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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

L'estetica dell'intelligenza artificiale (1)

La casa editrice Luca Sossella ha pubblicato un importante testo di Lev Manovich jntitolato L’estetica dell’intelligenza artificiale Modelli digitali e analitica culturale.
Per un profilo di questo studioso di cultura digitale nato a Mosca nel 1960: CLIC!
Per visitare il suo sito web: RICLIC!

Dalla presentazione editoriale

«L’intelligenza artificiale svolge una funzione cruciale nell’ecosistema culturale globale. Consiglia ciò che dovremmo vedere, ascoltare, leggere e acquistare. Decide quante persone vedranno i nostri contenuti condivisi. Ci aiuta a prendere decisioni estetiche quando creiamo contenuti digitali.
Nella produzione culturale, l’IA viene da tempo utilizzata per produrre trailer di film, album musicali, articoli di moda, design di prodotti e web, architettura ecc.
Lev Manovich ci presenta un quadro sistematico per aiutarci a pensare agli utilizzi culturali dell’IA attuali e futuri. E ci offre la possibilità analitica per comprendere i media, il design e l’estetica nell’era dell’IA».

Curatore del libro è Valentino Catricalà.
Critico d’arte contemporanea. Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi Roma Tre, è stato Part-Time Post Doc Research Fellow nella stessa Università. Lavora come ricercatore e come coordinatore dei programmi Arte e Media presso la Fondazione Mondo Digitale ed è direttore artistico del Media Art Festival di Roma (MAXXI).
Ha svolto ricerche in centri quali lo ZKM di Karlsruhe, Tate Modern, Università di Dundee.
Si è specializzato nell’analisi del rapporto degli artisti e dei cineasti con le nuove tecnologie e con i media.
Di recente è intervenuto su questo sito in occasione della pubblicazione – coautore Domenico Quaranta – di Sopravvivenza programmata.
Due suoi recenti successi.
I consensi riscossi dalla sezione – da lui diretta – dedicata alla relazione tra arte contemporanea e nuove tecnologie nel palinsesto della rassegna internazionale sull’innovazione Faire Maker Rome.
E più recente ancora: la nomina a curatore alla School of Digital Arts Gallery della Manchester Metropolitan University.

A lui ho rivolto alcune domande nella parte che segue.


L'estetica dell'intelligenza artificiale (2)

Incontro con Valentino Catricalà (in foto) curatore del libro di Lev Manovich.

In che cosa consiste l’importanza del pensiero di questo studioso nello scenario dei nuovi media?

Il pensiero di Manovich è uno dei primi tentativi di spiegare l’intelligenza artificiale da un punto di vista nuovo: non tanto dal punto di vista ingegneristico o tecnico, ma estetico-culturale. Sarebbe a dire, il tentativo di dispiegare le basi di una teoria culturale che interpreti gli effetti dell’IA sulla formazione delle nostre categorie estetiche. Manovich non spiega che cosa lui intenda per “estetica”, ma il modo in cui egli utilizza questo termine va sicuramente nella direzione parallela a quella dell’estetica classica: non tanto definire l’estetica come filosofia del bello, ma piuttosto estetica come categoria generale del sentire, disciplina alla base dei meccanismi di creazione di conoscenza. Per questo nella mia introduzione cito il filosofo Emilio Garroni, un accostamento che può sembrare non consono. Ma il testo di Manovich sembra spingersi anche oltre, in quanto egli introduce in questo contesto gli studi sui media. Alla dissertazione estetica viene affiancato una analisi dei procedimenti con i quali dispositivi sempre più intelligenti, come i nostri smartphone o tablet, rimodellino costantemente l’immagine in base a canoni prestabiliti. Manovich è molto preciso nello spiegare i meccanismi e ciò che essi comportano aprendo domande importanti che possono rappresentare un punto di inizio per altre riflessioni o, addirittura, per una nuova disciplina. Ma cos’è esattamente l’“Intelligenza Artificiale oggi?”, “Per quale motivo, però, alcuni compiti intelligenti svolti dai computer sono visti come la ‘vera’ IA mentre altri no?”, “l’IA sostituirà i creatori culturali professionisti quali media designers, industrial designers, stilisti, fotografi, cineasti, architetti e urbanisti?”.

Qual è la rilevanza di questo suo saggio sul rapporto fra estetica e AI ?

Il libro di Manovich ha una criticità, quella di non dare definizioni. Quella di non tentare minimamente di definire che cosa si intende per IA. Questo non è scontato perché uno dei problemi principali oggi è proprio la mancanza di una comprensione di questo tema. Intelligenza artificiale viene utilizzata per spiegare società futuristiche dominate da macchine, robot che si muovono e parlano, algoritmi di machine learning, fino ai dispositivi che fanno i calcoli più semplici. Come anche il suo disinteresse nel definire brevemente cosa intende per estetica, come accennato sopra. Ma questo limite è rigirato in qualità grazie all’applicazione dell’estetica, al tentativo di comprendere come l’IA si sia trasformata in un meccanismo per influenzare l’immaginazione collettiva. Per dirla con Manovich, Se l’interpretazione cognitiva dell’IA è ovvia, “ciò che forse può risultare meno ovvio è che oggi l’IA gioca un ruolo cruciale nelle nostre vite e nei nostri”. Fino ad arrivare a vere e proprie proposte operative, di effettivo sviluppo di software per la ricerca attraverso la spiegazione dell’analitica culturale, un metodo che secondo Manovich riesce a dare maggiori strumenti ai ricercatori attraverso processi di IA.

In un tuo saggio (‘Oltre il video verso il video. Arte e intelligenza artificiale’) si legge: “Per Manovich, più che studiare il lavoro degli artisti, bisogna concentrarsi sugli strumenti di intelligenza artificiale impiantati in ogni nostro dispositivo che influenzano la nostra immaginazione e la nostra estetica”.
È possibile ravvisare in quella posizione da te rilevata un contatto con la filosofia del postumanesimo? Se sì oppure no, perché
?

Sì, infatti, hai beccato proprio la frase in cui faccio un’altra piccola critica al testo di Manovich . Ma in questo caso è una questione più personale e riguarda il ruolo dell’artista in questo contesto tecnologico. Manovich nel libro non è interessato al lavoro degli artisti, li liquida facilmente in una riga. Per me invece è ancora fondamentale guardare all’arte che lavora con l’IA. In questo senso, non credo che il libro di Manovich, come molte pratiche artistiche, sia interessato al postumanesimo. Per lo meno non nel senso comune con il quale questo concetto è inteso, né dal punto di vista del potenziamento delle facoltà umane (transumanesimo), né da quello della creazione di nuovi strati sensibili della conoscenza (postumenesimo). Il discorso di Manovich va in una direzione più “classica”. Per Manovich non è una questione di superamento della natura umana, ma di processi di formazione di categorie estetiche, meccanismi di produzione del gusto e di conoscenza.

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Lev Manovich
L’estetica dell’intelligenza artificiale
A cura di Valentino Catricalà
Pagine 110, Euro 10.00
Luca Sossella Editore


Nel mio baule mentale (1)

La casa editrice Aracne ha pubblicato un libro che in modo maiuscolo concorre a rendere giustizia letteraria e storica a una scrittrice (e non solo scrittrice) italiana che pur apprezzata (tardivamente) dalla scena editoriale non ha (ancora oggi) il numero di lettori che la sua scrittura e la sua figura poliartistica largamente meriterebbero: Goliarda Sapienza (Catania, 10 maggio 1924 – Gaeta, 30 agosto 1996).
Il fatto è che ci sono troppi lettori che vanno dove li porta il cuore (che è sempre un villaggio turistico con messa domenicale a mezzogiorno), oppure stazionano tre metri sopra il cielo (che è sempre un locale letterario seminterrato con vista panoramica su vano ascensore).

Titolo di quel benvenuto libro che illumina quella figura: Nel mio baule mentale Per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza.
Ne è autrice Alessandra Trevisan (1987).
Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Italianistica all’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sugli inediti di Goliarda Sapienza e con tutor la Professoressa Ilaria Crotti.
Ha pubblicato la monografia “Goliarda Sapienza: una voce intertestuale (1996-2016)” La Vita Felice, 2016; altri contributi su Trevisan si rintracciano in volumi e riviste.
L’attenzione rivolta al Novecento le ha permesso di occuparsi anche di Gabriele d’Annunzio, Milena Milani, Clara Sereni, Adele Cambria, Anna Maria Ortese, Beppe Costa, Lalla Kezich e di altre voci anche viventi, tra cui della poeta Silvia Salvagnini.
Dal 2017 collabora alla redazione della rivista «Archivio d’Annunzio» e dal 2018 di «Kepos – Semestrale di letteratura italiana»; è redattrice del lit-blog «Poetarum Silva» ed è co-fondatrice del progetto “Le Ortique” insieme con Viviana Fiorentino.
È sperimentatrice vocale, lyricist e performer.
Per visitare il suo sito web: CLIC!

Non lasciatevi ingannare da quel sottotitolo d’intonazione accademica, il libro, accademivo, non lo è per niente. Si legge in modo scorrevole trascorrendo pagina dopo pagina perché sostenuto da un pregevole ritmo di scrittura serrato che alterna documenti inediti a pensieri critici, note biografiche a citazioni di e su Goliarda così da comporre un ritratto in 3D della donna e dell’arista con la prima che eccede sulla seconda e la seconda che interiorizza la prima.
Ancora una cosa. Merita elogio anche la scrupolosa cura degli apparati che occupano ben 81 pagine suddivise in capitoli che diventano una mappa per i lettori facilitando la ricerca tra i vari argomenti: dalle biografie scritte su Sapienza alle sue opere, dalle presenze radiotelevisive ad articoli (di e su di lei) apparsi su quotidiani, periodici, e altro ancora. Fino a concludersi con l’Indice dei Nomi, strumento ormai raro a trovarsi (chissà perché) presso molte pubblicazioni mentre un tempo era normale la sua presenza in libri di saggistica.

Tra le documentazioni audiovisive in Rete su Goliarda Sapienza, ho scelto questo video.

Dalla presentazione editoriale
«Dagli anni Cinquanta agli anni Novanta Goliarda Sapienza fu attrice, scrittrice, giornalista, insegnante di recitazione e ricoprì molti altri ruoli. Nel 1967 l’esordio per Garzanti con il romanzo “Lettera aperta” diede inizio alla sua carriera di autrice, durante la quale si rapportò a un contesto letterario ed intellettuale attraente e respingente, che è oggi possibile ricostruire attraverso documenti d’archivio inediti di varia provenienza. Tra essi, le prime due versioni di “Lettera aperta”, centrali in questo saggio. Materiali diversi rivelano tracce del “baule mentale” di Sapienza, fanno scoprire rinnovati percorsi di ricerca critici, intertestuali e filologici, suggeriscono una rilettura dell’opera. Testi inediti e testi editi mai considerati sinora portano in primo piano la sua libertà e le sue contraddizioni».

Segue ora un incontro con Alessandra Trevisan.


Nel mio baule mentale (2)

Ad Alessandra Trevisan (in foto) ho rivolto alcune domande.

Che cosa ti ha tanto attratto in questa figura da dedicarle 10 anni di lavoro?

Ti ringrazio innanzitutto per l’interesse nei confronti di questo saggio. Credo che vi sia, alla base di questa ricerca, un’ostinata necessità di fare ordine in un labirinto (come l’ha definito la mia mentore Ilaria Crotti) di dati, testi, carte d’archivio, revisioni, riscritture, definendo senza astrazioni come il contesto storico in cui quest’autrice lavorò abbia potuto influenzare il suo destino editoriale. Come studiosa non potevo accontentarmi di leggere “la superficie”: quello è il compito del lettore, che può indirizzare anche politicamente i testi. Il critico deve lavorare con attenzione, di fino, per portare in primo piano tutto ciò che stratifica il testo. Occorre pazienza, intuito e bisogna mettere in discussione ciò che è dato per certo. In dieci anni la mia prospettiva monca, per così dire, manchevole di uno sguardo più ampio ed inclusivo, è mutata. Per questa ragione l’attrazione verso Goliarda Sapienza si è ristrutturata dalle fondamenta: perché è una scrittrice che depista e mette in crisi.

Attrice di teatro, radio, tv, cinema (con attività anche al doppiaggio), e poi da autrice scrive romanzi, autobiografie, racconti, poesie.
Questa pluralità di ruoli artistici che cosa ti dice su questa donna
?

Dice soprattutto che il suo essere pluriartista la coinvolse a tuttotondo, non senza posizioni ambivalenti a parer mio. Il ruolo di factotum culturale, che comunque è un fatto anche maschile, spesso non è stato riconosciuto alle donne negli scorsi decenni. La critica ha sinora evidenziato il passaggio dalle arti performative a quelle visive come un atto che dimostra l’agency, ossia la capacità di agire in modo indipendente e libero da vincoli di scelta; sullo stesso piano si muove anche il filone di studi che identifica la performatività di genere come soggiacente l’opera.
Secondo la prospettiva che ho adottato nel saggio ritengo che il passaggio da un’arte all’altra sia in primo luogo biografico: riguardi dunque la necessità di emancipazione da un ambiente che non forniva più gli strumenti per nutrire l’arte di Sapienza, come lei disse in un articolo del 1981 apparso su «Quotidiano donna», quando sosteneva di aver sperimentato l’autocoscienza prima del sessantotto. Nei suoi taccuini editi non v’è traccia di questa presa di posizione, e solo con questo studio nuovo emergono appunti e dichiarazioni che definiscono le ragioni di alcune scelte.
Dall’altro lato la scrittura la incuriosiva già come lettrice; mi pare però che l’attività di Enzo Siciliano e Livio Garzanti, soprattutto per la pubblicazione dei primi romanzi (“Lettera aperta”, 1967, e “Il filo di mezzogiorno”, 1969), abbiano condizionato le posizioni da assumere per tentare di appartenere all’ambiente letterario. Resta aperta l’ipotesi di un indirizzamento manovrato da altri ma è difficile definire i termini dell’ingerenza di ciascuno – si possono postulare e sostenere con dati – e i limiti alla libertà individuale dell’autrice. Certo, mi riferisco all’ambito editoriale, che ho tentato di indagare da vicino, e che definisce la maggiore o minore fortuna in vita che lei ebbe, e di cui si discute da molto tempo.

Donna attenta osservatrice fin da giovanissima della vita politica, quale fu il suo rapporto col femminismo?

Fu complicato e non poteva essere altrimenti. La sua natura anarchica, anche da parte familiar, la spingeva fuori dai gruppi e semmai più vicina alle posizioni della madre Maria Giudice, che fu una protofemminista. Goliarda Sapienza si definirà, negli anni Ottanta, “prefemminista” ai microfoni di «Radio anch’io». Al di là delle indicazioni che anche le amiche più fidate diedero, sebbene senza alibi – una tra tutte Adele Cambria, la quale disse che Goliarda non voleva sottrarre tempo allo scrivere e per questo si rifiutò di scendere in piazza nel Sessantotto e dopo –, trovo interessante e nuovo poter dire che negli anni Ottanta lei fu intercettata dal femminismo, e in particolare fu inserita in articoli su riviste femministe, in antologie ed enciclopedie; è un fatto che segue l’incarceramento a Rebibbia. Questo prima di partecipare al Gruppo di scrittura che frequentò, dal 1987 al 1991, insieme a Elena Gianini Belotti, Adele Cambria, Rosetta Loy, Simona Weller e altre. Mi sembra che solo “L’arte della gioia” sia stata messa al centro di un discorso critico che definirei mainstream, sull’onda della riscoperta di Sapienza da metà anni Duemila, quasi a non voler indagare da altre posizioni l’importanza dell’opera.

