permette ora di evocare la particolare atmosfera che lo ha caratterizzato. Sono stati rispettati i suoi spazi originali, i materiali, i cromatismi e le tracce del degrado che ne hanno segnato l’esistenza.
In mostra gli strumenti scientifici, di contenzione e di terapia quali camicie di forza, macchine per l’elettroshock, caschi del silenzio per isolare i pazienti, l’urna per la goccia d’acqua, tragiche testimonianze del come i pazienti venissero considerati ‘malati pericolosi per la comunità’.

Le operazioni di restauro, supervisionate dalla Soprintendenza ai Beni architettonici e ambientali, hanno riservato particolare attenzione alla conservazione dei graffiti eseguiti dai pazienti anche all’interno delle celle, realizzati nei modi più diversi, addirittura con le suole delle scarpe, nel probabile tentativo di evadere dal loro mondo di isolamento.
Quando è stato progettato (nel luglio del 1891 dall’ingegnere Angelo Spallanzani ed edificato un anno dopo) il padiglione Lombroso è stato chiamato “Casino Galloni”, in onore del primo direttore del San Lazzaro. Serviva per i malati cronici tranquilli. Tuttavia, fin dall’inizio, il “Casino Galloni” era circondato da mura, probabilmente perché nelle vicinanze sorgeva il “Villino Livi”, riservato a pensionati ricchi.
Con l’introduzione della legge del 1904, che rendeva obbligatoria l’istituzione presso i manicomi di una speciale sezione d’isolamento per “pazzi criminali dimessi” e “detenuti alienati” nel 1910 il “Casino Galloni” viene trasformato nella “Sezione Lombroso”, così chiamata in omaggio a Cesare Lombroso, famoso studioso di antropologia criminale.
L’edificio arriverà a ospitare una settantina di reclusi e, a partire dal 1923, accoglierà anche i malati condannati a pene di breve durata.
Solo nel 1972 l’edificio viene definitivamente abbandonato e ne viene abbattuto il muro di cinta».

CLIC per la Galleria fotografica

Di seguito, un’articolata ricostruzione della storia del Museo in un recente intervento in video dello psichiatra Gaddomaria Grassi Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e dipendenze patologiche della Ausl di Reggio Emilia e Presidente del Centro di Storia della Psichiatria.

Le visite (necessaria la prenotazione) si svolgono il sabato pomeriggio e sono guidate in modo eccellente – ne parlo da testimone – da Francesca Poli che illustra la storia del luogo non mancando di porla su sfondi storici e letterari.
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Parte integrante e preziosa del complesso è la biblioteca Carlo Livi.
La dirige Chiara Bombardieri, (in foto), che è Conservatrice del Museo di Storia della Psichiatria e Responsabile dell’Archivio S. Lazzaro.
È stata curatrice con Gaddomaria Grassi del libro collettaneo Il policlinico della delinquenza. Storia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani.
Per conoscerla meglio, ecco un'intervista rilasciata alla rivista Exagere e QUI un suo articolo.

A lei Cosmotaxi ha chiesto di tracciare un ritratto della biblioteca.

«La biblioteca scientifica “Carlo Livi” è nata negli ultimi decenni dell’800 dai lasciti dei direttori dell’Istituto psichiatrico San Lazzaro ed è stata la biblioteca dell’ospedale fino alla sua chiusura; oggi è di proprietà della Ausl di Reggio.
Il patrimonio librario conta oltre 18000 volumi, comprende diversi testi storici ma viene anche costantemente incrementato con nuovi acquisti; le principali aree di interesse sono: psichiatria, psicologia, pedagogia, farmacologia e scienze sociali. E’ molto ricca anche la sezione delle riviste specializzate: oltre alle circa 750 testate del fondo storico, sono ancora attivi gli acquisti di oltre 100 periodici scientifici, italiani e stranieri. I film in dvd sono circa 800, per la maggior parte ammessi al prestito.
Siamo consapevoli di avere un patrimonio davvero raro, sia per la parte storica che per gli aggiornamenti correnti, ed è nostra intenzione metterlo il più possibile a disposizione di chi sia interessato. Proprio per questo abbiamo pubblicato sul nostro sito https://www.ausl.re.it/biblioteca-scientifica-carlo-livi i nostri cataloghi, gli inventari dell'archivio e la riproduzione di tutto il nostro fondo fotografico. Abbiamo dedicato una sezione anche alla collana editoriale "Le colonne d'Ercole" creata con il Liceo delle scienze umane "Matilde di Canossa" per la pubblicazione di testi tratti dal nostro archivio.
Studenti, ricercatori, professionisti e cittadini sono sempre i benvenuti in biblioteca e in archivio, perché ogni loro esperienza ci arricchisce di conoscenze sul nostro patrimonio».

Cosmotaxi prossimamente tornerà a Reggio Emilia per occuparsi di un convegno che si terrà a Palazzo Magnani nel corso di una grande retrospettiva (dal 17 novembre 2018 al 3 marzo 2019) dedicata a Jean Dubuffet, a cura di Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger.
In quell’occasione ospiteremo un’intervista con Gaddomaria Grassi.

