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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

La medicina che non c'è (1)


Giustamente si ride quando il settecentesco scrittore tedesco Rudolph Raspe narra delle imprese del Barone di Münchausen, creatura che afferma d’essere riemerso da una palude tirandosi per i capelli, d’aver attraversato i cieli cavalcando una palla di cannone e di altre sue mirabolanti avventure.
Non si ride, anzi si fanno perfino guerre in nome di donne che hanno partorito pur essendo vergini, personaggi che sono resuscitati dopo essere stati seppelliti e via favoleggiando.
Tanti che credono in quei bizzarri fenomeni sono gli stessi che diffidano di misure terapeutiche pur essendosi dimostrate efficaci a combattere alcuni mali. E oggi dinanzi ai mali di ieri, e dell’altro ieri, sono stati raggiunti risultati che erano impensabili persino alla fine del secolo scorso.
Succede, però, che i nostri giorni siano attraversati contemporaneamente da chi diffida delle nuove scoperte scientifiche in campo medico e da quelli che aspettano risultati che - almeno al momento - la medicina non può ancora dare.

La casa editrice Dedalo ha pubblicato un libro, piccolo per dimensioni, grande per efficacia comunicativa, che su questi temi acutamente (e scorrevolmente) ragiona intitolato La medicina che non c’è.
Ne è autore Ottavio Davini.
Medico radiologo, primario e per cinque anni direttore sanitario alle Molinette di Torino. .
Tra le sue pubblicazioni scientifiche: “Il prezzo della salute” (Nutrimenti, 2013); “Nella bolla del virus” (Neos, 2020).

Dall’Introduzione al volume.

«La pandemia da SARS-CoV-2 ha fatto esplodere le contraddizioni di quella visione schizofrenica con cui osserviamo da anni la medicina, sgretolando in molti l’idea (sbagliata) che sia sempre possibile risolvere magicamente ogni nostro problema di salute, e per converso alimentando in altri l’idea (ancora più sbagliata e pericolosa) che la scienza sia inutile per fronteggiare le sfide future; o, peggio, sia alleata di oscuri poteri che minacciano l’umanità.
Tra i cittadini le domande si moltiplicano. Perché non capisco quello che sta succedendo? Come mai ci sono tante idee diverse? Perché non riusciamo a risolvere questo problema? Vorrei proporre alcune risposte, in particolare per coloro che, sconcertati dalla pandemia, aspirino a comprendere meglio cosa siano oggi scienza, medicina e salute, cosa le leghi tra loro e quanto dipendano dalla società nel suo complesso. E, perché no, anche per capire dove stiamo andando.
Siamo immersi nel nostro presente e fatichiamo a inserire in una prospettiva storica quel che accade nella società; stentiamo così a realizzare quanto sia migliorata la nostra salute nell’ultimo secolo, consentendoci di raddoppiare l’aspettativa di vita; larga parte del merito è della medicina moderna, che ci ha portato – naturalmente facendoci pagare qualche prezzo – ai limiti della nostra natura biologica.
Credo sia venuto il momento di governare con equilibrio queste conquiste e quelle che verranno, separando con cura la realtà dall’illusione, imparando a convivere con le incertezze e coltivando il dubbio, ma non il pregiudizio.
Non dobbiamo, in poche parole, cercare una medicina che non c’è.
Mi concentrerò pertanto su quelli che io ritengo siano gli ostacoli più seri allo sviluppo di un dibattito informato su presente e futuro della medicina, tale da garantire che le nostre scelte si fondino su ciò che realisticamente possiamo chiedere alla scienza. E vorrei dimostrare quanto terribilmente peggio sarebbe ignorarla, rincorrendo paure ataviche o disparate teorie del complotto: siamo saliti molto in alto e cadere sarebbe catastrofico.
Ogni tanto dovrò estendere lo sguardo alla società e alla nostra capacità di interpretarne i fenomeni, perché medicina e società, come scrisse il grande bioeticista Daniel Callahan, vanno nella stessa direzione».
.
Segue ora un incontro con Ottavio Davini.


La medicina che non c'è (2)

A Ottavio Davini (in foto) ho rivolto alcune domande.

Com’è nata l’idea del libro? Quale la principale motivazione?