Quando a causa di un furto di gioielli finì in carcere per circa due mesi, non voleva essere liberata tanto presto come lei stessa ha dichiarato.
Che cosa aveva trovato nella detenzione da farle addirittura sperare in un prolungamento di quella condizione
?

Credo che il carcere sia stato la “stanza tutta per sé”, una sorta di luogo di emancipazione. Mi pare che il carcere come luogo di elaborazione in un periodo post-riforma carceraria del ’75 sia stato anche uno spazio privato, dove sentirsi libera di scrivere. Sembra semplicistico ma è come se lei sentisse l’esigenza di misurare il proprio senso di libertà nella reclusione e non nel quotidiano. L’indigenza di quel periodo, dopo i dieci anni passati a scrivere “L’arte della gioia”, era reale ma la volontà di portare alle estreme conseguenze la propria esperienza sperimentando la reclusione da un lato l’avvicina alla madre e al padre, entrambi prigionieri politici, dall’altro le fece comprendere molto del presente. Non è un caso se il suo libro fu intercettato dall’ambiente del Partito Radicale, che insieme all’Associazione ‘Buongiorno Primavera’ (oggi Fondazione Bellisario) e ad alcune esponenti del femminismo lo presentò in un’occasione pubblica nel marzo 1983: nel saggio ripropongo la trascrizione di questa presentazione che vedeva insieme Adele Faccio, Armanda Guiducci, Gabriella Parca e altre.

Scoperta da un’agente letteraria tedesca, pubblicata in Germania, poi grande successo in Francia, solo dopo edita in Italia con Einaudi senza peraltro riscuotere grandi attenzioni. Perché quest’autrice non fu riconosciuta per tempo dall’editoria e dalla critica letteraria italiana fatti salvi i nomi di Garboli e Baldacci che comunque non trovarono ascolto?

In realtà nel saggio affronto questo aspetto mettendo in luce come il suo nome sia circolato in vita e come molti le riservarono spazio, facendo recensioni al suo primo romanzo “Lettera aperta”. Non volevo proseguire l’inganno del mancato successo a tutti i costi. È pur vero che alla critica non seguì una carriera vera e propria. Credo che Goliarda Sapienza comunque abbia rifiutato la relazione con editori e critici, anche con altri autori, pur sapendo che la distanza sarebbe stata fallimentare per questo mestiere. Questo che pare un aspetto strettamente biografico non trovo sia contemplato dalla critica; credo anche non ci si possa ostinare a ignorarlo, perché ad azione – le recensioni – non corrisponde un’uguale reazione ma un’autoesclusione. La cosiddetta rete di relazioni che lei avrebbe dovuto coltivare da un lato pareva non accettare questo mestiere della scrittura – è la rete di quello che fu il suo compagno, Francesco Maselli; si tratta di una rete “soffocante” legata al PCI romano. Dall’altro lato mi pare sia stata lei a tenere le distanze. Rimetterei in discussione il sistema di lettura che la vuole vittima di un mondo, altrimenti si rischia di non disambiguare certi passaggi. Ho dedicato un paragrafo ai movimenti editoriali che portano alla pubblicazione postuma de “L’arte della gioia”, argomentando come vi siano delle ragioni editoriali molto strette che non accolsero l’opera in vita.

Sapienza ha scritto in varie forme – come prima dicevo: romanzi, racconti, autobiografia, poesie –, è possibile rintracciare un filo rosso che attraversi tutte le sue opere?

Il filo rosso per me resta l’autobiografia. Conosco alcune posizioni critiche che confliggono con questo punto di vista ma l’energia con la quale Goliarda Sapienza racconta di sé, quel sé che lei conosce bene e di cui può parlare, emerge anche nelle opere apparentemente non autobiografiche. È come se lei fosse consapevole delle proprie possibilità espressive multiple ma senza autocompiacimento. Il suo coraggio e l’insistenza, non priva di autosabotaggi a parer mio, restano vivi e liberi. La ricerca della libertà totale è un altro polo di valore, una libertà vitale che contagia il lettore, catartica e piena.

È possibile oppure fuorviante accostare il lavoro di Goliarda Sapienza a una delle correnti letterarie a lei contemporanee?

Sì, e la inserirei in un filone lirico che di certo ha potuto innovare; in un certo senso più vicina a Natalia Ginzburg che ad Elsa Morante. Eppure lei rifiutò quest’accostamento.
Negli anni ottanta Romano Luperini e Vanna Gazzola Stacchini la inserirono in un filone di letteratura del sud, scegliendola tra le autrici da citare nella LIL, la Letteratura Italiana Laterza di cui Carlo Muscetta era direttore. Se ignoriamo questo passaggio – scoperto grazie al poeta Beppe Costa, che fu editore di Goliarda Sapienza nel 1987 con la sua Pellicanolibri – non comprenderemo mai in che misura lei possa essere stata compresa nel suo tempo. Mi pare che quel momento ebbe anche a che fare con gli anni del femminismo, e nel volume ho articolato tutte queste trame con attenzione.
Le scrittrici, tuttavia, non appartengono ancora a un filone noto e questo lavoro di riscoperta, indagine e definizione deve fare molta strada per trovare verità di direzione. Un passo per volta, dunque.

Che cosa fa del libro “L’arte della gioia” un capolavoro?

Penso che questo suo libro porti con sé una forza intrinseca narrativa a lungo meditata che la critica femminista ha indagato da più lati, e che lo avvicina ai classici, come ha recentemente proposto Alberto Casadei. Ritengo comunque che lei tenesse molto a ciascuno dei suoi libri e che vivesse la scrittura in modo totalizzante. Indagando da vicino le varie redazioni di “Lettera aperta” mi sono resa conto di quanto lavoro di riscrittura – non si sa in che misura condiviso da lei ed Enzo Siciliano, il suo editor – ci sia stato. Sarebbe curioso scoprirlo anche per il suo romanzo più lungo. Queste non sono domande che si dovrebbe porre solo chi indaga ma anche chi legge, perché conoscere il lavoro di uno scrittore è entusiasmante, e favorisce il movimento di nuove idee e forse il nascere di nuove consapevolezze.

………………………

Alessandra Trevisan
Nel mio baule mentale
Pagine 632, Euro 30.00
PdF euro 18.00
Editore Aracne


Il calendario dell'umanità (1)

Fine anno, tempo di calendari. Ce ne sono di tutti i tipi.
I giorni e i mesi sono scanditi – sia su carta sia sul web – da plurali ispirazioni: dal mondo animale a quello minerale, da quello dei proverbi a quello musicale, per continuare con tante altre forme: gastronomiche, religiose, turistiche, sportive, meteorologiche, sexy.
Troviamo poi il calendario citato da vari personaggi famosi. Ad esempio, Marilyn Monroe: Mi è capitato spesso di finire su un calendario. Mai, però, per una data precisa.
Tanti i testi nei quali ricorre il calendario. Un esempio musicale intensamente poetico – per sceglierne uno per tutti – lo troviamo in Fabrizio De André nel suo “A forza di vento”:I figli cadevano dal calendario / Iugoslavia Polonia Ungheria / i soldati prendevano tutti / e tutti buttavano via.

Curioso destino quello dei calendari. Accolto con festeggiamenti, riposto accanto allo spumante sui tavoli apparecchiati per la mezzanotte del 31 dicembre, mesi dopo staccato dal muro e cestinato quasi con disdegno (… ma il calendario 2020, via, se lo merita per quanto ha misurato!) precipitando nella spazzatura con tutte le sue date.
Date… cos’è una data? Ecco come la vede Antonella Sbrilli autrice di “Memoria per le date, date per la memoria” (Guaraldi) nonché ideatrice del sito Dicono di oggi.
Composta da numeri o da numeri e dalla parola che indica il mese, la data partecipa di una natura pubblica e privata, amministrativa e identitaria, predispone una cornice alla dispersività e alla compresenza dei fatti accaduti e del loro collocarsi nel ricordo. Fra le numerose definizioni del calendario, vera miniera di metafore, risalta la riflessione di Walter Ong, il quale ha argomentato che è un modo di addomesticare il tempo, trattandolo come uno spazio”.

Il calendario che presento oggi ha un carattere e un destino particolari. Ha ben tre meriti: non è destinato al cestino perché è un libro; è svolto su un cursore tematico che scorre attraverso date storiche ognuna delle quali è illustrata da un microsaggio di due pagine che di quell’avvenimento illustra contenuti, cause ed effetti; inoltre, e siamo al terzo merito, è molto adatto per una strenna da fare trovare sotto l’albero o, se non fate a tempo, affidarlo alla Befana che essendo risultata negativa al tampone arriverà puntuale nelle case il 6 gennaio.
Tutto questo si deve alla casa editrice il Saggiatore che ha pubblicato Il calendario dell’umanità La nostra storia raccontata giorno per giorno dall’antichità al XX secolo.
Ne è autore Marcello Valente (1979), professore di Storia greca presso l’Università di Torino. È autore di diverse pubblicazioni accademiche, tra cui I prodromi della guerra di Corinto (Edizioni dell’Orso, 2014).

Dalla presentazione editoriale.
«Che giorno è oggi? È il 1° gennaio 1959 e un giovane argentino entra nell’Avana liberata alla testa delle truppe rivoluzionarie. O forse è il 17 febbraio 1600 e le fiamme di Campo dei Fiori avvolgono un frate domenicano che sostiene che la Terra non sia al centro dell’universo. Macché, è il 3 agosto 1492 e tre caravelle salpano verso ovest per raggiungere le Indie, guidate da un capitano tanto visionario quanto fortunato. No, è il 25 dicembre dell’anno 800 e a San Pietro il papa incorona imperatore «sacro» e «romano» un monarca venuto dal Nord.
Marcello Valente ci conduce attraverso la breve – ma movimentata – storia dell’umanità come se fosse un calendario annuale in cui ogni giorno si svolge un evento accaduto in quella data. Il suo è un percorso erratico tra luoghi ed epoche, da una battaglia campale alla morte di un grande leader, dalla nascita di una religione alla fine di una dinastia, da una rivoluzione a una restaurazione: un grande affresco che ci rivela come possa apparire il nostro passato senza confini temporali, geografici e culturali».

Segue ora un incontro con Marcello Valente.


Il calendario dell'umanità (2)

A Marcello Valente (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nel realizzare questo calendario qual è la cosa che ha deciso di fare assolutamente per prima e quale per prima quella assolutamente da evitare?

La prima cosa che ho voluto fare nel realizzare questo calendario è stata la progettazione di un’architettura dell’opera che contemplasse eventi di carattere prevalentemente politico tali da potere essere messi in relazione tra loro mediante rimandi nel testo e permettere così al lettore di costruirsi percorsi di lettura personalizzati in modo che gli eventi scelti non fossero dei semplici racconti brevi chiusi in se stessi, come delle mere curiosità storiche, ma tasselli di un percorso di lettura non precostituito, ma funzionale alla scoperta della storia.
La prima cosa che ho voluto evitare è stata invece la redazione di un manuale di storia tradizionale, con il suo linguaggio tecnico e la scansione sistematica dei periodi e delle civiltà, per non realizzare un’opera scontata che non offrisse al lettore un modo originale di approcciarsi alla storia. Ho cercato quindi di utilizzare un linguaggio più familiare senza sacrificare la correttezza storica e di presentare un racconto sintetico, che illustrasse l’essenza di ogni evento senza dilungarsi su dettagli che avrebbero reso la lettura più faticosa e meno produttiva.

Quale criterio ha guidato la scelta delle date?

La scelta delle date da inserire in questo calendario è stata guidata dall’intento di coprire nel modo più omogeneo possibile sia lo spazio che, soprattutto, il tempo. Diverse date sono pertanto cambiate nel corso della stesura del libro, quando mi rendevo conto che certi periodi o certe regioni erano fin troppo rappresentati, per sostituirle con altre relative a luoghi o periodi meno rappresentati, al fine di offrire al lettore un quadro il più completo possibile della storia. Naturalmente non è stato possibile coprire in maniera ugualmente omogenea tutti i periodi e tutti i continenti, ma ho cercato di mantenere un certo equilibrio a seconda del contesto storico, coprendo in maniera più sistematica le epoche e le civiltà a noi più vicine, senza tuttavia lasciare eccessivamente scoperte epoche e civiltà a noi più lontane. La scelta di raccontare la storia a partire dal giorno in cui ogni singolo evento ha avuto luogo ha naturalmente comportato l’esclusione, assai dolorosa, ma inevitabile, di alcune civiltà troppo lontane nel tempo per conoscerne con precisione le date, penso per esempio a civiltà preclassiche come quelle dei sumeri, dei babilonesi, dei fenici, dei micenei e dei celti, ma anche all’India antica e all’Africa anteriormente all’arrivo degli europei.

Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924.

Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945.

Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992.

C’è qualcuna di quelle dizioni alla quale si sente vicino? O qualcuna dalla quale particolarmente lontano
?

Sono tre citazioni che me ne ricordano altrettante, senza un precisa graduatoria: quella di Gobetti la accosto a una celebre battuta di Amleto (“ci sono più cose in cielo, Orazio, di quante non ne immagini la tua filosofia”) che ci ricorda come lo studio della storia implichi necessariamente una semplificazione per riuscire a padroneggiare una materia tanto vasta e multiforme, così come Gobetti ci ricorda come la storia stessa proceda senza curarsi troppo della volontà degli uomini, sia dei singoli individui che dei gruppi più estesi. Quella di Alain mi richiama alla mente la celeberrima tesi di Croce per cui “ogni storia è sempre storia contemporanea” che ci ricorda che per quanto indietro andiamo nel tempo non possiamo che osservare la storia con gli occhi del nostro tempo.
Quella di Canetti, infine, evoca invece l’antico paradosso del cretese secondo cui tutti i cretesi mentono, ricordandoci che se c’è una cosa che la storia ci insegna è che gli uomini raramente apprendono la sua lezione e tendono perciò a ripetere i loro errori.

E per Marcello Valente la Storia che cos'è?

La storia è una grande epopea che rivela la natura dell’uomo, il quale nel corso dei secoli ha mostrato, a seconda delle circostanze, il meglio e il peggio di sé. Capire la storia significa quindi cercare di interpretare le azioni degli uomini e di comprendere le intenzioni che li hanno spinti ad agire, offrendo a noi che li osserviamo qualche suggerimento per interpretare il presente e costruire il futuro.

………………………

Marcello Valente
Il calendario dell’umanità
Pagine 784, Euro 17.00
ilSaggiatore


Grandi artiste al lavoro


Che cosa sia la creatività se lo sono chiesti in tante e in tanti. Seguono alcuni pareri.
Per Antonin Artaud. “Nessuno ha mai creato, scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall'inferno”.
Per Anna Freud: "Le menti creative devono aver saputo sopravvivere a ogni tipo di cattiva educazione".
Per Joni Mitchell: “Devi tenere vivo il bambino che è in te: senza di lui non si può creare”.
Per Steve Jobs “Creatività significa collegare cose. Quando chiedi a persone creative come hanno fatto qualcosa, si sentono quasi in colpa perché non l’hanno fatto realmente, hanno solo visto qualcosa e poi tutto gli è sembrato chiaro. Sono stati capaci di collegare le esperienze vissute e sintetizzarle in nuove cose.”