Museo di Storia della Psichiatria
Via Amendola 2
Area ex San Lazzaro
Tel. 0522 - 45 64 77
Reggio Emilia


Marta Roberti


Chi è Marta Roberti? E perché parlano tanto bene di lei?
Da qualche tempo, infatti, più critici hanno scritto sulla sua opera, più curatori l’hanno invitata alle mostre che organizzano, gli inviti all’estero – come scriverò fra poco – si moltiplicano, e anche il mercato va interessandosi alla produzione di quest’artista.
Forse uno sguardo QUI un po’ aiuterà a capire perché.
E un clic QUI non guasta per conoscere il suo pensiero tra una residenza e l’altra.
Nata nel 1977 a Brescia, va via di lì a 18 anni per studiare filosofia a Verona. Mentre era all'università, frequentava corsi di disegno e ha cominciato a dedicarsi intensamente alla pittura, ma in realtà, come ha detto “Credevo di voler fare la scrittrice”. Dopo aver vagabondato per il mondo qualche anno, ha frequentato tra il 2006 e il 2008 il biennio specialistico di Cinema e Video all'Accademia di Brera a Milano.

In foto: dalla serie “African blind (black) herbarium”, n.13, 20 x30 cm, disegno su carta grafite.

Di recente ha tenuto workshop in Sudafrica e in Etiopia.
Le ho chiesto di parlarne.

«I workshop che ho sviluppato a Johannesburg e ad Addis Abeba si sono svolti grazie al sostegno degli Istituti italiani di cultura di queste due città. In Sud Africa il workshsop è stato curato da Astrid Gebhartd, per la settimana dell’arte di Johannesburg e si è svolto nel giardino botanico della città, un parco enorme, nel cuore di Johannesburg dove è stata creata, con più di 10 milioni di alberi, la più grande foresta prodotta dall’uomo. In Etiopia il workshop è stato curato da Meskerem Assequed si è svolto nello Zoma Museum, ideato e curato dalla stessa Meskerem e costruito dalle mani dell’artista etiopie Elias SIme, utilizzando la tecnica locale di costruzione con il fango. Ha realizzato un museo completamente integrato con i vasti giardini ed orti che lo circondano, che comprendono anche un asilo in cui I bambini imparano a coltivare verdure e ad allattare le mucche.
Non potevo trovare un luogo più appropriato per il workshop che consisteva nel disegnare piante con una tecnica particolare chiamata 'Blind drawing' o (disegno cieco). Cieco non perchè gli occhi siano chiusi, al contrario,aperti e fissi su ciò che si vuole disegnare, ma ciechi rispetto al foglio su cui si disegna che non si può giardare, e non avendo idea di ciò che si sta tracciando ci si concedono quegli errori e quelle fortuità che mai avverrebbero quando si vuole di controllare il risultato. Mentre si disegna non si stacca lo sguardo dalla pianta e l’occhio diviene un organo nomade ed è come se accarezzasse ciò che guarda guidando la mano che si muove sul foglio come se ricalcasse ciò che l’occhio vede. Il Blind drawing è stato inventato da Kimon Nicolaides, nel libro “Natural way to draw”, e ripresa da Betty Edwards in “Disegnare con la parte destra del cervello”. È una tecnica che spegne il ronzio dell’emisfero sinistro in cui i pensieri e la logica vorrebbero seguire un progetto oppure dare vita a una rappresentazione, una riproduzione che segua un preciso stile o idea estetica. Mi è sembrato che quel tipo di concentrazione che si ottiene corrispondesse a quell’idea di visibilità espresso da Merleau Ponty in “L'occhio e lo spirito” affermando che la visibilità è un'operazione strutturale dell'Essere stesso in cui il mondo si vede attraverso noi stessi. DIsegnando tracciavo ciò che nel veduto propriamente si vedeva attraverso di me».

A proposito dei suoi tanti impegni, da domani, fino al 7 dicembre di quest’anno, a Roma presso Label201 (Via Portuense 201; info@label201.com) partecipa alla mostra “unnature” che così è presentata da un comunicato stampa: È una mostra trasversale di arte e design sul rapporto natura e artificio e il suo lato oscuro. Primo appuntamento di un ciclo di mostre a cura di Label201 che ha come protagonisti una selezione di lavori dei designer con studio all’interno del distretto Portuense201.
Il tono dominante è il nero, colore che riconduce al sentimento della paura e dellʼinquietudine che la natura può generare nellʼinconscio dellʼuomo.
Un legame profondo e inconsapevole lega i lavori in mostra nati da quattro artisti/designer che si muovono in differenti ambiti di ricerca: Copihue Floral Studio, Lucamaleonte & Paolo De Giusti per Superology, Marta Roberti, Millim Studio per Secondome
.


Incontro con Italo Spinelli

A Roma dal 2000 agisce Asiatica Film Festival considerato in Italia e all’estero il più autorevole Festival esistente in Europa fra quelli dedicati al cinema asiatico.
La rassegna, ideata e diretta dal regista Italo Spinelli, oltre a presentare pellicole inedite in Italia, si avvale d’incontri con autori e produttori asiatici, presentazioni di libri e studi sulle dinamiche culturali e sociali di quei lontani paesi.
Quest’anno il Festival si è svolto al Nuovo Cinema Sacher, mentre mostre e dibattiti sono stati ospitati dall’adiacente Palazzo WeGil.

Ho incontrato Italo Spinelli (in foto) e fatto con lui quattro chiacchiere.

Italo, un flash su com’è andata quest’edizione di “Asiatica”.