Qualche anno fa pubblicai quel libro che hai prima ricordato sulla sostenibilità del Servizio Sanitario

Già, “Il prezzo della salute” edito da Nutrimenti

…e da allora ho continuato a raccogliere materiale e riflessioni, perché il mondo cambia rapidamente, e con lui i problemi. Ma con la pandemia alcuni temi mi sono apparsi prevalere sugli altri, primi tra tutti la difficoltà a comprendere l’incertezza propria del percorso scientifico e il conflitto tra complessità del mondo globalizzato e debolezza dei nostri strumenti per interpretarla. Con l’Editore Dedalo abbiamo allora deciso di uscire con un testo leggero, immediato e – spero – comprensibile anche ai non addetti ai lavori. L’obiettivo è quello di creare un canale di comunicazione, di fornire elementi per una riflessione, e, perché no, di aprire un dibattito su questioni che io credo condizioneranno pesantemente il nostro immediato futuro.

Come spieghi che questi nostri anni ricchi di tante acquisizioni scientifiche, tanto massicciamente veicolate attraverso plurali tecnologie di trasmissione, sono segnati da una fitta presenza di gente che crede – si pensi dai terrapiattisti a QAnon – in cose irragionevoli?

La formidabile disponibilità di informazioni di cui oggi disponiamo è un’arma a doppio taglio, che da una parte rende disponibile a tutti la conoscenza, almeno potenzialmente, ma dall’altra genera quello che è noto come “sovraccarico cognitivo”: un eccesso di informazioni non filtrate – e per le quali abbiamo scarsi strumenti di scrematura – crea disorientamento e facilita la nascita di teorie bizzarre, che si alimentano all’interno della loro bolla, attraverso molteplici meccanismi di rinforzo ben descritti dalla psicologia cognitiva. Qualcuno ha osservato che ci sono più informazioni sul supplemento domenicale del New York Times di quelle che un individuo del XVII secolo doveva elaborare nel corso di tutta la sua esistenza. Questo squilibrio – presente in molti ambiti della nostra relazione con la complessità del mondo globalizzato – è aggravato della inadeguatezza “evolutiva” del nostro cervello a elaborare e interpretare una tale mole di informazioni. La nostra mente è frutto di milioni di anni di evoluzione ed è la stessa dei cacciatori-raccoglitori del paleolitico (poco più di 10.000 anni fa), eccezionale per reagire a pericoli immediati o interpretare l’ecosistema locale, ma del tutto inadeguata a fronteggiare sfide globali e dinamiche fortemente interconnesse.

Quale il maggiore difetto nell’insegnamento delle materie scientifiche nelle nostre scuole?

Non ho le competenze per una risposta puntuale, ma solo un’impressione che deriva dal modo con il quale i temi scientifici vengono in generale affrontati: credo che le materie scientifiche vengano considerate in modo troppo “verticale”, avulse dal contesto, in omaggio a una separazione storica – particolarmente evidente nel nostro Paese – dal mondo umanistico. Credo si debbano invece considerare almeno due cose: prima di tutto conoscere la struttura dell’atomo o il funzionamento del cuore non sono dati nozionistici fini a loro stessi, ma ci consentono di capire come funziona il mondo nella sua interezza, e lavorare per migliorarlo; poi scienza e filosofia non vivono in universi paralleli, ma si contaminano reciprocamente da sempre, e vanno maneggiate in sincrono; su questo, nonostante gli sforzi di filosofi come Geymonat o scienziati come Einstein, c’è molto da fare, probabilmente anche sui banchi di scuola. Se poi devo rifarmi all’esperienza recente della pandemia è emerso un grave deficit di cultura scientifica (ben documentato anche dalle indagini sull’argomento) e uno ancora più grave sulla comprensione del “metodo” scientifico. Credo sia fondamentale impegnarsi per recuperare questo gap.

Un intero capitolo del tuo libro è dedicato alla “sovradiagnosi”.
Che cos’è? Quali rischi comporta
?

È un problema serio, del quale lentamente il mondo medico sta acquisendo consapevolezza. Qualche anno fa tre autorevoli accademici pubblicarono sul New York Times un articolo intitolato: “Ciò che ci rende malati è una epidemia di diagnosi”. Nell’articolo sottolineavano che le cause di questa epidemia risiedevano nella medicalizzazione di ogni giorno della nostra vita e nella tendenza ad anticipare la diagnosi. La maggior parte di noi ha sensazioni fisiche o emotive che non gradisce e, in passato, ciò era considerato parte della vita. Sempre di più tali sensazioni sono ora considerate sintomi di una malattia. Inoltre, un tempo si diagnosticavano le malattie reali, oggi si fanno diagnosi in pazienti che non hanno sintomi, i soggetti cosiddetti ‘a rischio’ o con quadri ‘preclinici’. Questo accade da una parte per il potenziamento delle tecnologie diagnostiche, che consentono diagnosi in chiunque: artriti in soggetti senza dolori articolari, lesioni gastriche in chi non ha mal di stomaco o tumori alla prostata in milioni di uomini che, se non fosse per i test cui sono sottoposti, vivrebbero a lungo senza mai sviluppare un cancro; sull’altro versante esiste la tendenza a espandere i confini delle malattie: le soglie per diagnosticare il diabete, l’ipertensione, l’osteoporosi e l’obesità si sono vistosamente ridotte negli ultimi anni. Il criterio di colesterolo normale è crollato più volte. Con questi cambiamenti una malattia può essere diagnosticata in più di metà della popolazione. E tutto questo porta a una epidemia di trattamenti, e non tutti i trattamenti producono importanti benefici, ma quasi tutti possono avere effetti collaterali.