Come si può notare, le definizioni sono molte, a elencarle faremmo notte e giunti all’alba forse tentati dal pensare che la creatività non è definibile. Anche perché, di solito, quella parola rimanda ad attività artistiche mentre c’è chi pensa che si può creare anche fuori da discipline territorio delle Muse.
La casa editrice Neri Pozza ha pubblicato un libro che indaga su ciò che ha accompagnato l’opera di molti ingegni. Forse dire “accompagnato” è poco perché tanti comportamenti sono stati parti di quel motore che ha prodotto opere d’arte in più campi espressivi.
Quel volume possiede anche un’altra particolarità: delle condotte, talvolta anche bizzarre, esplora soltanto quelle che contraddistinsero vite femminili, donne che le praticarono oppure le subirono.
Titolo: Grandi artiste al lavoro Stranezze, manie e rituali quotidiani.
Ne è autore: Mason Currey.
Nato a Honesdale, in Pennsylvania, si è laureato presso l’Università della Carolina del Nord ad Asheville.
Il suo primo titolo, “Rituali quotidiani”, è stato pubblicato da Vallardi nel 2016.
Currey scrive nell’Introduzione che il presente libro è un atto di riparazione in quanto un suo precedente lavoro (“Daily Rituals: How Artists Work”) era stato dedicato a ben 161 figure delle quali solo 27 erano donne.
Queste sue recenti pagine spingono il lettore a chiedersi, credo inevitabilmente, se, aldilà di riti e tic, esiste una differenza fra la creatività maschile e quella femminile.
Parecchi hanno scritto su questo tema, ma la mia preferenza va a un testo illuminante di una che la sa lunga in fatto di creatività: Annamaria Testa.
Leggete QUI e mi darete ragione.

CLIC per un video con un’intervista a Currey condotta da Francesca Amé, collaborazione alla traduzione in diretta di Sarah Cuminetti.
Mi piace concludere queste righe con una riflessione di Maria Fisher – una head-hunting di Düssendorf – che afferma: “Gli uomini al vertice si muovono come pesci nell’acqua. Lo stesso accade alle donne. Ma le donne possono, e sanno, anche volare”.
E nel volo, come racconta Mason Currey, portano con loro vizi e virtù, stranezze, manie e riti quotidiani.

Dalla presentazione editoriale di “Grandi artiste al lavoro”

«Come sono riuscite, le grandi artiste, a coniugare gli aspetti quotidiani della vita con la creatività? Scrivevano, dipingevano, componevano ogni giorno? E, se sí, quanto? A che ora cominciavano? E, soprattutto, come ci riuscivano, dovendo anche guadagnarsi da vivere e prendersi cura delle persone presenti nella loro vita?
A differenza degli uomini, la cui routine quotidiana sembra curiosamente irreale, con gli ostacoli mitigati da mogli devote e da privilegi accumulati nei secoli, le donne alle prese con il processo creativo hanno dovuto fare i conti da sempre con umilianti frustrazioni e compromessi.
Molte delle artiste presenti in questo libro sono cresciute in società che ignoravano o respingevano il lavoro creativo delle donne, e molte avevano genitori o coniugi che si opponevano strenuamente ai loro tentativi di far valere l’espressione artistica rispetto ai tradizionali ruoli di moglie, madre e padrona di casa. Parecchie di loro avevano dei figli e dovettero compiere scelte strazianti nel conciliare le proprie ambizioni con le necessità di chi dipendeva da loro. Tutte furono poi costrette ad affrontare atteggiamenti sessisti da parte del pubblico e di chi apriva le porte del successo: editori, curatori, critici, mecenati.
Da Octavia Butler, che si alzava fra le tre e le quattro del mattino, «perché è l’orario in cui scrivere mi viene meglio», a Coco Chanel, che passava ore a sistemare e appuntare le stoffe addosso alle sue modelle, fumando come una ciminiera; da Frida Kahlo, che aveva una grande difficoltà a vivere in maniera regolare e a rispettare le tabelle di marcia, a Louisa May Alcott, che scriveva in preda ad attacchi di energia creativa e di ossessività, saltava i pasti e dormiva poco, “Grandi artiste al lavoro” svela manie, superstizioni, paure, abitudini di cinquantatré grandi donne che hanno fatto la storia della letteratura, dell’arte, della musica e del cinema».

……………………………

Mason Currey
Grandi artiste al lavoro
Traduzione di Chiara Brovelli
Pagine 382, Euro 19.00
Neri Pozza


Le paure medievali (1)

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un libro che del Medioevo esplora un particolare profilo indagato da una grande medievista.
Titolo: Paure medievali Epidemie, prodigi, fine del tempo.
Ne è autrice Chiara Frugoni.
Ha insegnato Storia medievale nelle Università di Pisa, Roma e Parigi.
Tra i suoi numerosi libri segnaliamo, per il Mulino, «Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini» (2017), «Uomini e animali nel Medioevo. Storie fantastiche e feroci» (2018) e «Paradiso vista Inferno. Buon Governo e Tirannide nel Medioevo di Ambrogio Lorenzetti» (2019).
I suoi saggi sono tradotti nelle principali lingue europee, in giapponese e in coreano.

QUI un video presentato da Alessia Soverini con riflessioni sul volume in un incontro, guidato da Alessia Graziano, tra Chiara Frugoni e Alessandro Barbero

Dalla presentazione editoriale.
«Un passato sorprendentemente vicino, nel momento in cui con sgomento ci troviamo ad affrontare realtà che si ritenevano scongiurate da secoli, come le pandemie causate da virus, o assistiamo alle ricorrenti catastrofi ecologiche, o valutiamo i rischi – spesso portati dall’aggressiva mano dell’uomo – che minacciano il pianeta. Il Medioevo ci parla oggi con voce forte, attraverso le tante paure che assillavano donne, uomini, bambini: paura della fine, della miseria, della fame, delle malattie, della lebbra e della peste in particolare, fino alla paura del diverso, dello straniero, degli ebrei, dei musulmani, dei mongoli. Un libro di lugubri sciagure che si susseguono, dunque? No. Un libro che pone domande, addita problemi, cerca risposte. Non siamo più in quel Medioevo, ma gli esseri umani sono ancora gli stessi, nascono, amano, crescono, sperano, si spaventano. Oltre ad alcune curiosità – una data di nascita sbagliata per Cristo, le reazioni suscitate dall’arrivo dell’anno Mille – scopriremo quale evento all’improvviso fece degli ebrei i nemici della porta accanto; che legame esiste fra la nascita del purgatorio e la circolazione di temi macabri nelle chiese, come si contrastò il dilagare delle carestie. Alcuni testimoni privilegiati renderanno palpabili anche a noi i drammi delle loro epoche, mentre uno smagliante corredo di immagini accompagnerà il racconto rendendolo vivo ed emozionante».

Segue ora un incontro con Chiara Frugoni.


Le paure medievali (2)


A Chiara Frugoni (in foto) ho rivolto alcune domande.

Incontrare una grande medievista qual è Chiara Frugoni, è un’occasione troppo ghiotta per rinunciare alla domanda che segue.
Perché i pareri sulle date d’inizio e sulla fine del Medioevo sono spesso discordanti?
E quali per lei sono quelle attendibili
?

Secondo Jacques Le Goff il Medioevo finiva nell’800. Il variare delle date di inizio e fine dipende da che cosa si intende per Medioevo. Per noi è un aiuto mnemonico, ma il Medioevo che dura mille anni non ha senso. C’è un abisso fra il tempo dei Longobardi, un tempo di distruzioni e di violenze e il ‘300 con la nascita di tanti geni in una società colta e raffinata. Quindi io accetto la nostra periodizzazione dei manuali scolastici ma precisando ogni volta di che secolo del Medioevo stia parlando e come lo definisca.

Perché ancora oggi in molti libri di testo e lezioni tenute in aule, il Medio Evo è presentato come un’età fatta di secoli bui?

Medioevo=secoli bui è un’invenzione di Montanelli che da un punto di vista giornalistico è una definizione perfetta. Ma non ha alcun senso: di nuovo come si possono giudicare bui i secoli con Dante, Boccaccio, Petrarca, Cimabue, Giotto? E il secolo appena passato con due guerre mondiali, la bomba atomica e il massacro degli ebrei è stato un secolo luminoso?

Tra le paure medievali scegliamone alcune.
Ad esempio, le epidemie. All’epoca le norme sociali imponevano d’indossare abiti particolari o segni di riconoscimento… forse per gli appestati, certamente per i lebbrosi.
Comprensibile precauzione sanitaria. Ma perché anche agli ebrei semmai in ottima salute
?

Gli appestati non indossavano abiti speciali perché poveretti morivano prima di alzarsi dal letto. I lebbrosi sì, per segnalare la loro presenza e fare in modo che la gente li fuggisse e per evitare il contagio (anche se la lebbra è pochissimo contagiosa): cappello a larghe tese per affrontare la pioggia, abito lungo e chiuso, guanti e una specie di nacchere per avvertire l’arrivo. Gli ebrei furono costretti da papa Innocenzo III ad indossare un distintivo in modo che i cristiani non si mescolassero con loro nei lavori, nei servizi o nei matrimoni. In Germania fu un cappello a punta, in Francia e in Italia una rotella rossa o bianca o gialla (e qui scatta il corto circuito con la stella gialla che gli ebrei dovettero indossare al tempo di Hitler)

Nel suo libro viene smentita quella che è creduta sia stata la paura più grande: la fine del mondo… Mille e non più Mille.
Ma se non terrorizzò la vita di quel momento, con la gente del tempo atterrita dentro le chiese a pregare, a chi dobbiamo quella che oggi i giornalisti chiamerebbero fake news
?

Fu il Carducci che si immaginò e descrisse con ampia retorica la gioia della popolazione nel vedere spuntare di nuovo il sole il primo giorno dell’anno Mille. Nel Medioevo nessuna fonte parla della fine dell’anno Mille. Avevano da fronteggiare molte altre paure!

Nel suo libro è tracciata con divertita malizia un parallelo fra le paure di allora e quelle di oggi. Può dire che cosa l’ha convinta a rintracciare una sorta di parallelo che a sentirlo può sembrare un azzardo e invece

Non parlerei proprio di divertita malizia anche se a volte posso essere ironica. Ad esempio, nel Medioevo non sapendo da dove venisse il contagio della peste, oltre che ad un castigo divino si pensava che fosse dovuta ad un complotto. Oggi non solo i complottisti hanno molto successo ma un pastore della Florida, Rick Wiles pensa che gli ebrei si ammalino di covid come castigo divino per essersi opposti a Cristo.
I paralleli ci sono perché gli uomini medievali erano come noi, amavano, si disperavano, si ammalavano, speravano.

………………...

Chiara Frugoni
Le paure medievali
Pagine 400, con 200 pagine di illustrazioni a colori,
Euro 40.00
Il Mulino


Asiatica Film Festival

A Roma dal 2000 agisce Asiatica Film Festival considerato in Italia e all’estero il più autorevole Festival esistente in Europa fra quelli dedicati al cinema asiatico.
La rassegna, ideata e diretta dal regista Italo Spinelli, presenta pellicole inedite in Italia e che solo grazie a questo Festival è consentito conoscere.

A Italo Spinelli ho rivolto qualche domanda.

Che cosa puoi dire sul cinema indipendente dei paesi asiatici?

Il cinema indipendente, senza voler generalizzare, in molti paesi asiatici deve confrontarsi con la censura, il controllo politico, religioso, sociale e, inoltre, la mancanza di una distribuzione nelle sale cinematografiche del proprio paese. Sono i Festival internazionali, con le loro fondazioni e istituzioni, che spesso sostengono il cinema indipendente, particolarmente l’Europa. Ci sono anche alcune istituzioni dei paesi del Golfo, gli Stati Uniti, con i Fund o la co-produzione, dallo script alla postproduzione, ed è principalmente nei Festival che trova spazio la distribuzione di un certo cinema, molto di frequente con una visione critica del proprio paese o degli effetti drammatici della globalizzazione.

Rapporti fra le altre produzioni e le tv?

Le piattaforme digitali sono tra i maggiori produttori di cinema, la fruizione del prodotto va ben oltre la sala e\o la televisione

Da oltre vent’anni dirigi questo Festival, a te regista che cosa ha dato?

La libertà e il lusso d’innamorarmi di culture non eurocentriche e coltivare questi amori.
……………………………………

Estratto dal comunicato stampa.

«Giunta alla sua ventunesima edizione, “Asiatica Film Festival. Incontri con il cinema asiatico” con la direzione artistica di Italo Spinelli, dopo aver tentato di resistere in sala ha dovuto prendere atto della situazione e quindi deciso di non perdere un'edizione importante continuando ad offrire il meglio della cinematografia asiatica sul sito “Mymovies” dal 18 al 22 dicembre 2020. Il programma si svolgerà in streaming con la promessa, non appena le condizioni lo permetteranno e i cinema riapriranno, di rincontrarci in sala per vedere e festeggiare i film vincitori di questa XXI edizione.
Al termine della manifestazione verranno assegnati 3 premi.
Premio Città di Roma per il Miglior lungometraggio in competizione
Premio NETPAC (Network for Promotion of Asian Cinema)
Premio del pubblico.

CLIC per il calendario del Festival e per seguire le venti opere selezionate tra lungometraggi, documentari e cortometraggi».

Ufficio stampa: Officina delle culture
Giovanna Nicolai gva.nicolai@gmail.com
Carla Romana Antolini 393 9929813 crantolini@gmail.com

Asiatica Film Festival
Direzione artistica: Italo Spinelli

Info: asiaticaencounters@gmail.com
340 – 389 56 07
Dal 18 al 22 dicembre 2020


Il verso giusto (1)


La casa editrice Laterza ha pubblicato un’antologia dal titolo Il verso giusto 100 poesie italiane curata da uno dei più grandi linguisti del nostro tempo: Luca Serianni, professore emerito di Storia della lingua italiana nell’Università di Roma La Sapienza, accademico dei Lincei e della Crusca.
Si è occupato di grammatica italiana, storia della lingua letteraria, linguaggio della medicina e didattica dell’italiano. È autore di una fortunatissima grammatica dell’italiano, più volte ripubblicata negli ultimi venticinque anni (Italiano, con A. Castelvecchi, ultima edizione Garzanti 2012).
Tra i suoi libri più recenti: La lingua poetica italiana. Grammatica e testi (Carocci 2009); Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti (con G. Benedetti, Carocci 2009); Manuale di linguistica italiana. Storia, attualità, grammatica (con G. Antonelli, Bruno Mondadori 2011); Italiano in prosa (Franco Cesati Editore 2012); Storia dell’italiano nell’Ottocento (il Mulino 2013); Per l'italiano di ieri e di oggi (il Mulino 2017).
Per I libri nel catalogo Laterza: CLIC.