Al Nuovo Sacher 32 film da 23 paesi, al WeGil oltre 25 incontri con registi, scrittori, traduttori, giornalisti, personalità del mondo culturale.
Dall’estero, abbiamo ospitato autori dei film in competizione.
Uno spettacolo di danza Sufi ha aperto la 19° edizione.
Il Festival ha avuto 9 mila spettatori

È identificabile oppure no un elemento comune delle cinematografie asiatiche?

È molto difficile individuarlo perché si tratta di un continente molto vasto, il più grande del mondo, dalla Turchia confinante l’Europa, dal Mediterraneo, al Mar Rosso, il Golfo, l’Oceano Indiano, fino all’Oceano Pacifico in Giappone.
Abbiamo mostrato, come ti dicevo prima, opere provenienti da 23 paesi, con molti elementi diversi fra loro. Per esempio, il cinema iraniano o turco, ha peculiarità, che non si riscontrano a Bollywood, salvo che entrambi sono influenzati – almeno nel cinema d’autore – ancora dal neorealismo italiano. È un intreccio frastagliato, articolato, il cinema asiatico si svolge in ambienti di narrazione molto diversi, da Istanbul alla Siberia.
Posso aggiungere, questo sì, che Bertolucci ha seminato con “L’Ultimo Imperatore” una generazione (la quinta e la sesta, dalla fondazione del Partito comunista) di registi capaci d’imporsi a livello internazionale e che, in quest’edizione di “Asiatica” un elemento ricorrente lo si è visto sul tema dell’emigrazione. Storie di donne, del loro potere, in territori reali e terre immaginate. Una geografia di esili, visioni di diverse culture, dove è il cinema a immaginare un codice tra reale e finzione, dove è possibile scambiarsi parole e immagini, senza guerre, senza conflittualità.

Come se la passa da quelle parti il cinema indipendente?

Il cinema indipendente, senza voler generalizzare, in molti paesi asiatici deve confrontarsi con la censura, il controllo politico, religioso, sociale e, inoltre, la mancanza di una distribuzione nelle sale cinematografiche del proprio paese. Sono i Festival internazionali, con le loro fondazioni e istituzioni, che spesso sostengono il cinema indipendente, particolarmente l’Europa. Ci sono anche alcune istituzioni dei paesi del Golfo, gli Stati Uniti, con i Fund o la co-produzione, dallo script alla postproduzione, ed è principalmente nei Festival che trova spazio la distribuzione di un certo cinema, molto di frequente con una visione critica del proprio paese o degli effetti drammatici della globalizzazione.

E i rapporti fra le altre produzioni e le tv?

Le piattaforme digitali sono tra i maggiori produttori di cinema, la fruizione del prodotto va ben oltre la sala e\o la televisione.

Da 19 anni dirigi questo Festival che hai ideato. A te regista che cosa ha dato?

La libertà e il lusso d’innamorarmi di culture non eurocentriche e coltivare questi amori.
Vorrei aggiungere che le migrazioni sono migrazioni di persone, migrazioni d'immagini in movimento


Gli special di Cosmotaxi

Cosmotaxi Special per il Festival Robotics

Trieste, 17 – 28 novembre 2018


Festival Robotics

Il binomio di Newton è bello come la Venere di Milo.
Il fatto è che pochi se ne accorgono.

Fernando Pessoa



Festival Robotics: il profilo


Da sabato 17 a mercoledì 28 novembre 2018 si svolgerà a Trieste, Capitale Europea della Scienza 2020, il Festival Robotics Arte e Robotica, ideato e diretto da Maria Campitelli alla guida del Gruppo ‘78.
Spettacoli, performance, workshop, sperimentazione educativa, rassegne di video-arte nell’area di nuovo resa praticabile di Porto Vecchio; il coinvolgimento della città è espresso dalla partecipazione d’Istituti di Ricerca, Scuole, Università, Gallerie d’arte, Imprese.
L’ Anteprima del Festival si è avuta a Città del Messico, nel settembre di quest’anno,

Dopo il successo di Arte/Scienza/Tecnologia del 2016, viene riproposto il tema in maniera approfondita, trasformando quell’evento in un Festival di Arte e Robotica.
Il progetto è un osservatorio su ciò che accade nel mondo della scienza, della tecnologia, dell’arte quando scambiandosi i reciproci saperi, le reciproche esperienze, si muovono nella prospettiva dell’innovazione, nella tensione filosofica e tecnica verso un futuro annunciato e definito “post-umano”.
La velocità con la quale siamo proiettati verso il futuro è tale che perfino cose nuove e nuovissime hanno già un retroterra storico. Ciò è tenuto presente dal Festival che dedica una sua sezione a maestri che hanno compiuto le prime esperienze fra arte e robotica: Stelarc, cipriota di origine, australiano d’adozione, lo spagnolo Marcel Lì Antunez Roca, dei quali saranno presentati video.
Una ricognizione nel mondo storico degli automi, settore particolarmente prezioso, si realizzerà con la collaborazione di musei svizzeri specializzati.

Per entrare nel sito web (ideazione fucine.it) del Festival: CLIC!

Ecco la presentazione del Festival in un video di Guillermo Giampietro artista argentino residente a Trieste.


Festival Robotics

I più grandi scienziati sono sempre anche degli artisti.