È da mettere allora in discussione la prevenzione? Oppure: qual è il metodo che impedisca di cadere nell’eccesso opposto, cioè dell’intervenire tardivamente?

La prevenzione è fondamentale e, come spiego nel libro, andrebbe sostenuta e finanziata molto più di quanto non accada ora. Ma deve essere una prevenzione “Evidence based”, ovvero basata su prove scientifiche che ne attestino la validità e l’efficacia. Gli stili di vita, per esempio, come il fatto di non fumare, di fare attività fisica con regolarità, di alimentarsi correttamente, condizionano profondamente la durata e la qualità della vita. E nell’ambito della prevenzione secondaria (intercettare una malattia prima che sia troppo tardi) gli screening “validati” (per i tumori della mammella, dell’utero, del colon) riducono in modo importante la mortalità per quelle malattie. Quello che può essere pericoloso è ricorrere a dei generici “check-up” o fare esami senza una vera indicazione clinica: lo strapotere tecnologico di cui disponiamo rischia sempre più spesso di far emergere anomalie che non si sarebbero mai manifestate ma che, una volta scoperte, rischiano di rovinarci la vita.

Immagina di avere ora davanti a te dei no vax. Che cosa (vincendo la tentazione di pronunciare espressioni intuibili) diresti loro?

L’universo dei no vax è eterogeneo. Con chi professa posizioni integraliste, profondamente intrise di complottismo e alimentate dalle peggiori fake-news, temo non ci siano attualmente possibilità di dialogo. Ma in molti il “primum movens” è la paura, amplificata dall’armamentario antiscientifico che circola nei social, complice anche la grande difficoltà dei più ad afferrare i concetti di base e il metodo scientifico. Con gli spaventati, gli indecisi, i plagiati è fondamentale mantenere aperto il canale di comunicazione. Anche se la tentazione spesso è forte, è inutile e soprattutto controproducente aggredirli con la stessa violenza verbale che utilizzano loro (e su questo tutti quelli che se ne occupano da anni sono d’accordo). Lo so che spesso sembrerà di giocare a scacchi con un piccione (il piccione farà cadere tutti i pezzi, cagherà sulla scacchiera e poi se ne andrà camminando impettito come se avesse vinto lui), ma resto convinto del mio approccio dialogante: pacatezza, tenacia, esempi concreti, pochi dati essenziali (i numeri non “bucano” la loro bolla). Considerare sempre che il determinante principale (soprattutto negli indecisi) è la paura, condita da un filo di egoismo. Dobbiamo aiutarli a rimuoverla. Serve a poco appellarsi al senso civico o all’interesse collettivo: la loro è una paura “individuale”. Un buon argomento? O ci si vaccina o, prima o poi, ci si ammala, perché questo virus non ce lo leveremo dalle scatole tanto presto. E ammalarsi, qualunque età si abbia, è enormemente più pericoloso che vaccinarsi.

Quali ragioni - come è scritto nel tuo profilo biografico stampato da Dedalo - ti fanno giudicare il Servizio Sanitario Nazionale una delle conquiste della Repubblica?

Confesso un conflitto di interessi: ho lavorato per quarant’anni nel SSN, con passione ed entusiasmo, e ci ho sempre creduto. Molto si può fare per migliorarlo (si potrebbe cominciare con il rifinanziarlo in modo adeguato ai crescenti bisogni di salute della popolazione), ma negli ultimi decenni ci ha garantito formidabili risultati in termini di durata e qualità della vita; tutte le classifiche internazionali lo collocano (soprattutto in relazione al suo scarso finanziamento) ai primi posti al mondo. E penso che sia fondamentale lavorare per conservarlo e migliorarlo, evitando di cedere alle tentazioni striscianti di privatizzazione; il modello degli USA è sotto gli occhi di tutti: a fronte di una spesa in rapporto al PIL che è il doppio della nostra i risultati in termini di salute sono nettamente peggiori. Un SSN solido e saldamente nelle mani del pubblico è un pilastro imprescindibile del welfare, forse l’ultimo rimasto in grado di assorbire le crescenti diseguaglianze sociali; in sintesi, un buon SSN è una delle ultime linee difensive della stessa democrazia.