L’antologia è uno fra I libri più discussi dagli scrittori e dai critici.
La prima pagina ad essere letta è quella che contiene l’Indice, per verificare i nomi presenti e quelli assenti. Eppure, è un esercizio (perdonata, se volete perdonarla, la vanità) ingiusto verso il curatore perché non sta redigendo un elenco telefonico ed ha pieno diritto (o addirittura il dovere) di esporsi e fare le sue scelte. Inutile, quindi, rallegrarsi per avere trovato nomi cari o intristirsi per non averne trovati altri, oppure rabbuiarsi per averne notati altri ancora ritenuti immeritevoli. E poi riferendomi ai nomi esclusi, di ieri e di oggi, nulla toglie loro validità, la loro assenza è soltanto il risultato del pensiero di un critico, pur se autorevolissimo, e non già un’universale condanna a un’eterna infamia letteraria.
Luca Serianni sa benissimo, lo ha detto anche in alcune interviste, che le polemiche non mancheranno e tiene al proposito un atteggiamento elegante che non avanza scuse che non deve e neppure propone sfide che non sente.
Curatore, quindi, ben libero nelle sue scelte, così come è lecito chiedere quale il criterio che l’ha guidato nel suo lavoro.
È quello che farò nella seconda parte di questa mia nota.

Dalla presentazione editoriale
«Luca Serianni, grande storico della lingua, ci accompagna in un viaggio affascinante nella poesia italiana: cento tappe, cento testi – noti e meno noti – alla ricerca del ‘verso giusto’.
Valore assoluto, rappresentatività e, naturalmente, gusto personale sono i criteri che hanno selezionato cento poesie scritte ‘in italiano’ nell’arco di otto secoli di storia letteraria: da Giacomo da Lentini a Petrarca, da Gaspara Stampa a Tasso, da Leopardi a Caproni, affacciandosi su qualche nome meno noto, dedicando attenzione alla lirica femminile. Questo libro delizierà i lettori che hanno la curiosità di riprendere in mano poesie un tempo accostate a scuola. Una lettura fondamentale per gli studenti e gli insegnanti che vogliono scoprire o riscoprire il patrimonio letterario italiano, avvalendosi del commento di un insigne linguista».

Segue ora un incontro con Luca Serianni.


Il verso giusto (2)


A Luca Serianni (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quali criteri lo hanno guidato nel comporre “Il verso giusto”...

Mi sono fatto guidare da due criteri, che hanno operato autonomamente oppure in sinergia. Intanto, la riconosciuta rappresentatività, o altezza artistica, di alcuni poeti. Sulla grandezza di Dante non ci sono dubbi e semmai ci possono essere scelte diverse nell’àmbito delle singole opere: per le rime ho optato per quelle non incluse nella “Vita nova” e per la “Commedia” ho scelto tre episodi, straordinari in sé ma anche utili per mettere in luce particolari aspetti della poesia di Dante: l’invenzione di uno stile comico, nel vivace battibecco tra maestro Adamo e Sinone nell’”Inferno”; l’eco ancora intensa dei ricordi terreni nel “Purgatorio”, l’attenuarsi (non la scomparsa!) del personaggio nel mondo degli spiriti beati, rappresentati da Piccarda. Lo stesso si può dire in molti altri casi − da Petrarca a Leopardi, da Pascoli a Caproni − in cui il mio personale gusto di lettore coincide col valore correntemente attribuito a questi poeti dalla critica. In altre circostanze, ho fatto emergere mie personali preferenze, che ho cercato, specie per i secoli scorsi, di motivare nell’introduzione e nel sobrio apparato di note. Burchiello ha legato il suo nome alla poesia “nonsensica”, agli antipodi della seriosità del classico poeta che piange su un amore infelice o sull’ineluttabilità della morte; I poeti barocchi continuano a essere ingiustamente emarginati nel giudizio comune (potenza postuma della condanna di Francesco De Sanctis!), ma rinnovano il repertorio poetico, dilatando i temi poetabili e giocando con una straordinaria effervescenza linguistica. Nel secondo Ottocento Remigio Zena anticipa alcune soluzioni espressive del pieno Novecento.
La combinazione di questi due criteri risponde anche all’ideale fisionomia del lettore che mi proponevo di raggiungere: l’insegnante e lo studente, certo, ma anche la persona di una certa età che abbia la curiosità e la voglia di rinnovare antichi ricordi liceali: accanto al noto o notissimo (“I Sepolcri”…) si troverà il meno noto o l’ignoto (il “Detto del gatto lupesco”…): l’idea, o l’aspirazione, è quella di suscitare l’attenzione, e la curiosità del lettore, di fronte alla tradizione poetica italiana.

Nell’introduzione, pur prendendo distanza dalla parola “antinovecentista” che non le piace, accetta di essere quella la posizione dalla quale è meno lontano e che è la motivazione per cui “ho scarificato del tutto sperimentalismo e avanguardia”.
Superiamo la dizione “Antinovecentista” ma non quello che vuole indicare, perciò le chiedo di esprimere il perché della sua contrarietà a quelle correnti

Non si tratta di contrarietà, ma di distanza o, se si vuole, di minore consuetudine con certi poeti, anche il grande Zanzotto, per esempio. Ma conta anche, come sempre quando si scrive un libro, il lettore a cui ci si vuole rivolgere: di qui la scelta di far parlare il più possibile i testi, senza gravarli di un apparato di note che, indispensabili nelle benemerite antologie in uso nella scuola, qui sarebbero state di troppo. E in effetti il commento, dopo d’Annunzio, si fa sempre più smilzo, nella fiducia che i poeti moderni e contemporanei che ho scelto, parlino da soli al lettore che abbia voglia di leggerli.

Che cosa le piace dei poeti della Domenica tanto da dare loro spazio nell’antologia?

In realtà nel “Verso giusto” non ho ospitato nessun “poeta della domenica” Ho menzionato il fenomeno nell’introduzione, dandone una lettura in positivo, questo sì. Resto colpito, direi anche come cittadino, che siano così numerose le persone fuori dai circuiti letterari tradizionali che affidano alla parola le loro emozioni, la loro idea sul mondo o giochino con le capacità creative della lingua. E ancora più colpito del fatto che scrivano versi, per giunta pregevoli, anche persone di grande cultura, ma lontanissime dalla letteratura (come l’economista Franco Tutino o il fisico Sergio Doplicher). Ancora diverso il caso di chi, come Bruno Germano, ricorre alle favole in endecasillabi per instillare nei bambini il gusto del ritmo che nasce dalla consuetudine con il metro e anche l’arricchimento del repertorio lessicale. Sono tutte prove di una vitalità della poesia anche nell’orizzonte attuale.

Ha scritto Roman Jakobson in Poetica e Poesia: “Il confine che divide l’opera poetica da ciò che non è tale, risulta più labile di quello dei territori amministrativi cinesi”.
È d’accordo con quel parere? Se sì oppure no, perché
?

Sono d’accordo, specie se leggiamo questa sentenza (forse andando oltre le intenzioni di Jakobson) in riferimento al mutare, anche radicale, delle gerachie di valori nel corso del tempo. Pochi autori italiani hanno acceso l’entusiasmo di tanti lettori, italiani e stranieri, coime Torquato Tasso. Oggi Tasso resta, sì, uno dei grandi classici della letteratura italiana, ma è avvertito dai più come un po’ polveroso, per dir così, rispetto alla vivacità divertita del suo tradizionale rivale Ariosto. E Quasimodo, per citare un autore novecentesco, nonostante il Nobel, appare molto sbiadito rispetto agli altri due poeti a lui tradizionalmente associati, Ungaretti e Montale. Sono veramente pochi i poeti la cui collocazione nell’empireo letterario sia stabilizzata: ancora oggi, in una scuola, Dante e Leopardi, se presentati adeguatamente dal docente, possono accendere l’entusiasmo dei giovanissimi lettori. In questo caso il confine tra poesia e non poesia, per riprendere ad altro proposito una celebre formula crociana, è ben più netto del confine dei territori amministrativi cinesi di cui parlava Jakobson.

Luca Serianni
Il verso giusto
Pagine 480, Euro 25.00
Laterza


La relazione generosa

Alla voce “mecenatismo” sul vocabolario si legge: “detto di sostegno ad attività artistiche e culturali, chi le sostiene è detto mecenate (per antonomasia prende il nome di Gaio Cilnio Mecenate (70 a.C. - 8 d.C.)”. Mecenate… chi era costui?
Ricchissimo, molto della sua posizione era dovuta all’amicizia con l'imperatore Augusto.
Formò un circolo di intellettuali e poeti nel quale agirono grandi nomi, ad esempio Orazio, Properzio, Virgilio che scrisse le Georgiche in suo onore,
Il mecenatismo conobbe poi nel Rinascimento un periodo maiuscolo, si pensi a quanto fu realizzato grazie alla munificenza dei Medici con Cosimo il Vecchio dalla fine del Trecento fino alla fine del Quattrocento con Lorenzo il Magnifico.
Ai nostri giorni il mecenatismo si è trasformato in un fenomeno praticato da alcune Fondazioni intestate a nomi d’illustri famiglie (cito una per tutte quella di Peggy Guggenheim) e si è esteso anche a famose industrie e grandi imperi commerciali. Ha dato altresì origine a una nuova professione esercitata dal manager culturale che pone in contatto committenza e artisti, istituzioni pubbliche con risorse private producendo, mostre, rassegne, convegni, stagioni concertistiche, spettacoli. Forme queste che incrementano (tranne in questo sfortunato periodo dovuto all’emergenza sanitaria) attività di uffici stampa, allestitori, e una serie di professionisti provenienti dalle arti visive, dal teatro, dal cinema, dalle università. Un tema, insomma, di grande attualità.

Bene ha fatto, quindi, la casa editrice FrancoAngeli a pubblicare un libro sul tema del mecenatismo oggi.
Titolo: La relazione generosa Guida alla collaborazione con filantropi e mecenati.
Ne sono autrici Elisa Bortoluzzi Dubach e Chiara Tinonin le quali partono da una precisazione: "Se il mecenatismo è fatto risalire al suo eponimo del 70 a.C., uno studio esegetico mostra che la generosità senza tornaconto personale è stata ndescritta anche prima di Gaio Clinio Mecenate. Le prime tracce della parola “filantropia” si ritrovano nelle opere di Eschilo, Aristofane, Epicarmo. Nel IV secolo a.C. è citata da retori come Isocrate e Demostene, e nei Memorabili. Senofonte ne dà un’interpretazione moderna, ritenendo questo atto di gratuità una dimostrazione non solo di altruismo, ma anche di lungimiranza e capacità decisionali. Nell’antica Roma si parlava di filantropia al Circolo degli Scipioni, intorno alla metà del II secolo a.C., ma con un significato più filosofico e letterario".

Elisa Bortoluzzi Dubach è docente universitario in Italia e Svizzera, fa parte della giuria del Premio austriaco "Mecenate". Ha scritto “Lavorare con le fondazioni Guida operativa di fundraising” (FrancoAngeli, 2014); “Sponsoring dalla A alla Z Manuale operativo” (Skira, 2019); “Mäzeninnen-Denken-Handeln-Bewegen (Haupt Editore, 2016).
Chiara Tinonin consulente di fondazioni e organizzazioni non profit in ambito artistico e culturale, è ambasciatrice di Cittadellarte-Fondazione Pistoletto per l'Australia dove è consulente storica dell'Arts Learning Festival di Melbourne.
Scrive di mecenatismo, filantropia e politiche culturali.

“La relazione generosa” si pone quale manuale completo sulla relazione filantropica articolandosi in nove capitoli e un’appendice dedicata alle nuove traiettorie di sviluppo del settore. All’interno di ogni capitolo numerose checklist perfezionano l’acquisizione dei contenuti, rendendo immediata per il lettore l’applicazione dei diversi criteri metodologici nella gestione operativa di una relazione con un mecenate.
Oggi il mecenatismo nella forma moderna detta di sponsorizzazione (incoraggiata da più governi sul piano fiscale), vede due caratteristiche che ne disegnano un nuovo profilo. Il primo è dato dal finanziamento che va verso il restauro di monumenti o spazi abbandonati (ex fabbriche, stazioni ferroviarie dismesse, caseggiati non più abitati) ristrutturati e fatti rivivere quali aree culturali. Il secondo è un sempre più marcato interesse verso l’ambiente scientifico, troppo trascurato un tempo, preferito spesso a quello umanistico.
In “Il matematico impenitente” Piergiorgio Odifreddi scrive: “In fondo, se Mecenate vivesse oggi non finanzierebbe più poeti e letterati, ma divulgatori e comunicatori scientifici: cioè, gli eredi del dio Hermes, il messaggero degli dèi, la cui funzione era appunto quella di stabilire un ponte di collegamento fra l'Olimpo e la Terra. E dove mai risiede oggi l'Olimpo, se non nei centri di studio e di ricerca nei quali si allestiscono non più i fulmini e le tempeste della mitologia antica, bensì i materiali e le macchine della tecnologia moderna?”.

Dalla presentazione editoriale.
«Questo libro è un viaggio appassionato nel mondo della generosità, che ha lo scopo di rendere semplice e accessibile il "progetto filantropico", ovvero la trascinante energia che nasce da un atteggiamento benevolo nei confronti degli altri.
Scritto sotto forma di guida, illustra gli strumenti principali del mecenatismo e fornisce indicazioni utili per risolvere i problemi sulla via della filantropia.
Scoprendo, passo dopo passo, come individuare i mecenati ideali per i propri progetti. Il lettore impara a creare le condizioni ottimali per avviare con loro una collaborazione che si rinnova nel tempo, sia nella donazione a favore di un singolo progetto, sia in una relazione di partnership di lungo periodo.
Centrale è la forza dell'alleanza creativa fra mecenati e artisti o professionisti del Terzo Settore, nel cogliere le sfide dei grandi temi di utilità sociale e costruire insieme un maggiore benessere per la collettività.
L'opera è stata scritta pensando a tutti coloro che possono beneficiare del mecenatismo, gli specialisti della filantropia, gli operatori della comunicazione, i professionisti del marketing; ma anche studenti, curiosi e persone generose di natura...
Per tutti coloro che desiderano affinare le proprie abilità nel realizzare progetti per esplorare le illimitate opportunità che il mecenatismo offre nel mondo di oggi».

Elisa Bortoluzzi Dubach – Chiara Tinonin
La relazione generosa
Prefazione di Viviana Kasam
Postfazione di Ernst Fehr
Pagine 188, Euro 23.00
FrancoAngeli


Rinascimento Babilonia (1)


La casa editrice Marsilio ha pubblicato un libro colto e allegro, sapiente e piccante intitolato Rinascimento Babilonia Una storia erotica dell’arte italiana
L’autore è Luca Scarlini.
Nato a Firenze (1966), saggista, e drammaturgo, insegna presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e in altre istituzioni italiane e straniere.
Tra i suoi libri: La sindrome di Michael Jackson. Bambini, prodigi, traumi (2012), Andy Warhol superstar. Schermi e specchi di un artista-opera (2014), Siviero contro Hitler. La battaglia per l’arte (2014), Ermafroditi. Chimere e prodigi del corpo tra storia, cultura e mito (2015), Ziggy Stardust. La vera natura dei sogni (2015), Bianco tenebra. Giacomo Serpotta, il giorno e la notte (2017), Il Caravaggio rubato. Mito e cronaca di un furto (2018), L’ultima regina di Firenze. I Medici: atto finale (2018), L’uccello del paradiso. Mario Mieli e la lingua perduta del desiderio (2020). Ha curato inoltre: Costantinopoli (2018) e Amore e ginnastica (2015) di Edmondo De Amicis; Il bacio di una morta di Carolina Invernizio (2010) e Alfabeto Poli (2013). Autore radiofonico, voce di Rai Radio 3, ha condotto il programma Museo Nazionale, ha curato mostre sulla relazione tra arte, musica, teatro, moda e scrive su «Alias» e sul «Corriere della Sera» di Firenze.
Intensa anche la sua attività di performer e storyteller, un esempio recente on line è Partita Doppia per la Quadriennale d’Arte in corso a Roma fino al 17 gennaio 2021.