Albert Einstein


Robotics Festival: Scenari futuri

L’importanza di questo Festival, tanto bene ideato e programmato nelle sue tante sezioni, è data dal tempo storico e filosofico che viviamo.
Interviene, infatti, nel momento in cui un’epoca sta sopraggiungendo cambiando non soltanto regole sociali (questo è già avvenuto nel passato anche se non con la radicalità di oggi), ma perfino con la possibilità che sia il nostro stesso corpo a cambiare avviandosi, come autorevoli studiosi sostengono, verso un futuro post biologico.
Già nel presente avvengono importanti cose, segnali di quanto potrà ancora avvenire.
Il rapporto fra Arte e Scienze, ad esempio.
Dopo secoli sono tornate a far parte dello stesso territorio al quale sempre appartenute (si pensi al Rinascimento): quello della creatività umana senza perniciose partizioni.
La divisione idealistica fra i due campi del sapere è caduta, speriamo per sempre.
Ha scritto Paul Feyerabend in ‘La scienza come arte’: “Ogni opera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d'arte è arte e scienza. Solo come spontanea è l'arte nella scienza, così spontanea è la scienza nell'arte”.
Pensiero di grande attualità oggi con l’intreccio multidisciplinare, con forti richiami alle scienze e alle tecnologie, che è alla base del procedere artistico sia nelle arti visive sia nella musica e perfino in letteratura dove, ad esempio, la mescolanza di suoni, immagini e testo varia a ogni riproduzione in “The set of the U” del francese Philippe Bootz, uno dei padri del sottogenere della poesia elettronica; oltre cinquecento combinazioni, invece, in “Bromeliads”, opera in prosa dell'americano Loss Pequeño Glazier, ritenuto con Bootz e lo statunitense Michael Joyce (scrittore d’ipertesti) tra i principali autori di eLiterature”.
E che dire poi di quanto accade nelle arti visive, nella musica, nel teatro tecnosensoriale?

L’intersezione fra la ricerca estetica e quella scientifica sorge anche da luoghi non deputati a quella specifica ricerca. Si pensi ad esempio a quegli artisti che s’interessano alla Singularity University (diretta da Ray Kurzweil, sostenuta da Google e dalla Nasa) che ha per finalità la creazione di una generazione di scienziati in grado di gestire il passaggio dall’umano al post-umano; in grado, cioè, di affrontare il momento in cui i sistemi dei computer avranno la capacità di programmarsi da soli, dall’intelligenza artificiale saranno raggiunte accelerazioni che supereranno le facoltà e le capacità dell’uomo. In altre parole, si assisterà alla nascita di una nuova civiltà technotransumana determinata principalmente dallo sviluppo della genetica, della robotica cognitiva, delle nanotecnologie.

Plurali e affascinanti sono i tracciati che incrociandosi sviluppano nuove forme di conoscenza. Negli ultimi anni, ad esempio, le neuroscienze hanno manifestato un crescente interesse nei confronti dell’arte non solo per studiare il funzionamento del cervello, per comprendere in che cosa consista l’esperienza degli ‘oggetti artistici’ frutto dell’espressione creativa umana. Difatti, I temi dell’arte e dell’estetica si possono investigare, anche grazie a nuove tecnologie e da una nuova prospettiva, quella di un’estetica sperimentale che studi le risposte del cervello e del corpo per mettere in luce le componenti ‘invisibili’ indotte dal visibile artistico.
Come le neuroscienze possono aiutarci a capire l’esperienza delle opere d’arte?
Risponde Semir Zeki, in un prezioso studio “La visione dall’interno”, padre della neuroestetica, nuova disciplina che affianca un approccio neuroscientifico alla consueta analisi estetica dell’ideazione e della fruizione di opere d'arte.

Il futuro rispetto a secoli e perfino decenni fa ha cambiato aspetto e tempo d’inverarsi.
Un uomo morto dopo l’invenzione della stampa e immaginiamolo rinato due secoli dopo, certamente troverebbe cose nuove ma non tanto da imbarazzarlo.
Immaginiamo, al contrario, un tale morto alla fine del 1968 e rinato oggi tornerebbe a rintanarsi nella tomba: viaggio di umani sulla Luna, prima uscita di un satellite artificiale fuori del nostro sistema solare, telefonini, internet, trapianti chirurgici di più organi nello stesso intervento, realtà virtuale, esoscheletro che già permette passi a chi prima era consegnato all’immobilità. Senza dire i cambiamenti di costume intervenuti perché influenzati da nuovi modi dell’esistere.
Mark O’ Connell in un recente libro Adelphi (“Essere una macchina”) avvicina gente quali Elon Musk o Steve Wozniak che affermano che di qui a poco la nostra mente potrà essere scaricata su di un computer e da lì assumere una quantità d’altre forme, non necessariamente organiche. Oppure il famoso biochimico inglese Aubrey de Grey (è impegnato nel progetto SENS > Strategies for Engineered Negligible Senescence) che afferma essere possibile per un umano vivere mille anni. “Com’è possibile!” – esclama O’ Connell – “Dipende solo dai finanziamenti che otterremo per la ricerca” risponde serenamente de Grey.
Eppure una delle cose che ascoltiamo più di frequente da tanti sono le lodi del passato sempre unito a un’accigliata condanna dei nostri giorni dove “con queste diavolerie chissà come andremo a finire”. Perché tanti arretrano di fronte all’oggi, e, peggio, al futuro che scienza e tecnologia propongono a ritmi sempre più accelerati? Perché si rifugiano in un passato immaginato, chissà perché, sempre migliore del presente. Sono gli stessi che parlano male del progresso, ma ben felici che sia stata inventata l’anestesia quando siedono dal dentista.
Michel Serres (“La mente filosofica più fine che esista in Francia”, diceva di lui Umberto Eco) li condanna severamente nel suo “Contro i bei tempi andati”. Ai catastrofisti non consente loro alcun vagheggiamento del buon tempo andato: “Ogni nostalgia del ‘prima’ dovrà mostrare il proprio volto ipocrita di difesa e chiusura preconcetta al nuovo”.