……...……………………

Ottavio Davini
La medicina che non c’è
Pagine 96, Euro11.50
Edizioni Dedalo


Franceschetta 58


Come sanno gli amici che generosamente leggono queste pagine, nei miei viaggi per girare documentari o scrivere per la carta stampata, mi piace segnalare locali che si distinguono quanto a virtù di cucina e di bevute alcoliche.
A volte si tratta di alta gastronomia, a volte di degnissime osterie perché non li giudico poli opposti bensì due modi d’interpretare il gusto, la storia locale, la fantasia dei cuochi.
Giorni fa, a Modena, sono stato alla Franceschetta 58, il bistrot della famosissima Francescana che ha ottenuta la quarta stella Michelin oltre alle tre riconfermate, inoltre allo chef pluristellato Massimo Bottura va anche la Stella Verde, quella della Sostenibilità.
Quando parlo della Francescana, il mio pensiero va anche al grande maître Giuseppe Palmieri che ne dirige la sala in modo maiuscolo.
Massimo Bottura, è una vecchia conoscenza di questo sito che lo intervistò, prevedendone la gloria cui era destinato, nell’aprile del lontano 2003.
Di quell’incontro eccone qui la cronaca.
E, sempre su queste pagine, c'è un video che lo vede in azione

Alla “Franceschetta 58” troverete sia la possibilità di una consumazione veloce (ma non trafelata) sia la smentita che piatti rapidi siano segno di frettolose preparazioni o, peggio, sommario gusto.
Inoltre, se avete più tempo a disposizione per trattenervi a tavola, potete scegliere fra due menu degustazione.
Sia nel primo sia nel secondo caso, i piatti sono accompagnati da un’eccellente carta dei vini.
La squadra in campo, guidata dal mister Massimo Bottura è ben affiatata.
Francesco Vincenzi detto “Chef” (proclamato nel 2019 miglior chef under 30 da Identità Golose) sta in porta ed è capace di sapienti rilanci in sala che permettono ficcanti azioni; Marco Ronca, è un centrocampista che ben collega cucina e sala; Giulia Venturelli e Laura Zito ali tornanti che si fanno notare per le loro sgroppate che danno preziosa vivacità a tutto campo; a Marcello Righi, detto “Sommellier”, è affidato il compito di rifinitore che finalizza magnificamente il gioco di tutta la squadra.
Andateci e mi ringrazierete.


……………………………….

Franceschetta 58
Via Vignolese 58, Modena
Tel: 059 – 309 10 08 per prenotazioni
12:30 – 15:30 (ultima seduta ore 14:00)
20:00 – 24:00 (ultima seduta ore 21:30)
Catering & Eventi: info@franceschetta58.it
Chiusa la domenica


Piedi per aria


Succedeoggi – Libri (per saperne di più su quest’editrice:CLIC) ha pubblicato Piedi per aria Storie di campioni dimenticati e maledetti
Ne è autore un famoso giornalista: Gianni Cerasuolo.
QUI alcuni suoi articoli. Per leggerne altri: Riclic.

Maurizio Crosetti nella prefazione; “Ci sono uomini che sembrano romanzi, lo sport ne ha raccontati tanti ma di più ne ha dimenticati. Vite incenerite dal lampo di una fiamma, oppure consumate nella lentezza del declino”.

Dalla presentazione editoriale
«Il libro di Gianni Cerasuolo, è una galleria di campioni che hanno attraversato il mondo dello sport come una fiammata improvvisa nella quale il gesto atletico si mescola alla vita e alla storia. Gianni Cerasuolo, giornalista, per anni responsabile delle pagine sportive di Repubblica, va a ripescare nella memoria popolare le gesta di eroi irregolari e dimenticati: calciatori (Garrincha, Andrade, ma anche Best, Di Bartolomei e tanti altri) piloti (Senna), pugili (il sinti Rukeli), ciclisti (da Dancelli a Poulidor), corridori e lanciatori (Gelsomini e Consolini). Una galleria di uomini che hanno attraversato il mondo in piedi per aria».

A Gianni Cerasuolo ho rivolto alcune domande.