Scarlini è stato già altre volte graditissimo ospite di questo sito in occasione di sue imprese letterarie e sceniche ad esempio QUI e anche QUI;
Se non vi basta: CLIC e perché no RICLIC.

Dalla presentazione editoriale di Rinascimento Babilonia

«Nessuna epoca moderna come il Rinascimento è stata altrettanto dedita alla trattazione teorica sull’amore. Per oltre un secolo, infatti, malgrado le intemperanze di Girolamo Savonarola, Voluptas è stata la dea di riferimento per le penne più aguzze, mai stanche di indagare il potere di Cupido, mentre intorno esplodeva la violenza dei conflitti e l’Italia era ostaggio delle potenze internazionali che si muovevano alla sua conquista. Il Cinquecento italiano è allo stesso tempo il secolo di Pietro Aretino e di san Carlo Borromeo, e la sua vicenda letteraria e artistica appare in orbita tra i tre poli ideali di Firenze, con lo splendore neopagano dei Medici, Roma, segnata dalla maestosa decadenza della corte papale, a lungo rimossa dall’afflato censorio della Controriforma, e Venezia. In una scorribanda colta e brillante nel Rinascimento italiano, Luca Scarlini ridà giustizia (e gusto) a un periodo che ha celebrato il trionfo del corpo, mettendo in scena una galleria di personaggi bizzarri e curiosi – cortigiani ed ermafroditi, timorati di Dio e di Eros – capaci di mescolare registri aulici e triviali. Passando da Siena, Venezia, Ferrara, con incursioni a Palermo, Napoli, Londra e Lione, l’autore traccia l’inedito ritratto di una fase cruciale della storia italiana. Pescando a piene mani nel repertorio narrativo votato ai sensi, ci consegna così un meraviglioso mosaico di istantanee dalla Siena agli albori del Rinascimento, palcoscenico dell’affermazione di una nuova letteratura erotica, alle sregolatezze dei pittori del Nord nella Roma barocca».

Segue ora un incontro con Luca Scarlini.


Rinascimento Babilonia (2)

A Luca Scarlini.(in foto) ho rivolto alcune domande.

Ti chiedo di aggiungere qui qualche parola a quelle che scrivi in apertura del Prologo: “Questo libro si muove in un territorio immaginario tra Kenneth Anger e Maria Bellonci”

Il punto è togliere il Rinascimento da una patina di rispettabilità che la Storia dell'Arte ha determinato, spostando l'attenzione dagli autori e dai loro simboli, alle tecniche di attribuzione, ai rimarchi stilistici. Se un'epoca fu tumultuosa, frenetica, agitata, fu quella che si dette tra il '400 fiorentino neoplatonico, il fasto romano prima del sacco di Roma, e il passaggio poi della palma delle arti a Venezia. Maria Bellonci, bravissima a fare "cantare" gli archivi, trovando una sorta di profonda risonanza tra il presente e le figure antiche, mi è sembrata sempre un modello interessante, che ho shakerato con l'altro, non meno rilevante per me, di Hollywood Babilonia, bibbia degli eccessi della Mecca del Cinema, raccontata più per tramite delle sue morti, che per le vicende dei trionfi sullo schermo.
Né l'uno né l'altro sono modello specifico, ma piuttosto ispirazione per un lungo percorso trascorso per anni in racconti dal vivo, spettacoli, mostre, con numerose visite ad archivi e incroci con tanti studiosi.

Quali ragioni e curiosità storiche ti hanno spinto a esplorare proprio il ‘500 italiano?

Perché è un'epoca intensamente contraddittoria, quasi il concentrato delle possibili diatribe sull'esistenza. Tra l'estremo della libertà intellettuale e il fuoco e le fiamme dell'Inquisizione, le persecuzioni e il libertinaggio, si dà il profilo di numerose discussioni che ancora oggi, malgrado tutti i cambiamenti del caso, rimangono con noi stabilmente.

La letteratura, specie nella prima metà del ‘500, con il volgare che aveva un’esistenza ancora abbastanza verde, quale importanza ha avuto nella maturazione della nostra lingua?

Fondamentale: l'Europa ha continuato a esprimersi in latino, specialmente nelle questioni scientifiche, fino al '900. Il volgare, così diverso da zona a zona, ha permesso l'irruzione della realtà della lingua nella letteratura. Prima di quell'epoca sarebbe stato impossibile pensare la violenza del teatro di Ruzante, le provocazioni filosofiche ed erotiche del Candelaio di Giordano Bruno, gli accessi di eros del repertorio popolare "a la bulesca" a Venezia. L'amore, come volevano i dialoghi di Leone Ebreo, fu il grande codice di quell'epoca turbata, divisa tra vocazioni furenti di ascesi e censura e altrettanto forte volontà di libera espressione, prima che il Concilio di Trento frenasse tutto, ponendo uno spesso manto di ceneri su temi che hanno continuato comunque a covare anche nel secondo seguente.

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Luca Scarlini
Rinascimento Babilonia
Pagine 208, Euro17.00
E-Book 7.99
Marsilio


Ossa di sole


Questo sito, cime sanno quei generosi che ne leggono le pagine, non si occupa di romanzi perché non m’interessa andare dove mi porta il cuore né voglio stare tre metri sopra il cielo. Talvolta, però, capita d’incontrare una penna che di trame e di personaggi ne fa un’occasione di ricerca di linguaggio, di una forma espositiva che diventa essa stessa protagonista della storia narrata.
Tutto questo avviene in Ossa di sole (titolo originale: Solar Bones) dell’irlandese Mike McCormack pubblicato dalla casa editrice il Saggiatore..
McCormack è autore di due raccolte di racconti e tre romanzi, tra cui si segnalano “Notes from a Coma” (2005) e “Forensic Songs” (2012).
Con “Ossa di sole” ha vinto l’International Dublin Literary Award ed è stato selezionato per il Man Booker Prize.
Questo libro è costituito da una sola frase lunga 240 pagine che si trasforma in una gabbia dove regna l’Ansia, proprio quella con la A maiuscola e non certo per effetti thrilling, ma per una tensione fatta di ricordi, talvolta quasi insignificanti, di oggetti senza mistero, di attimi vissuti senza particolare partecipazione, ma che tutti messi assieme entrano in una vertigine facendone trama claustrofobica del reale.
Marcus il protagonista vive di ricordi come certi personaggi beckettiani (è chiara, non nascosta l’influenza di Joyce e dell’altro irlandese Samuel), il suo monologo “attraversa” – come ha giustamente scritto Andrea Pitozzi – “tutti i punti centrali della vita, dalla politica all’amore, dalla religione al lavoro, rimescolando continuamente il tutto all’interno di un caotico e interminabile srotolarsi del mondo, così come si srotola la sua riflessione”.

Questa impresa di scrittura è stata resa in modo mirabile dalla traduzione.
Sostenere il ritmo di quella battuta lunga 240 pagine, infatti, è impresa da record nella quale è perfettamente riuscito il bravissimo Luca Fusari.
Se Georges Mounin ci dà un classico con «Les Problèmes théoriques de la traduction» (1963), un nuovo campo di discussione sulla traduttologia si ha con «Dopo Babele» (1975) di George Steiner che scrisse nell’edizione italiana del 1985: «”Dopo Babele” si rivolge ai filosofi della lingua, agli storici delle idee, agli specialisti di poetica, dell’arte e della musica, ai linguisti e, ovviamente, ai traduttori (…) In altre parole, a chi fa vivere la lingua e sa che gli avvenimenti di Babele sono forse un disastro ma al tempo stesso – ed è questa l’etimologia della parola “disastro” – una pioggia di stelle sull’umanità».

A Fusari ho rivolto due domande.
Chi è Mike McCormack?

Irlandese, autore di racconti e romanzi (i primi inclusi in Getting It In the Head e Forensic Songs; i tre romanzi da lui firmati sono Crowe's Requiem, Notes from a Coma e Solar Bones, l'unico tradotto in italiano), attentissimo al lavoro sulla lingua e sul ritmo della narrazione. Nell'ultimo decennio si è imposto come uno dei nomi più rilevanti della narrativa irlandese contemporanea,

La principale difficoltà incontrata nel tradurre quest’autore...

L'assenza di "divisioni" all'interno di un testo che si presenta come un'unica frase lunga centinaia di pagine, la necessità di scavare prima di tutto nel ritmo della prosa e soltanto da lì ricostruire i piani narrativi, la scansione delle sequenze in cui è divisa la macro-frase, le accelerazioni e i rallentamenti di queste ultime. Si è trattato di una vera e propria apnea, di un'immersione in un elemento densissimo, da riprodurre rispettandone appieno la struttura e conservandone il più possibile un intricato sistema di rimandi interni, ritmici, sonori e tematici.

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Dalla presentazione editoriale.
«Ci sono istanti in cui la vita scorre tutta intera davanti agli occhi, come una visione. “Ossa di sole” cattura quella visione. Gli occhi e la vita appartengono a Marcus Conway, un marito, un padre, un ingegnere che abita in un lembo rurale d’Irlanda. È il 2 novembre, il giorno dei morti. Seduto al tavolo della cucina, Marcus sente il rintocco di una campana, la campana dell’Angelus. Quel suono risveglia in lui la vertigine del ricordo, i nodi irrisolti, le ferite, gli amori non riconciliati: la moglie che ama e ha tradito, il figlio lontano, la figlia artista che scrive un’invettiva sui muri della galleria, usando il proprio sangue come pittura (…) Scritto in un’unica frase che si rompe e ricompone al ritmo di un respiro, “Ossa di sole” è il flusso di una coscienza in cui si imprime un riflesso del tutto, che abbraccia in ogni attimo l’infinitesimo e l’infinito. Mike McCormack convoca nella sua scrittura la tradizione irlandese di Beckett e Joyce per costruire la parabola eccezionale di una vita come tante, la solitudine e l’amore di un uomo capace di provare meraviglia e sconcerto per l’esistente. Un monologo in cui la morte e il vuoto metafisico del presente sono raccontati con il raccoglimento della preghiera, con il furore della bestemmia».

Mike McCormack
Ossa di sole
Traduzione di Luca Fusari
Pagine 242, Euro 24.00
Il Saggiatore


Dizionario dei Media (1)

La casa editrice FrancoAngeli ha pubblicato due libri che recano una firma protagonista degli studi sociologici in Italia e largamente apprezzata all’estero, quella di Vanni Codeluppi professore ordinario di Sociologia dei media all'Università IULM di Milano.
Per FrancoAngeli, precedentemente: “L'era dello schermo” (2013); “I media siamo noi” (2014); “Mi metto in vetrina” (2015), “Il divismo” (2017); “Il tramonto della realtà” (2018); “Jean Baudrillard. La seduzione del simbolico” (2020).

Questa mia nota si soffermerà su “Dizionario dei Media”, ma prima segnalo un altro volume uscito a ottobre: Fellini e la pubblicità.
Il Dizionario dei Media è uno di quei saggi che oltre al valore delle riflessioni su macchine e meccanismi presi in esame, risulta necessario come mappa per viaggiare nel territorio sempre più complesso della comunicazione nei nostri giorni e dei suoi effetti sulle nostre vite.
I testi scientifici sui media non mancano; scarseggiano tuttavia degli strumenti di sintesi che, come questo dizionario, possano orientare in una realtà articolata e in veloce cambiamento.
“Dizionario dei media” si avvale di una struttura chiara e solida: trenta voci – su altrettanti temi chiave relativi al mondo dei media – suddivise a loro volta in tre differenti aree concettuali: gli strumenti (cinema, radio, tv...), il funzionamento (software, serialità, divismo...), i concetti (kitsch, icona, mito...).
Insieme con Vanni Codeluppi, il libro reca le firme di Maria Angela Polesana e Tito Vagni.

Maria Angela Polesana è professore associato di Sociologia dei media all'Università IULM di Milano. Per FrancoAngeli ha pubblicato “La pubblicità intelligente. L'uso dell'ironia in pubblicità” (2005) e “Pubblicità e valori. Nuovi consumi e nuovi messaggi per una società che cambia” (2016).
Tito Vagni è assegnista di ricerca all'Università IULM di Milano.
Per FrancoAngeli ha pubblicato “Abitare la Tv. Teorie, immaginari, reality show” (2017).

Dalla presentazione editoriale.
«I media occupano un ruolo importante all'interno delle società contemporanee. Impegnano il tempo delle persone, influenzandone le opinioni e il modo di pensare. E forniscono un fondamentale contributo al funzionamento del processo di creazione di valore del sistema economico.
Il volume attraverso una prospettiva "mediologica", che colloca i media al centro dell'attenzione, ma contemporaneamente li considera come uno dei diversi attori sociali, si propone di dare conto degli effetti prodotti, nel corso del tempo, dai processi di cambiamento dei media.
Senza voler cristallizzare il significato delle voci, ma presentandosi come una sorta di mappa concettuale, il dizionario vuole inoltre consentire al lettore di costruire un proprio percorso di lettura, di selezionare cioè le voci che sono più affini ai suoi interessi».

Segue ora un incontro con Vanni Codeluppi.


Dizionario dei Media (2)

A Vanni Codeluppi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Qual è l’obiettivo che si pone questo volume?

Abbiamo scritto il libro “Dizionario dei media” perché volevamo offrire ai lettori una mappa utile per orientarsi rispetto a una realtà articolata e complessa come l’odierno mondo dei media. Un mondo che riveste un ruolo particolarmente centrale all’interno delle società contemporanee. Non a caso tende ad occupare intensamente il tempo di vita delle persone, le quali vengono di conseguenza influenzate nelle loro opinioni e nel loro modo di pensare. Ma va anche considerato che il mondo dei media è importante perché fornisce un fondamentale contributo al funzionamento del sistema economico. Siamo cioè di fronte a un intenso processo di “mediatizzazione della società”. I volumi che analizzano il sistema dei media sono numerosi, ma ci sembrava che un dizionario potesse essere estremamente prezioso oggi, poiché sono molto rari degli strumenti agili e di sintesi. Le persone invece si trovano spesso a disagio di fronte a un mondo come quello mediatico, che invia loro numerosi segnali e stimoli, e dunque hanno bisogno di strumenti di orientamento.

Nell’accingervi a scrivere questo testo in forma di dizionario, quale la prima cosa che avete deciso di fare assolutamente per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Abbiamo prima di tutto cercato di tracciare uno schema concettuale in grado di definire un quadro chiaro dei principali concetti da considerare. Ci sembrava infatti importante che questo libro potesse presentarsi come uno strumento immediato e facilmente consultabile e bisognava di conseguenza evitare di fare ricorso a un numero troppo elevato di concetti o a dei concetti particolarmente complessi. Bisognava inoltre evitare che le diverse voci si sovrapponessero tra loro. La struttura del volume non è quella del dizionario tradizionale, con le voci ordinate alfabeticamente. Abbiamo pensato infatti che le voci sarebbero state facilmente rintracciabili dato il loro numero limitato e che sarebbe stato utile invece organizzarle per aree tematiche.

Il volume presenta trenta voci suddivise in tre aree concettuali.
Ciascuna di quelle tre parti che cosa individua
?