Festival Robotics

Molti sono spaventati dal nuovo, a me terrorizza il vecchio.

John Cage


Festival Robotics: Maria Campitelli

Trieste, quanto a conoscenza dell’arte contemporanea, deve moltissimo a una donna il cui nome è ben noto da anni nello scenario internazionale della nuova espressività: Maria Campitelli (in foto).
Teorica delle forme intermediali, esploratrice dell’intercodice, da oltre trent’anni, infatti, svolge un’opera di diffusione delle nuove frontiere della ricerca artistica.
Triestina, figlia dell’artista Giuseppe Matteo Campitelli, laureata in Lettere a indirizzo moderno presso l’Università cittadina con una tesi sui mosaici bizantini della cattedrale di San Giusto, è stata assistente alla cattedra di Arte paleocristiana all’ateneo triestino. È passata poi all’insegnamento di Storia dell’arte negli istituti medi superiori. Ha fatto parte di commissioni per spazi pubblici tra cui il Curatorio del Museo Revoltella e ha organizzato centinaia di mostre e rassegne sempre incentrate sulla contemporaneità.
Ricordo ai più distratti che alla fine degli anni Settanta, con il Gruppo ’78, portò a conoscenza della città l'Azionismo viennese e altre forme performative di estrema avanguardia.
Il Festival “Robotics”, da lei ideato, rappresenta, quindi, un ulteriore sviluppo della sua verifica dei momenti centrali della vita delle arti. In un momento in cui, dopo l’abbattimento della separazione tra i linguaggi, le arti incontrano tecnologie le quali trasformeranno un giorno, prima ancora della produzione estetica, gli stessi artisti, immersi in un futuro postumano, e, forse, post biologico. Si pensi a quanto già in parte accade con Stelarc, Marcel Lì Antunez Roca presenti in video nel programma del Festival.
Tutto questo a Trieste, città che si accinge a diventare Capitale della Scienza nel 2020.

A Maria Campitelli ho rivolto alcune domande.

Quali le principali motivazioni che ti hanno spinto a quest’impresa di Robotics?

Credo che l’avventura inizi qualche anno fa quando ho conosciuto degli artisti che erano anche scienziati, uno in particolare, il messicano Manolo Cocho che leggeva l’universo filtrando, attraverso l’arte, le attuali conoscenze scientifiche dalla teoria del caos alla fisica quantistica, alla teoria della complessità, Da qui è nata un’esigenza di apertura ad altri saperi, una necessità di contaminazioni, ibridismi, che mi sembra uno degli aspetti fondanti della cultura del nostro tempo. La tecnologia consegue alla scienza stravolgendo il mondo e i nostri sistemi di vita. In quest’ambito ho conosciuto Paolo Gallina, docente di robotica all’Università di Trieste, impegnato a produrre un robot che sapesse dipingere… In un momento in cui la robotica esplode in modo esponenziale a tutti i livelli ho voluto con il Gruppo ‘78 percorrere una strada che indagasse il suo rapporto con l’arte, ed ecco il Festival che tenta un primo approccio tra mondi opposti che in realtà cosi opposti non sono, come testimoniano le proposizioni filosofiche di Giovanni Leghissa presente nel festival tra i relatori. Individua infatti la somiglianza tra sistemi complessi organici ed inorganici.

Il Gruppo ’78 da te guidato si chiama così perché nacque in quell’anno.
Qual era l’atmosfera culturale di allora in Italia e, particolarmente, a Trieste
?

Sicuramente molto diversa da oggi.
Imperavano gli strascichi delle neoavanguardie postbelliche, body e performing-art, arte concettuale, neo-espressionismo, in Italia il trend particolare della transavanguardia di Bonito Oliva in controtendenza, e in diverso ambito l’Arte Povera. Trieste era praticamente tagliata fuori dai nuovi percorsi dell’arte, in particolare dalla body e performing art, ed i giovani artisti triestini di allora ne sentivano la mancanza. Per questo è nato il Gruppo78, per tentare di portare anche nella nostra città movimenti che apparivano rivoluzionari.

Torniamo a oggi. Nel comporre il programma di Robotics: la cosa da te fissata quale assolutamente da fare per prima e la prima assolutamente da evitare?

La prima cosa assolutamente da fare: la comunicazione. Per questo ho delegato alcune ragazze a lavorare sui social e ho creato un sito d hoc. Da evitare, se possibile, sbavature nella composizione del panorama espositivo tralasciando espressioni adiacenti e non centrali rispetto al tema proposto che si configura nel titolo “Digital Nature”, cioè il reale connubio arte/tecnologia. Ad esempio lavori che “rappresentano” robot, non ci lavorano direttamente utilizzando le tecnologie, non erano da prendersi in considerazione.

Come dicevo in apertura, il Festival si apre su di un articolato scenario che chiama alla ribalta i nuovi rapporti tra filosofia, sociologia, e linguaggi artistici del nostro tempo.
Qual è, a tuo avviso, la principale risorsa che l’interattività ha dato agli artisti di oggi
?

L’interazione è l’avvicinamento al dinamismo che è proprio della vita. L’azione multipla e il potenziale di trasformazione di sistemi tecnologici s’innesta nei processi dei sistemi organici che evolvono e mutano di continuo, stabilendo una coevoluzione biotecnologica, simbiotica

La cultura cyberpunk, e le sue successive derive che arrivano fino a oggi, quale tipo di relazione hanno creato fra tecnologie e corpi?

La possibilità, con l’applicazione delle nano-tecnologie, attraverso la fisica quantistica, di scendere talmente a fondo nel cuore della materia, da scoprire che tecnologia e natura si equivalgono. L’artista statunitense Ken Rinaldo che da tempo persegue una ricerca di comunicazione trans-specie, cioè tra diverse specie, sia di animali sia di piante, realizza sculture che variano nell’aspetto visivo in base alle variazioni meteorologiche perché connesse alle culture batteriche dell’atmosfera. Il futuro prevede un continuum biotecnologico, un corpo unico, uomo-robot, in cui una specie robotica vivrà sempre più con e su di noi

“Molti sono spaventati dal nuovo, a me terrorizza il vecchio”.
È questo un aforisma di John Cage che ha preceduto questa nostra conversazione.
Perché in molti hanno paura delle tecnologie e anche delle nuove forme di comunicazione da esse governate? Da dove viene quel panico
?

Naturalmente concordo con John Cage. La paura delle nuove tecnologie e delle nuove forme di comunicazione e, in genere, dell’innovazione dipende dalla non conoscenza, cioè dall’ignoranza. Si teme il nuovo perché non lo si conosce e perché in ogni caso comporta il cambiamento. È più facile continuare a fare sempre le stesse cose, piuttosto che cambiare abitudini. Direi che questo è un atteggiamento più proprio di persone mature che secca loro dover armeggiare con dispositivi che non conoscono, mentre i giovani sono molto più disponibili, perché hanno già assorbito nel loro DNA, col passaggio delle generazioni, le nuove procedure tecnologiche.
È anche questa una forte ragione che ci spinge a produrre il Festival, per far conoscere, dimostrare, discutere, rendere consapevoli di una realtà che comporta ineludibilmente il tecno-destino dell’uomo.


Festival Robotics

Non vi è alcuna incompatibilità fra l'esatto e il poetico.
Il numero è nell'arte come nella scienza.
L'anima dell'uomo ha tre chiavi che aprono tutto: la cifra, la lettera, la nota.
Sapere, pensare, sognare.

Victor Hugo


Festival Robotics: Paolo Gallina

Se in questo special avete visto il video della presentazione del festival oppure seguito l’incontro con Maria Campitelli, avrete notato che spesso ricorre il nome di Paolo Gallina (in foto).
Ma chi è costui? E perché parlano tanto bene di lui?
Nato a Castelfranco Veneto nel 1971, è docente di robotica e interazione uomo-macchina all'Università di Trieste. Ha sospeso per due anni la sua attività per vivere in una piccola missione del Sudan e costruire una scuola professionale per i ragazzi del posto.
Premio Galilei 2016, ha scoperto la formula matematica della felicità e ha creato, in collaborazione con Lorenzo Scalera, Busker, un robot-pittore. Busker partendo da un'immagine digitale, la rielabora attraverso una serie di algoritmi.
Non finisce qui. Paolo Gallina è anche astronauta. L’ho ospitato, infatti, nella taverna spaziale che da anni gestisco sull’Enterprise di Star Trek.
Non ci credete? Cliccate QUI.
A lui ho chiesto un flash sulla società delle macchine. Ecco la risposta.

Da sempre una forza misteriosa spinge l’uomo ad impiegare gli strumenti a disposizione per esprimere l’indefinibile. È il flusso eterno dell’arte a governarne le azioni.
E se qualcuno è portato a credere che l’artificiosità artistica di alcuni strumenti moderni sia un prodotto esclusivo della società di oggi, si sbaglia. Basta osservare il magnifico assemblement di mani prodotto 13000 anni fa nella Cueva de las Manos. In quel caso gli artisti spruzzarono con la bocca pigmenti sopra le proprie mani ottenendo un impressionante collage di mani; quello che oggi definiremo un prodotto della tecnica stencil.
E ora siamo entrati nell’era dei robot e dei cobot (robot collaborativi). Inevitabilmente la loro pervasività ha raggiunto anche il baluardo dell’arte. Permettono di creare, stupire il pubblico, lanciare concetti e generare dibattici sulla nostra stessa umanità
.

Consultate il programma e troverete il suo intervento nel festival.


Festival Robotics

La scienza non è che la spiegazione di una cosa prima inspiegabile e l'arte è un'interpretazione di quella cosa.

Ray Bradbury


Festival Robotics


Cosmotaxi Special per il Festival Robotics

Trieste, 17 – 28 novembre 2018

Fine


Pulp Times (1)

Il neurologo Arnaldo Benini in una conversazione con Claudio Magris: “Il senso del tempo esiste in esseri viventi con sistema nervoso, anche se minuscolo, come api e formiche. Cervelli di pochi grammi, come quello di topi e uccelli, sentono la durata di 24 ore e distinguono, ad esempio, una durata di 10 da una di 20 minuti. Non hanno la dimensione numerica, ma il senso della durata. I vegetali vivono nel tempo in cui noi li inseriamo, senza averne coscienza. Il meccanismo del senso del tempo si è evoluto nel corso di millenni e nell’uomo ha acquisito la dimensione numerica e una forte componente emotiva: il tempo della vita scorre secondo la condizione fisica ed emotiva e non secondo l’orologio”.