Le tre aree tematiche di cui il libro tratta sono quella degli strumenti, quella del funzionamento e quella dei concetti. Nel primo caso, si è cercato di definire le caratteristiche dei principali strumenti di comunicazione oggi disponibili, dedicando una particolare attenzione al mondo contemporaneo dei media digitali. Nel secondo caso, invece, si è tentato di individuare alcuni concetti che meglio di altri sono in grado di chiarire come operano attualmente i media nel nostro contesto culturale e sociale. Nel terzo caso, infine, abbiamo individuato altri concetti che ci sembrano essere in grado di esplicitare la prospettiva che abbiamo scelto per analizzare i media. Una prospettiva che può essere definita “mediologica”, in quanto attribuisce un grande valore ai media e riconosce a tali strumenti di comunicazione quel ruolo estremamente importante che svolgono attualmente nella società. Infatti, essi esercitano un significativo impatto sui sensi degli esseri umani e producono delle modificazioni rispetto alle modalità che vengono utilizzate dagli individui per pensare la realtà culturale e sociale in cui vivono. Dunque, devono essere considerati non come degli strumenti che effettuano una trasmissione neutrale di informazioni, suoni e immagini, ma come qualcosa che tende a modificare in profondità il nostro modo di percepire e sentire la realtà.

Il moltiplicarsi dei media ha comportato una specializzazione della comunicazione o una banalizzazione dei contenuti dovuta alla necessità di semplificarne la trasmissione?

Credo che il moltiplicarsi dei media abbia determinato una significativa crescita delle conoscenze disponibili per gli esseri umani. C’è dunque stato un notevole arricchimento delle possibilità conoscitive. Ciò ha generato però, nel contempo, anche delle crescenti difficoltà da parte di molti individui a gestire l’intensa mole di conoscenze che si è resa disponibile. Sono state sviluppate strategie di risposta a questo problema: dal multitasking a un approccio superficiale e veloce ai messaggi. Ma evidentemente tali strategie non possono essere considerate pienamente soddisfacenti, perché producono degli effetti significativi sul piano della banalizzazione e dell’impoverimento dei contenuti trasmessi.

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Vanni Codeluppi
Dizionario dei Media
Con testi di
Maria Angela Polesani
Tito Vagni
Pagine 144, Euro 15.00
FrancoAngeli


Maker Faire Rome


Che cos’è “Maker Faire Roma” e come si svolge quest’anno colpito dall’emergenza sanitaria viene sintetizzato QUI.

Chi sono i Maker? Per saperlo basta un CLIC.

Tanti gli avvenimenti, per conoscerli cliccate QUI.
Due segnalazioni.
La sezione dedicata alla relazione tra arte contemporanea e nuove tecnologie è curata da Valentino Catricalà che ha selezionato più di 40 artisti di tutto il mondo e così dice: Quella di Maker Art non è tanto una migrazione di contenuti artistici già esistenti sulla piattaforma, ma una vera e propria progettazione del tutto, dove le specifiche opere sono pensate, realizzate, proposte, osservate e vissute secondo una logica fisica e virtuale. Perché Maker Art è l’unica sezione della fiera che manterrà anche una natura fisica, grazie alle tante collaborazioni dove artisti, intellettuali, scienziati e creativi dialogano da sempre per generare nuove visioni del futuro. Essere presenti in questo particolare momento storico è soprattutto un modo per dimostrare che arte e tecnologia possono aiutarci ancora a riflettere su un’epoca complessa come quella che stiamo vivendo.

In questo scenario, ecco a Maker Faire la prestigiosa presenza di Lev Manovich del quale è recentemente uscito in Italia, a cura di Valentino Catricalà, il libro “L’estetica dell’intelligenza artificiale” edito da Luca Sossella.

Ufficio Stampa: press@makerfairerome.eu

Essendo Nybramedia un sito dedicato alle arti e al loro intreccio con scienze e tecnologie, ecco questa sua sezione Cosmotaxi effettuare adesso una corsa attraverso un particolare spazio dedicato all’innovazione tecnologica sulla musica.
Per la sua prima edizione interamente digitale, Maker Faire Rome - European Edition 2020, per la sezione Maker Music curata da Andrea Lai e Alex Braga, porta in scena domenica 13 dicembre alle ore 20.30: remote duet con Paolo Buonvino e il già citato Alex Braga.
Suoni per Pianoforte, Intelligenza Artificiale, Umani e Networks.
Un’esperienza unica in cui Buonvino, e Braga si cimenteranno in una performance in remoto a latenza zero.
I due musicisti, in due distinte location, lontane fra loro chilometri di distanza, duetteranno dal vivo in tempo reale grazie proprio all'intelligenza artificiale.

In questo video, Andrea Lai, rispondendo a un’intervista, spiega profilo tecnico e corpo espressivo di “Maker Music” e il nuovo panorama musicale e sociale che si va imponendo ai nostri giorni.

Ufficio Stampa Maker Music
Marta Volterra marta.volterra@hf4.it (+39) 340.96.900.12

Ufficio Stampa Paolo Buonvino
Lucia Angelici lucia.angelici@mncomm.it +39.348.2302556


Intervista con la New Media Art (1)


Le Edizioni Mimesis hanno pubblicato un libro che evidenzia come i codici e i linguaggi dell’arte tecnologica siano gli strumenti ideali per un approccio multidisciplinare, una radicale osservazione e una profonda comprensione della realtà culturale ed espressiva che caratterizza il nuovo millennio.
Titolo: Intervista con la New Media Art L’Osservatorio Digicult tra arte, design e cultura digitale,
Il volume è a cura diMarco Mancuso.
Critico, curatore e ricercatore indipendente. Focalizza la sua ricerca sull’impatto della tecnologia e della scienza sull’arte, il design e la cultura contemporanea.
Fondatore e direttore della piattaforma Digicult, insegna presso NABA Milano e Accademia di Belle Arti di Bergamo. Cura mostre e progetti sul rapporto arte-design-tecnologia-scienza e ha collaborato con molte delle più importanti istituzioni internazionali del settore.
Tiene conferenze e collabora con lo spazio per l’arte Adiacenze di Bologna.

Il libro è strutturato in 10 capitoli, ognuno presentato da una specifica introduzione.
Elenco gli argomenti per dare la dimensione della vastità tematica dell’opera.
• Arte e Rete
• Software e Coding
• Cinema e Audiovisivi
• Suono e musica
• Performance e Teatro
• Design e Diy
• Architettura e Spazi Pubblici
• Arte e Scienza
• Attivismo e Società
• Cultura e Mercati
• Arte e Rete

Dalla presentazione editoriale.
«L’osservatorio Digicult tra arte, design e cultura digitale si basa sull’esperienza di una delle più importanti piattaforme internazionali indipendenti in rete, fondata dal critico e curatore Marco Mancuso che nel corso degli ultimi quindici anni ha monitorato l’evoluzione e l’impatto delle tecnologie e della scienza sull’arte, il design e la società contemporanea. Il volume presenta una una serie di saggi scritti da alcuni dei suoi autori più importanti e una ricchissima collezione di interviste a sessanta artisti e designer che hanno segnato la storia della New Media Art dal 2005 a oggi».

Il libro si avvale degli interventi di Sabina Barcucci, Tatiana Bazzichelli, Silvia Bertolotti, Elena Biserna, Pia Bolognesi, Loretta Borrelli, Simone Broglia, Roberta Busechian, Serena Cangiano, Ana Carvalho, Bianca Cavuti, Alessio Chierico, Lucrezia Cippitelli, Giuseppe Cordaro, Claudia D’Alonzo, Federica Fontana, Tiziana Gemin, Mathias Jansson, Maresa Lippolis, Filippo Lorenzin, Marco Mancuso, Mario Margani, Donata Marletta, Matteo Milani, Maddalena Mometti, Annamaria Monteverdi, Claudio Musso, Bertram Niessen, Pasquale Napolitano, Robin Peckham, Monica Ponzini, Domenico Quaranta, Martina Raponi, Zoe Romano, Silvia Scaravaggi, Daniela Silvestrin, Giulia Simi, Valentina Tann.

I proventi del libro saranno interamente donati per le ricerche sugli effetti clinici e sociali del Covid-19, eseguite presso il Dipartimento di eccellenza di Scienze Biomediche e Neuroscienze dell'Unimore - .Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.

Segue ora un incontro con Marco Mancuso.


Intervista con la New Media Art (2)


A Marco Mancuso (in foto) ho rivolto alcune domande.

Questo libro nasce dall’esperienza della piattaforma “Digicult” da te fondata 15 anni fa.
Da quali esigenze nacque? E perché nel suo profilo ricorre spesso la parola “orizzontale”
?

Digicult nasce nel gennaio 2005 con lo scopo di avviare un progetto editoriale che facesse da collettore e desse voce a quella generazione di autori in Italia che dalla fine degli anni Novanta si interessava al rapporto tra differenti discipline artistiche e tecnologie emergenti. L’obiettivo ambizioso era quello di allargare il loro circuito professionale a livello nazionale e internazionale, rompendo al contempo le rigide regole editoriali da stampa e sfruttando le potenzialità di Internet per crescere, sopravvivere e diffondersi. Ciò che ne ha determinato la genesi e lo sviluppo è la semplice e naturale coincidenza di un percorso e di un moltiplicarsi di interessi (culturali, professionali, artistici) personali, con quelli di una serie di critici e curatori che si affacciavano professionalmente in quel periodo alle pratiche della New Media Art. Digicult è stato pensato come un progetto orizzontale sin dalle sue origini e tale è rimasto nel corso del tempo, non solo spinto da motivazioni etiche e di antagonismo culturale, ma per sua stessa esigenza di sopravvivenza: tutti i soggetti che nel corso di quindici anni hanno gravitato dinamicamente attorno al progetto, sono stati e sono tutt’oggi rappresentativi di diverse comunità, con le quali ho condiviso e scambiato costantemente idee, progetti e produzione di contenuti.

In pratica Digicult è una Rete

Sì, con questa parola, spesso abusata, è possibile sintetizzare sia la sua struttura di “relazioni”, sia il “metodo” attraverso il quale l’osservatorio si è gradualmente inserito nei diversi contesti con cui è entrato in contatto. Questa è solo una sintesi di ciò che sta dietro il complesso sistema di comunicazione tra “interno” ed “esterno” della piattaforma: è un processo di costante osmosi da cui solitamente nascono progetti, collaborazioni e nuove idee. La varietà di background e diversi interessi degli autori e collaboratori di Digicult nel tempo, ha rappresentato fedelmente la definizione odierna di "cultura digitale": un mix di creatività e ricerca, scienza, comunicazione, coscienza politica, innovazione e storia delle arti. Digicult negli anni si è quindi contraddistinto come un progetto aperto, pronto ad accogliere questa contaminazione, facendo del confronto e dell'ibridazione le sue caratteristiche peculiari. Questa natura ibrida, non ha riguardato solo i diversi ambiti disciplinari da cui sono arrivati i vari membri del Network nel tempo, ma ha anche a che fare con i diversi contesti in cui si è trasformato il concetto stesso e la percezione condivisa di “arte contemporanea”, come un ambito produttivo e culturale ibrido e stratificato che ha oscillato dagli studi di artista ai laboratori scientifici, dai centri di ricerca tecnologica ai grandi festival istituzionali, dai contesti più underground ai grandi musei, alle gallerie indipendenti e a quelle che fanno mercato, dai workshop professionali ai corsi universitari e accademici. In ognuno di questi contesti Digicult c’era e c’è tutt’oggi, semplicemente perché ha sublimato il concetto di “rete” e di “orizzontalità” nella sua natura più intrinseca e in una modalità di esistenza.

Perché nelle pagine introduttive del libro fai un preciso riferimento a Kurt Friedrich Gðdel scrivendo che il procedere di Digicult ne avrebbe forse “suscitato la curiosità”?

Gðdel è stato uno dei più importanti logici matematici e filosofi analitici che siano mai esistiti, forse il più importante. Ho letto i suoi “Teoremi sull’Incompletezza” durante gli anni dell’università e ho sempre pensato che la parabola di Digicult, così difficile da raccontare e descrivere secondo i modelli standard della cultura contemporanea, fosse rappresentativa del suo pensiero. Secondo i due teoremi di Gðdel, se un sistema formale è auto-consistente (ha quindi una serie di “regole” interne che lo caratterizzano), non può mai essere completo. In secondo luogo, l’auto-consistenza di qualsiasi sistema formale non può essere dimostrata all’interno del sistema stesso. Digicult è stato da subito, per sua stessa natura, un sistema auto-consistente, nel senso che sin dalle sue origini ha individuato in modo spontaneo e irregolare il proprio set di regole di “funzionamento”: non è stato un progetto pensato a tavolino, non è frutto di strategie, è una creatura che si è generata spontaneamente. Al contempo, è sempre stato un sistema formale, un’entità cioè che, come affermano i matematici, ha un suo alfabeto, una sua grammatica, un insieme di assiomi e formule. Grazie a questo suo formalismo, Digicult è riconoscibile, è ben caratterizzato, anche se forse non ne se ne comprende immediatamente la portata. Ecco, per questa sue caratteristiche però, rimane un progetto incompleto

... perché incompleto?

…non perché non sia “riuscito” o per un discorso meramente qualitativo, ma perché risulta a mio avviso impossibile dimostrarne il suo valore in termini culturali ampi, osservandolo nel contesto di come è evoluta la cultura digitale negli ultimi vent’anni. In altri termini, se per Gðdel la bellezza del mondo fenomenologico che ci circonda deriva dal fatto che è impossibile individuare un set di assiomi completo e consistente per descrivere qualsiasi principio matematico che ne sta alla base, analogamente Digicult sublima la sua bellezza nella sua incapacità intrinseca di essere rappresentativo di uno sviluppo culturale “assoluto” della New Media Art. Per quello mi domando se sia un progetto che ha raggiunto il suo scopo, se sia possibile “misurarne” in qualche modo il valore. Penso quindi che Gðdel avrebbe riconosciuto e apprezzato il valore interdisciplinare della piattaforma e questa sua “incompletezza”, anche perché le sue teorie logiche si sono adattate spontaneamente alla creazione di ponti tra ambiti e discipline diverse, come dimostrato brillantemente, ad esempio, dal saggio “Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante” di Douglas Hofstadter.

Fin qui l’impalcatura di pensiero di Digicult da dove deriva sia il lavoro svolto in Rete sia la pubblicazione di “Intervista con la New Media Art”.
Adesso: qual è l’obiettivo di questo volume
?

Sai, quando pubblichi un libro di questo tipo, ha una grande responsabilità nei confronti degli autori che coinvolgi, ancor di più se hai diretto per quindici anni un progetto “collettivo” come Digicult. A dire che, quelli che sono i tuoi obiettivi personali, cerchi di far sì che coincidano con obiettivi di più ampia portata, che possano essere comuni a tanti. Impostato su una pluralità di voci e prospettive, di riflessioni, esperienze e pratiche diverse, il libro si propone di recuperare da un lato i percorsi professionali degli autori e degli artisti e designer intervistati, che in molti casi sono dei veri e propri percorsi di vita, dall’altro l'esperienza dell'osservatorio, certificandone l'importanza nei contesti della New Media Art nazionale e internazionale ed evidenziando l’unicità della sua esperienza di attivismo culturale. Diciamo che oltre a rappresentare un importante documento storico, questa pubblicazione è un utile strumento di navigazione e comprensione della pratica artistica contemporanea nel rapporto con la tecnologia e la ricerca scientifica. Il suo obiettivo è di costituire, in ultima analisi, una risorsa di informazioni che diffonda e approfondisca gli aspetti storico-critici e gli ambiti di ricerca e di produzione a cavallo tra arte, design, tecnologia e scienza negli ultimi quindici anni.