“Il Tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; ma se qualcuno me lo chiede, non lo so più", scriveva Agostino, nelle ‘Confessioni’.

Le Edizioni Meltemi hanno ripubblicato Pulp Times Immagini del tempo nel cinema d’oggi.
Autori: Fulvio Carmagnola e Telmo Pievani.
Carmagnola insegna Estetica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove coordina il gruppo di ricerca sull’immaginario contemporaneo OT-Orbis Tertius. Presso Meltemi ha pubblicato “La triste scienza” (2002), “Plot” (2004), “Il mito profanato” (2018).
Pievani è ordinario presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. Filosofo della scienza, evoluzionista e saggista, autore di più di duecento pubblicazioni scientifiche e di saggi divulgativi di successo tradotti in diverse lingue, fa parte del board di importanti riviste. Collabora con il “Corriere della Sera”, “Le Scienze” e “Micromega”.
Con Meltemi ha pubblicato “Homo sapiens e altre catastrofi” (2018).
Su questo sito, tempo fa, ho scritto sul suo libro Introduzione a Darwin.

Il Tempo nel Cinema e il Cinema nel Tempo: funzione e finzioni, incontro e scacco.
Ricordo il poema “Il fiume” di Corrado Costa: “Greta Garbo / si contempla nel film / e vede il film che si contempla / in Greta Garbo. / Noi li vediamo rimanere / e scorrere. / Greta Garbo che vede un vecchio film / di Greta Garbo / lo vede scorrere / lentamente in avanti / e lentamente lo vede / rimanere indietro / rimanere e scorrere / è parlare di un fiume / che scorre come il tempo / dietro le spalle / di Greta Garbo".

Dalla presentazione editoriale.
«Il cinema oggi è insieme esperienza estetica di massa e luogo di raccolta e di diffusione dei grandi temi dell’immaginario nelle società globali. A partire da questa constatazione, Telmo Pievani e Fulvio Carmagnola esaminano come il tema culturale del tempo viene declinato nella narrazione cinematografica più recente, e in particolare in quel cinema spettacolare che, dalla fantascienza alla fiction di avventura, è sempre più protagonista del nostro presente. Il libro, rivisto e aggiornato dagli autori, è corredato da un’ampia filmografia che raccoglie film sul tempo finora apparsi anche fuori dal circuito distributivo italiano».

Il volume si avvale di un’accuratissima filmografia a cura di Dario D’Incerti.

Segue ora un incontro con Fulvio Carmagnola.


Pulp Times (2)

A Fulvio Carmagnola (in foto) ho rivolto alcune domande.

Che cosa vi ha spinto a pubblicare “Pulp Times” che dopo il successo della prima edizione adesso ne conosce una seconda?

È stata una decisione dell’Editore alla quale sia io che Telmo Pievani abbiamo risposto con favore. Personalmente non mi ero posto il problema di una riedizione e non avevo riletto il volume da molto tempo. Quando Meltemi mi ha comunicato la proposta, sulle prime ho pensato che, visto che si trattava di un lavoro di quindici anni fa, probabilmente era invecchiato – non tanto per l’impianto teorico quanto per il materiale di riferimento. Di conseguenza ho creduto di premettere una breve riflessione (“Premessa 2018”) con alcune domande: le condizioni dal rapporto tra cultura alta e cultura POP (o pulp) sono rimaste le stesse o c’è stato qualche cambiamento significativo? E “il tempo raccontato” ovvero i temi di riflessione sul tempo che dalla filosofia, dalle scienze umane e dalle discipline scientifiche si sono trasferite nel cinema, sono rimasti gli stessi? Da questa riflessione è emersa l’ipotesi, che espongo nella premessa, di una relativa “normalizzazione”. Ovvero: le dimensioni più esplosive, urticanti, contrarie al senso comune, che le scienze trasmettono alla cultura POP, e la stessa distanza tra i due “livelli” – ammesso che questa parola sia corretta – mi parevano essersi notevolmente ridotte. Quanto alla seconda questione, ovvero l’adeguatezza del materiale, penso che, data la normalizzazione, il tempo raccontato si sia concentrato in questi anni maggiormente sulla dimensione del quotidiano. Di conseguenza, anche il modo del racconto non mi pare abbia presentato nuovi esempi significativi di stravaganza o di accentuazione degli aspetti paradossali del tempo.
Ma dal momento che per controllare questa ipotesi, che pure mi sembra sensata, bisognerebbe riscrivere il libro o almeno farne una sostanziale revisione, abbiamo scelto soltanto di chiedere al nostro Collega e amico Dario D’Incerti, che ne ha competenza, di aggiornare la filmografia: fornendo così al lettore uno strumento di controllo e di verifica delle ipotesi della “premessa”.

Nella Premessa si legge di tempo raccontato e tempo del raccontare.
Che cosa distingue il tempo raccontato – sul quale s’impernia il vostro libro – dal tempo del raccontare
?