Un tempo veniva esaltato lo “specifico” di ogni linguaggio (letterario, filmico, teatrale), oggi è sempre più protagonista l’ibridazione dei linguaggi, i travasi dei segni.
Esistono precedenti esempi di questo procedere
?

In qualsiasi ambito disciplinare della creatività umana e in qualsiasi epoca, sono innumerevoli gli esempi di inter-disciplinarietà creativa, linguistica, tecnica, progettuale, culturale. Dal “Vite Aerea” di Leonardo al “Gesamtkunstwerk” di Wagner, dal “Prometeo” di Skrjabin alla “Composizione VIII” di Kandinskij, dalla serie “Synchronomy” di Mary Ellen Bute al “Licht-Raum Modulator” di Moholy Nagy, dal “Sixteen Dances for Soloist and Company of Three” di Merce Cunningham ai “Polytope” di Xenakis, dai programmi della Bauhaus fino all’esperienza del Design Institute di Ivrea. Personalmente, ho sempre avuto la percezione che, in verità, la storia sia piena di esempi in cui lo “specifico” non sia l’esaltazione di un linguaggio, quanto la sua asfissia. Sicuramente, per vari motivi socio-politici legati alla diffusione di valori capitalisti, suprematisti, colonialisti, accelerazionisti nella loro concezione più ampia, la specializzazione di saperi e conoscenza, dal dopoguerra in poi, si è imposta come la principale modalità di azione nel mondo e di interpretazione delle sue dinamiche. Unita, soprattutto nel nostro paese, a uno storico immobilismo accademico e istituzionale nella separazione dei percorsi di formazione, di produzione e di relazione con i mercati. Con conseguenze e ricadute terribili in termini culturali e relative drammatiche “chiusure” tra interi campi del sapere umano (scientifico, artistico, progettuale, tecnologico), produzioni di dualismi e contrapposizioni disciplinari che ancora oggi fanno fatica a morire.

Qual è stato il ruolo della Rete nell’ispessire contaminazioni?

La rete ha sicuramente contribuito al ritorno di un approccio inter-disciplinare, ibrido, stratificato e complesso alla contemporaneità e a quel travaso dei segni di cui parlavi, che si è alimentato negli ultimi anni grazie a processi di diffusione della conoscenza, condivisione dei saperi, creazione di nuovi immaginari e contaminazione dei linguaggi e delle esperienze. Di questa complessità Digicult si è sempre nutrito e senza la rete, come affermo sempre, non sarebbe mai esistito.

La cultura digitale quale trasformazione ha impresso all’attivismo politico?

Il racconto del rapporto tra sperimentazione artistica, sviluppo tecnologico e attivismo politico è sicuramente ben rappresentato dalla penultima sezione del libro. Ancora una volta, grande spartiacque di moltissime esperienze a livello nazionale e internazionale in questo senso, è la diffusione di Internet e delle reti, per come le conosciamo oggi. Moltissime delle esperienze a cavallo tra cultura digitale, arte multimediale e attivismo politico, con cui personalmente sono venuto in contatto negli anni della mia formazione, che erano poi quelle di quasi tutti gli autori all’interno del nucleo originale di Digicult nel 2005, si sono sviluppati in precisi contesti che solo genericamente possiamo definire “underground”. Festival indipendenti, centri sociali, hacklab, rave, hackmeeting, zone temporaneamente autonome e successivamente internet, sono stati per molti anni i luoghi (fisici e virtuali) deputati a un discorso che se da un lato era fatalmente attratto a sperimentare con le nuove tecnologie per studiarne il carattere espressivo, dall’altro sondava la grande potenzialità (nonché gli enormi rischi) di una rivoluzione tecnologica che in quegli anni si stava affacciando. In questo senso, molte esperienze a livello nazionale e internazionale sono nate, si sono organizzate e diffuse grazie alla condivisione dei saperi legati a quelle che sono state definite come “culture digitali” e “culture aperte”

Puoi fare degli esempi?

Sì, certo. Grandi “network” autonomi come Indymedia su scala globale o “Autistici” a livello più locale, importanti community tra arte e politica come “Rhizome” a livello internazionale o “AHA” a livello maggiormente italiano (e potrei farti molti altri esempi), connesse a loro volta alle correnti del “free software”, delle licenze libere, della rivoluzione “maker” (per lo meno nella sua forma iniziale) e più recentemente delle criptovalute e dei fenomeni biohacker. Il nono capitolo del libro, intitolato “Attivismo e società”, raccoglie interviste da uno degli ambiti che si e dimostrato più vivo e vitale nel corso degli ultimi quindici anni, a testimoniare un percorso di ricerca culturale e artistica mai domo, con la piena fiducia che tale rimarrà (nonostante un fisiologico riassorbimento di alcuni dei suoi soggetti principali nei grandi mercati dell’arte contemporanea e istituzionale) anche nel corso dei prossimi decenni, magari con nuove reti di valore, nuovi luoghi deputati, nuove esperienze ibride, nuove tecnologie in atto.

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A cura di Marco Mancuso
Intervista con la New Media Art
Pagine 486, Euro 32.00
Mimesis


Billie Holiday (1)

1915: in Europa infuria la prima guerra mondiale; James Joyce pubblica “Gente di Dublino”; viene stampata “Spoon River” di Edgar Lee Masters; Marcel Duchamp espone i primi ready-made; Francesca Bertini è protagonista del film “Assunta Spina”; Amedeo Modigliani dipinge uno tra i sui più noti capolavori il “Nudo disteso”; l’etnologo J. G. Frazer conclude la pubblicazione della monumentale opera “Il ramo d’oro”; Henry Ford produce i primi trattori agricoli; il 24 maggio l’Italia entra in guerra.
Quell’anno nacquero due grandi cantanti: a Filadelfia il 7 aprile Eleanora Fagan, o Elinore Harris, a Parigi il 19 dicembre Edith Piaf.
Chi è Eleanora Fagan o Elinore Harris? Ma sì che la conoscete, è Billie Holiday.
Nacque da due giovanissimi: lui Clarence Holiday suonatore di banjo, lei Sadie Fagan ballerina di fila.
Billie avrà vita travagliata: miseria, prostituzione, alcol, droga, carcere.
Morirà a 44 anni, il 7 luglio 1959, piantonata in ospedale poiché in arresto per possesso di stupefacenti.
La sua voce fu scoperta da Benny Goodman, incise con famosi interpreti: da Teddy Wilson a Count Basie a Lester Young, al quale fu legata anche sentimentalmente.
Lo storico del jazz Gunther Schuller scrive: "Possiamo, naturalmente, descrivere e analizzare solo i meccanismi di superficie della sua arte: il suo stile, la sua tecnica, i suoi attributi vocali, e immagino che un poeta possa raffigurare l'essenza della sua arte oppure una particolare visione in essa. Ma, in Billie Holiday, come in tutta la più grande arte, quell’essenza rimane alla fine misteriosa".
Miles Davis ha detto di lei: “Era una donna molto dolce, molto calda [...] aveva un aspetto da indiana con la pelle vellutata, marrone chiaro [...] Billie era una donna splendida prima che l'alcool e la droga la distruggessero. [...] Ogni volta che mi capitava di incontrarla le chiedevo di cantare I Loves you Porgy perché ogni volta che lei cantava "non lasciare che mi tocchi con le sue mani calde" potevi sentire quello che sentiva lei. Il modo in cui la cantava era magnifico e triste. Tutti quanti amavano Billie”.

Per visitare il sito dedicato alla cantante: CLIC!

Tra le più recenti opere che riguardano la sua figura: il documentario “Billie” (di cui si dice un gran bene) di James Erskine presentato nei giorni scorsi al Torino Film Festival e Billie Holiday La vita e la voce pubblicato dalla casa editrice Carocci.
Ne è autore Guido Santato.
Professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Padova e membro associato del Groupe d’Etude et de Recherche sur la Culture Italienne dell’Université Stendhal - Grenoble 3. Si è interessato prevalentemente alla letteratura del Settecento e del Novecento, dedicando particolari indagini ad Alfieri. Ha pubblicato i volumi Pier Paolo Pasolini. L’opera (1980, Premio Viareggio per la Saggistica Opera prima), Alfieri e Voltaire. Dall’imitazione alla contestazione (1988), Il giacobinismo italiano. Utopie e realtà fra Rivoluzione e Restaurazione (1990), Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani (1994), Tra mito e palinodia. Itinerari alfieriani (1999), Letteratura italiana del secondo Settecento. Protagonisti e percorsi (2003), Nuovi itinerari alfieriani (2007). Ha curato l’edizione commentata dell’Esquisse du Jugement Universel di Alfieri (2004) e la realizzazione del CD-Rom Vita di Vittorio Alfieri (2005). Ha collaborato ad opere collettive di storiografia letteraria. Ha fondato e dirige la rivista internazionale “Studi pasoliniani”.

Billie Holiday è un libro di grande qualità Per tre motivi.
Riesce a cogliere il primo elemento che caratterizza la donna e la cantante: l’intreccio fra vita e arte con la prima che domina la seconda e la seconda che interiorizza la prima.
Ha pagine serrate grazie a una scrittura che rinuncia a cosmesi sentimentali.
Mai si abbandona a romanzerie inventando scene o dialoghi (perniciosa abitudine da alcuni anni a questa parte quanto mai diffusa nelle biografie!) attenendosi a rigorose documentazioni.
Si aggiunga che il volume si avvale di apparati ben condotti: bibliografia, discografia, indice dei nomi. Indice che colpevolmente latita in molti libri di saggistica più recente.

Dalla presentazione editoriale
«Il libro offre una ricostruzione completa e accuratamente documentata della vita e dell’esperienza artistica di Billie Holiday, considerata da molti la più grande cantante jazz, proponendo insieme contributi che gettano nuova luce su una vicenda tanto straordinaria quanto drammatica. La sua vita è il fondale contro il quale risuona il suo canto. Il dramma della vita trova compiuta espressione nello spessore drammatico della voce: una voce unica per l’emozione che sapeva trasmettere, unita a uno stile impareggiabile. La Holiday aveva una straordinaria capacità di trasformare e di reinventare le canzoni secondo il suo stile swing, conferendo loro un’inconfondibile carica emotiva e facendone qualcosa di estremamente personale. Nel libro vengono analizzate in modo particolare alcune delle sue interpretazioni più celebri, quali Strange Fruit – la sua canzone più famosa, una coraggiosa denuncia dei linciaggi che avevano imperversato contro i neri nel Sud degli Stati Uniti –, Gloomy Sunday e My Man».

QUI la sua splendida interpretazione di “Summertime”.

Segue ora un incontro con Guido Santato.


Billie Holiday (2)


A Guido Santato (in foto) ho rivolto alcune domande.

Qual è stata per lei la principale motivazione che l’ha indotto a scrivere questo saggio?

Il libro è frutto della mia grande passione per Billie Holiday. La musica, sia classica sia moderna e jazz, è sempre stata uno dei miei interessi. Dopo tanti anni dedicati al lavoro letterario e agli impegni universitari la musica è tornata a coinvolgermi. Da questo ritorno è nato il libro sulla Holiday, che ho sempre considerato la più grande cantante jazz. Il libro offre una ricostruzione completa della sua vita e della sua esperienza artistica proponendo insieme contributi che gettano nuova luce su una vicenda tanto straordinaria quanto drammatica.

In molti hanno scritto che Billie Holiday “inventa” un modo di cantare il jazz.
In che cosa è particolare il jazz di Holiday
?

La sua voce rappresenta un periodo del jazz: non c’è un’altra cantante che riassuma lo spirito del jazz meglio di quanto ha fatto lei. La sua voce unica e inconfondibile ha plasmato la storia del jazz nel periodo in cui il jazz, il blues e il pop si sono mescolati. Billie è stata la prima autentica “jazz singer”: si imponeva per la sua voce intensamente drammatica, per l’emozione che sapeva trasmettere e per l’abilità nel “volare” sul tempo. Oltre a esibire una voce sublime e uno stile impareggiabile, aveva una capacità unica di esprimere emozioni forti e dolorose attraverso il canto: usava di solito il vibrato per aumentare il carico emotivo di una parola o di una frase o per conferire un impulso swing a una nota, come faceva Armstrong (il suo modello di riferimento insieme con Bessie Smith). Billie aveva uno straordinario senso dello swing. Possedeva inoltre l’arte di trasformare una canzone interpretandola secondo il proprio stile e conferendo ad essa la sua inconfondibile carica emotiva; altri cantanti avrebbero eseguito o interpretato una canzone: Billie ne “creava” una.

Può fare un esempio?

Un esempio della sua straordinaria capacità di trasformare e reinventare le canzoni per farne qualcosa di estremamente personale è offerto dalla sua interpretazione (incisa nel 1936, quando aveva ventun anni) della famosa “Summertime”, la canzone che apre l’opera “Porgy and Bess” di Gershwin. Billie trasforma la lamentosa ninna nanna offrendone un’interpretazione aggressiva e inquieta che sembra richiamarsi ai temi “jungle” di Duke Ellington ai tempi del Cotton Club, lo storico jazz club di New York. Billie porta inoltre alla massima perfezione la tecnica di improvvisazione jazzistica. Era la prima cantante che cantava come un genio improvvisatore del jazz. Era la quintessenza della cantante jazz per la sua concezione libera del ritmo e per la sua capacità di “curvare” le note: come tutti i grandi musicisti jazz, era innanzitutto un’improvvisatrice e secondariamente un’interprete. Negli ultimi anni ha sviluppato uno stile recitativo assolutamente personale: a volte dà l’impressione di cantare e di parlare nello stesso tempo, permettendo di ascoltare la melodia del parlato contemporaneamente alla melodia della canzone.

C’è stata un’influenza di Holiday sulla canzone popolare negli Stati Uniti dagli anni ’60 in poi? Se sì, dove ne vede le tracce?

La sua influenza sulla canzone pop dagli anni Sessanta in poi è stata notevole. Hanno riproposto le sue canzoni cantanti come Carmen McRae, Nina Simone, Diana Ross, Etta James, Tony Bennett, Dinah Washington, Abbey Lincoln, Dee Dee Bridgewater, Bettye LaVette. Frank Sinatra è stato un grande ammiratore di Billie, che citava sempre come suo modello assoluto in fatto di genio interpretativo. È stata notevole inoltre l’influenza della canzone più famosa di Billie, “Strange Fruit”, sulle canzoni di protesta successive e in generale sulle canzoni di impegno civile. “Strange Fruit” è stata la prima grande canzone di protesta del Novecento. Sfidando le discriminazioni razziali, nel 1939 Billie incide con grande coraggio questa canzone il cui testo fa esplicito riferimento al corpo di un nero ucciso dai bianchi e appeso a un albero. È un brano di forte denuncia dei linciaggi che avevano imperversato contro i neri nel Sud degli Stati Uniti.

Nonostante il successo di pubblico e nomination all’Oscar del biopic “La signora del blues”, l’interpretazione di Diana Ross sia da attrice sia da cantante nel film di Sidney Furie non ha convinto tutti i critici, ricevendo perfino delle stroncature.
Gradirei conoscere il suo giudizio

Sebbene abbia lo stesso titolo, il film non ha praticamente nessuna somiglianza con la tempestosa e drammatica autobiografia di Billie, “Lady Sings the Blues” (scritta nel 1956 insieme con il giornalista William Dufty). È una sdolcinatura hollywoodiana, una goffa parata di luoghi comuni e di stereotipi, un polpettone costruito sull’autobiografia di Billie. Diana Ross è brava, si impegna molto nell’interpretazione del personaggio ma è troppo bella e gioiosa per essere Billie, che dava il meglio di sé nelle canzoni tristi. Il film ottenne un grande successo negli Stati Uniti guadagnandosi ben cinque nomination agli Academy Awards. La Ross conquistò due nomination, una come migliore attrice protagonista e l’altra per la miglior colonna sonora, senza tuttavia vincere i premi.

………………………….

Guido Santato
Billie Holiday
Pagine 174, Euro19.00
Carocci Editore


Tattilismo (1)


Ammettiamolo ci vuole del coraggio a far nascere una casa editrice in un momento come l’attuale, un coraggio che merita ampiamente tutta l’assistenza della Dea Fortuna e tutta l’attenzione dei lettori.
Oggi, 3 dicembre, difatti, a Milano una nuova sigla si affaccia sul mondo dell'editoria.
Si tratta di FVE, tre lettere che sono le iniziali di tre parole manifesto della neonata editrice: Formare Valorizzare Essere.

Autrice, giornalista e anima visionaria di FVE editori è Valentina Ferri che così presenta il progetto editoriale: Il silenzio del lockdown di questi mesi mi ha permesso di ascoltarmi e di mettere a fuoco un’idea d’impresa che ho ereditato dai miei nonni, due persone ritenuti anticipatori delle forme di comunicazione d’oggi. Si pensi allo slogan ‘Omsa che Gambe!’ e ai fumetti a colori de ‘La Vispa Teresa’. Due protagonisti della vita imprenditoriale e culturale del nostro Paese a partire dall’immediato dopoguerra e negli anni del boom economico: Giorgio e Lia Pierotti Cei.
Credo che i libri debbano dare a chi li legge la sensazione di essere una seconda pelle, come calze eleganti, o come un abito che a indossarlo ci si vede sotto una nuova luce che aiuti a capire e capirci.
Ecco, noi oggi invitiamo a indossare i nostri libri - Wear Your Book - perfetti e aderenti a ciascuna/o di noi
.

In foto il logo

Distribuita da Direct Book, sede a Milano nella centralissima via Chiossetto, FVE vede al lavoro gli editori Valentina Ferri ed Enrico Venni, l’ufficio stampa affidato ad Anna Maria Riva, e un folto gruppo di under 30 cui spetta la comunicazione grafica, dalle copertine alle immagini sui social, con una particolare attenzione a Instagram.

FVE debutta con tre titoli: “Tattilismo” del fondatore del Futurismo F. T. Marinetti; la raccolta di novelle “Le solitarie” di Ada Negri; “I tips di Codelia” della direttrice di riviste di moda e società tra fine ‘800 e primi ‘900 Virginia Tedeschi Treves

Nella parte che ora segue mii soffermerò su “Tattilismo” di Marinetti.


Tattilismo (2)

Il Futurismo ha influenzato tutte le aree espressive: dalla letteratura al teatro, dalla pittura alla danza, dalla musica alla poesia, dalla grafica alla fotografia fino alla nascente radio e cinematografia. Anche se alcune sue articolazioni (si pensi ad esempio ai dettati gastronomici) possono, e sono, eccessive, al limite della burla, riflettono in realtà la volontà di rovesciare la rassegnata spossatezza della società d’inizio secolo, un comportamento esistente nella vita pubblica, privata e artistica. Non mancavano, però, movimenti sotterranei di ribellione, il Futurismo li intuì, prese la parola per primo indirizzando il pensiero secondo i propri principii tanto trasgressivi, espressi con tanta forza da trascinare anche coloro che nuotavano lontani da quella impetuosa corrente.
“Uccidiamo il chiaro di luna” era il motto dei giovani artisti futuristi contro l'immobilità classicista.
Ecco in questo breve video un ritratto di quegli anni fatto da Luce (ultima figlia di F.T. Marinetti, morta nel 2009), Achille Bonito Oliva e lo stesso fondatore del movimento qui in una performance sonora)

Il primo Manifesto futurista è del 20 febbraio 1909, ne seguiranno molti altri.
Undici anni dopo quel primo urlo, si ha un curioso, nuovo, manifesto cui la FVE ha dedicato una delle tre pubblicazioni con cui, come scrivevo prima, ha affidato il suo debutto sulla scena editoriale: Tattilismo e lo splendore geometrico e meccanico.
Un testo che sembra una sorta di profezia, in un tempo, come questo che stiamo attraversando in cui il toccarsi ci è proibito.
Il libro si avvale di una brillante prefazione di Valentina Ferri, eccone qualche passaggio.
“Quando Filippo Tommaso Marinetti presenta ufficialmente al pubblico del Théâtre de l’Oeuvre di Parigi il manifesto del Tattilismo è il 14 gennaio 1921. La Grande Guerra ha rivelato un’umanità non dissimile da quella di oggi. La gente non sa più accostarsi alla vita, è spaventata, dissociata. Come ritrovare il contatto con il mondo senza averne paura, senza temerlo o divorarlo? Abbiamo imparato a diffidare, a indossare maschere, a proteggerci, a evitare il nemico. Ma ora, suggerisce Marinetti, bisogna lentamente riprendere a sentire e a rieducare il corpo all’ esperienza della novità. Il “senso”- significato è tutto nel toccare, ora, nel percepire attraverso la pelle che è stata offesa, negata, nascosta. La novità futurista è mostrare la via verso una mutata, o ritrovata, sensibilità percettiva: ed ecco, le tavole tattili, o il Tattilismo (…) A un secolo dalla comparsa il Tattilismo marinettiano, con il suo prepotente messaggio di un ritorno alla scoperta del senso tattile e della vita dopo il buio di ogni guerra- individuale o collettiva si propone ancora come una possibile risposta riparatrice. Forse, come lo stesso Marinetti scriveva, il Tattilismo è la visionaria possibilità di armonie tattili: oggi pare giungere valicando il tempo come suggerimento e aiuto per permettere “le comunicazioni spirituali fra gli esseri umani attraverso l’epidermide”
.

Concludo queste mie righe con altre tratte dal saggio “Toccare” di Federico Capitoni. Pur non riferendosi al Tattilismo marinettiano, mi torna opportuna la citazione per rafforzare il valore e l’attualità di questa pubblicazione EFV: «Il senso del tatto ha, nella filosofia, un ruolo piuttosto marginale. Così come il corpo, cui i filosofi hanno generalmente riservato scarsa considerazione speculativa. Invece il corpo è il formidabile dispositivo di riconoscimento che si serve primariamente del tatto per entrare in relazione con il mondo e a partire dal quale tutto il conoscere, e quindi il vivere, ha inizio».

…………………………………………………………

Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio Stampa: Agenzia Anna Maria Riva
Via Lombardi 16 - 40128 - Bologna
Via Dante 35/c - 20097 - San Donato Milanese (Mi)
riva@annamariariva.eu – 329 . 09 74 433
…………………………………………………………

F. T. Marinetti
Tattilismo
Prefazione di Valentina Ferri
Con tavole inedite in stile futurista
Pagine 60, Euro 13.00
FVE Editori


Save the Book (1)


Negli ambienti artistici e in particolare nel mondo della fotografia la figura di Gian Butturini (in foto), nato a Brescia nel 1935, è nota sia in Italia sia all’estero.
Quanto gli è incredibilmente accaduto dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 2006, è meno noto perché non ha avuto ad eccezione del web e della stampa specializzata il rilievo che meritava sui media, Radio, tv, quotidiani e periodici vi hanno dedicato piccoli spazi, roba da sfuggire all’occhio. Eppure, non è un caso che riguarda solo la fotografia e non soltanto un dibattito di natura estetica e politica, ma qualcosa di più come sto per scrivere.
Per fortuna della verità, Marta e Tiziano Butturini, figli di Gian, hanno messo su un’Associazione con sito in Rete che contiene una vastissima documentazione non solo scritta ma anche audiovisiva su quanto è accaduto.

Circa un anno fa la giovane studentessa britannica di colore Mercedes Baptiste Halliday si è scagliata via Twitter contro l’accostamento di due fotografie tratte dal libro “London by Gian Butturini” facendole finire nel tritacarne della Cancel Culture: da una parte l’immagine di una donna di colore che vende i biglietti della metropolitana, dall’altra quella di un gorilla in gabbia.
L’anatema della ventenne Mercedes (che sia ventenne non è un aggravante né un’attenuante) crea un tale clamore sui social e media britannici che in poco tempo travolge anche Martin Parr, celebre maestro della fotografia contemporanea, che dopo aver scoperto l’edizione del 1969 di “London” e averlo definito un “gioiello trascurato” da riportare all’attenzione del grande pubblico, ne aveva sollecitato la ristampa che avvenne presso Damiani editore, 2017, reprint del volume “London” del 1969.
Parr, purtroppo, reagisce allo scandalo incredibilmente ammettendo una presunta connotazione razzista delle due foto. Si scusa pubblicamente, si dimette dalla direzione artistica del Bristol Photo Festival e addirittura chiede la messa al macero del volume.
Nessuno tra i media e i critici fotografici britannici verifica che l’accusa di razzismo lanciata a Gian Butturini è palesemente infondata. Sarebbe bastato leggere le parole dell’autore stesso nell’introduzione del libro per spegnere subito la polemica e la campagna diffamatoria: "Ho fotografato una donna nera, chiusa in una gabbia trasparente; vendeva
biglietti per la metropolitana: una prigioniera indifferente, un'isola immobile, fuori dal tempo nel mezzo delle onde dell'umanità che le scorreva accanto e si mescolava e si separava attorno alla sua prigione di ghiaccio e solitudine”.
Senza dire poi del noto impegno politico di Butturini fin dagli anni della controcultura e della beat generation, sempre schierato contro ogni forma di discriminazione e di violenza per raccontare e difendere i più deboli e svantaggiati.

La prospettiva che il libro vada al macero sconcerta Marta e Tiziano Butturini, iniziano una battaglia per ristabilire la verità.
Prossimo momento di quella lotta è la mostra Save the Book London by Gian Butturini.
Qui entra in scena una maiuscola figura di studiosa che sarà la curatrice di quella mostra: Gigliola Foschi già intervenuta su questo sito in occasione della pubblicazione del suo libro Le fotografie del silenzio .

Segue ora una seconda parte con un estratto di quanto scrive Gigliola Foschi.


Save the Book (2)

Così scrive Gigliola Foschi.

«È stato recentemente accusato di “razzismo conclamato” e per di più hanno ritirato dalle librerie il suo libro fotografico “London”. Eppure, l’autore, ovvero Gian Butturini, è stato uno dei grandi protagonisti italiani della fotografia “contro”: contro le ingiustizie, contro le diseguaglianze sociali, contro il razzismo, contro le guerre, contro le morti bianche sul lavoro, contro i manicomi a fianco di Basaglia, contro l’occupazione delle terre del popolo Saharawi.
“London” di Butturini è un libro rivoluzionario nei contenuti perché racconta la Londra di fine anni Sessanta da una prospettiva nuova e non patinata. È un diario di immagini spontanee e autentiche, vive e graffianti, di giornate vissute intensamente girando per la città tra giovani della Swinging London, ragazze in minigonna, drop-out che si fanno di eroina, immigrati, neri, emarginati, abitanti della City che paiono esistere in un mondo a parte dove tutto è ‘per bene’. Butturini crea immagini dirette, sgranate, ombrose o troppo schiarite, ma anche ritagliate, manipolate, accostate a elementi grafici, a frammenti di testi fra cui un brano della poesia “Europe! Europe!” di Allen Ginsberg, cantico contro la disumanizzazione della vita nelle grandi metropoli come Londra o Parigi (…)
L’editore Damiani, per fortuna, ha accettato di lasciare all’Associazione Butturini le copie ritirate dal commercio, Associazione che ora ha lanciato la campagna “Save the book” per salvare il libro di Gian Butturini dal fuoco mediatico e restituirgli dignità e valore.
La mostra che ora proponiamo e la relativa vendita del libro, è parte integrante di questa campagna. Una mostra dove, accanto ai dittici che ripropongono l’impostazione spiazzante creata da Butturini per le sequenze del libro, sono esposte anche alcune sue opere dei primi anni Settanta, create con interventi grafici e scritte oppositive e graffianti inserite su noti fumetti dell’epoca. Si tratta di opere visivamente vicine a quelle operazioni di détournement che venivano realizzate, nello stesso periodo, da autori vicini al movimento situazionista e a Fluxus
London di Butturini è un libro rivoluzionario nei contenuti, è eversivo nel montaggio e negli accostamenti polemici, ironici o spiazzanti, in linea con l’arte più all’avanguardia degli anni della controcultura: doppie pagine con immagini tagliate al vivo, accostate l’una all’altra senza interruzioni, con pagine adiacenti in contrasto tra loro che si susseguono a un ritmo jazz fatto di colpi, contraccolpi, sbalzi e salti. Nessun racconto lineare: la sua parola d’ordine è “infrangere le regole” per colpire lo spettatore nel cervello e nel cuore. Così accosta il volto inquieto di un hippy a quello serioso di un finanziere della City con bombetta in perfetto english style; quello di un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti a quello di un ragazzino perbene dotato di spilletta con svastica; un homeless che avanza su fondo bianco emerge potente accanto alla fotografia di una signora con cappellino fru-fru che stringe tra le mani una lussuosa “Collectors Guide”;
Poi osserva con pietas ed empatia una nera umiliata e spenta che, chiusa in una sorta di gabbia trasparente, vende i biglietti per la metropolitana, e la pone di fianco a un gorilla che dietro le sbarre di uno zoo “riceve con dignità imperiale sul muso aggrottato le facezie e le scorze lanciategli dai suoi nipoti in cravatta” – come scrive lo stesso Butturini nel suo libro. Promossa dall’Associazione Butturini questa mostra vuole quindi essere un’operazione di conoscenza, di trasparenza e riparazione nei confronti di un autore trasgressivo e di un’opera innovativa – “un gioiello” come l’aveva giustamente definita Marin Parr, prima del suo “ravvedimento”. London – sottolineiamo – non è solo un libro fotografico di grande valore artistico: è anche un gesto politico, un dito puntato dentro le contraddizioni e le ingiustizie della Londra di quegli anni, ma anche del nostro mondo attuale. La mostra e la riproposizione del libro intendono quindi aprire quel dibattito che non si è potuto, o meglio voluto tenere»

…………………………………………………………………

Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web:
Ufficio Stampa Associazione Gian Butturini
De Angelis Press, Milano
Tel. 02 – 45 49 51 91 | info@deangelispress.com

……………………………………………….…………….……

Save the Book
A cura di Gigliola Foschi
Spazio d’Arte Scoglio di Quarto
Via Scoglio di Quarto 4, Milano
Ingresso libero dalle 17.00 alle 19.00 con obbligo di prenotazione
inviando una mail a info@galleriascogliodiquarto.com
10-23 dicembre 2020


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