La distinzione tra tempo raccontato e tempo del raccontare può essere così sintetizzata a mio avviso: il tempo raccontato è quando il tempo costituisce un tema o uno dei temi espliciti o rilevanti della narrazione. Per esempio in “Memento” (Ch. Nolan) l’incrocio tra un tempo diegetico – il movimento del tempo dal prima al poi su una linea, o, per dirla con Aristotele, “il numero del movimento secondo il prima e il poi” - è sconvolto, presentato in modo abnorme, e questo è uno dei temi del film e una delle ragioni del suo interesse. In altri termini, il film racconta il tempo vissuto dal protagonista, e questo tempo non concorda con il nostro senso comune del tempo.
Ma nello stesso film c’è necessariamente anche un “tempo del raccontare” – ovvero, il ‘modo in cui il racconto si svolge’ – che in coerenza con questo tema, a sua volta sconvolge il tempo diegetico cui siamo abituati: prima questo, poi quello… fino alla fine del racconto.
Il racconto presenta così due tempi, uno consueto, “in avanti”, l’altro a ritroso, che si incrociano grosso modo nella parte centrale della narrazione.
Per contro, un film come “Frequency” (G. Hoblit, 2000) il tempo raccontato, ovvero l’argomento del racconto, tiene presenti le più aggiornate e controintuitive teorie scientifiche in proposito (il Professor Pievani ne ha parlato con grande competenza scientifica nella sua parte del testo) mentre il tempo del raccontare, ovvero la cadenza del racconto, è del tutto tradizionale.
Il tema del tempo del raccontare doveva essere oggetto di una seconda parte del volume, ma su consiglio dell’Editore abbiamo deciso di sdoppiare il lavoro. Pertanto questo specifico tema, che a me interessa particolarmente, è stato trattato in un lavoro uscito l’anno dopo “Plot. Il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura “(Meltemi, 2004).

Esiste una cinematografia nella quale si ritrova maggiormente rappresentato il tema del tempo? Se sì, qual è e come si spiega?

Una delle motivazioni che hanno spinto Pievani e me alla ricerca presentata nel volume di cui stiamo parlando era precisamente un’impressione: che proprio nella narrativa cinematografica POP stessero emergendo in quegli anni aspetti di una grande sensibilità alla questione del tempo come tema. Certamente la grande popolarità assunta dalla scienza in generale, e in particolare dalle più spettacolari evoluzioni della cosmologia e della fisica, e la grande potenza mediatica assunta da personaggi come Hawking e altri, solo per fare un esempio, hanno contribuito all’emergere di questa attenzione nei media e nel cinema in particolare. (Questa potrebbe essere una prima spiegazione).
Quindi la risposta alla domanda potrebbe essere la seguente: almeno nel periodo in cui il libro è stato scritto, era proprio nella cultura POP e nel cinema Blockbuster che vedevamo emergere questo interessante fenomeno. Va detto che anche nel cinema “alto” se così si può dire, questo tema era presente, ma a nostro parere non in modo così massiccio.
Altro discorso va fatto per il tempo “del raccontare”. In questo caso si tratta di un tema classico della narratologia e della stessa riflessione filosofica contemporanea. L’esempio più illustre nel campo specifico della filosofia sono certamente in due libri di Gilles Deleuze usciti nella prima metà degli anni Ottanta, “L’immagine-movimento” e “L’immagine-tempo”, soprattutto il secondo.
Attualmente, mi pare che spetti a figure come quella di David Lynch il ruolo che in precedenza era svolto da registi dell’avanguardia come Godard e altri, rispetto alla dimensione formale del tempo del raccontare.

La seconda parte del volume si conclude con paragrafi riferiti all’Eros e all’Estasi.
Un tema che attraversa letteratura e cinema, da Proust a Kubrick, da Robbe-Grillet a Bresson. In quale modo il tempo si manifesta in quei due stati
?

L’esempio più significativo mi pare quello dell’opera di Proust, per chiarire come si manifesta il tempo “dell’estasi”. Potremmo dire così: il tempo dell’estasi, ammesso che questo termine sia adeguato, potrebbe essere espresso dalla parola greca exaiphnes, che esprime l’istante, il fermarsi del tempo. Nell’opera di Proust il riferimento è all’enigma del tempo come “frammento di tempo allo stato puro” di cui parla soprattutto nelle ultime duecento pagine della Recherche, dove trae la conclusioni di tutta la sua opera.
Penso che potremmo chiamare “estasi” l’arresto del tempo che si manifesta, cinematograficamente, come una sorta di fermo-immagine. Gilles Deleuze fa un esempio a mio parere splendido: l’ultima sequenza del film di Ozu “Tarda primavera”, in cui la cinepresa inquadra un vaso di fiori, senza che nulla avvenga. Questo tempo interrompe la diegesi.
Ma si può trovare questo tipo di sequenze anche in altri film.
Si può dire che l’estasi sia un momento di eros? Come la poesia, che Platone definiva “divina mania”? Certo, se l’eros è un uscire da sé – che è il significato primario della parola ek-stasis. Credo che si possa dire che in questo stato, il tempo si manifesta come arresto. Ma l’arresto stesso ha due forme in apparenza opposte: l’istante, o la linea vuota di un tempo in cui “nulla accade”.

………………………………...……..

Fulvio Carmagnola
Telmo Pievani
Pulp Times
Pagine 302, Euro 20.00
Meltemi


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