Tra le motivazioni che hanno fatto nascere “Piedi per aria”, ne esiste una più forte di altre? Se sì, quale?

“Piedi per aria” nasce per una iniziativa editoriale di “Succedeoggi”, web magazine diretto da Nicola Fano. Il quale da tempo mi chiedeva di raccogliere in una pubblicazione una piccola parte degli articoli da me scritti nel corso degli anni per la rivista online.
Le mie sono storie di grandi e piccoli personaggi dello sport. Non ci sono nel libro soltanto grandi atleti e memorabili imprese agonistiche. Io parlo soprattutto di protagonisti in negativo, eroi maledetti, autori di grandi gesti sportivi ma a volte vittime di alcol e droga, uomini fragili: Garrincha, Best, Andrade. Oppure gente che si è ribellata a soprusi, dittature, a torti subiti: Sindelar, Mekhloufi, Rukeli. Non si tratta di persone inquadrabili politicamente ma il significato dei loro gesti è stato netto: rottura con il potere dominante. È quello che hanno fatto, ad esempio, personaggi “minori” tipo il velocista Gelsomini con il fascismo e Miguel Sanchez con la dittatura argentina.
Ecco, il filo conduttore del mio libro, dei miei pezzi, è il racconto di vite particolari, di imprese non solo sportive. Lo sport in fondo è una sorta di romanzo popolare.

Perché su tanti atleti, pur protagonisti sia di grandi imprese sportive e sia di clamorose vicende private, è sceso l’oblio?

Non abbiamo memoria. Non conosciamo più la nostra storia. Il mio è un giudizio netto, “tranchant”. E certo non solo per la storia dello sport. Clamoroso, ad esempio, l’oblio che circonda figure come Adolfo Consolini, uno dei più grandi atleti del nostro paese. Un po’ perché viviamo al tempo del “fast food”, tutto si consuma velocemente, tutto scorre rapido come in un “selfie”, un rapido autoscatto e via. Un po’ perché disprezziamo lo sport, e il calcio in particolare, dall’alto delle nostre culture. Pensiamo che gli stadi siano catini affollati soltanto di ignorantoni rozzi pronti solo ad insultarsi e a fare a botte. Sta di fatto che di calcio e di sport si sono occupati fior fiore di scrittori e di personaggi, come dire, insospettabili: vogliamo parlare di Pasolini, di Buzzati, di Calvino? Di Galeano e degli altri scrittori sudamericani? Di Gianni Mura e di Gioanbrerafucarlo (o di Montanelli al Giro d’Italia)?

I nuovi mezzi di comunicazione con la loro moltiplicazione di parole, foto, filmati, voci, secondo alcuni (il semiologo Paolo Fabbri, ad esempio) invece di favorire la permanenza nella memoria collettiva finiranno col favorire la smemoratezza per accumulo d’informazioni.
Il suo pensiero
?

Da sempre lo sport gode di una popolarità e di un seguito esteso in tutto il mondo. Perlomeno, è così per tanti protagonisti di piste, palazzetti, stadi. Forse solo la musica raggiunge una simile vastità. Anche perché lo sport ha un linguaggio universale. Come la musica, appunto. Oggi c’è una moltiplicazione mediale. Piccolo aneddoto personale: quando vado allo stadio vedo che spesso gli spettatori si disinteressano di quel che accade sul campo: molti sono affaccendati con il proprio smartphone (in Italia ne esistono 80 milioni, 20 milioni in più della popolazione…) a rispondere ai messaggi, a filmare, forse a scommettere o, chissà, a rispondere all’amante. Per dire che siamo in servizio permanente effettivo mediatico. Mi chiede se tutto questo accumulo di informazioni, o pseudo tali aggiungo, finisce per smemorizzare la memoria collettiva. Non sono in grado di dirle: sì o no. Certo rifletto molto, e quasi aderisco, su quanto ha scritto Bernard- Henry Lévy (ed ho letto sul “Foglio”) quando parla di 'nuova barbarie digitale' che atrofizza la memoria, e sul fatto che i social sottolineano 'la rottura rispetto a tutto quello che un tempo plasmava la comunità, la solidarietà e la fraternità> e sempre i social ci desocializzano nell’uniformità dei like e dei follower'. Però poi penso che non abbia torto Franco Debenedetti quando risponde, riprendendo studi fatti da scienziati italiani, 'che non c’è nessun rischio di perdere la memoria per colpa delle macchine: i computer vanno a coprire una parte – quella del ricordo preciso – che la nostra memoria non può e non deve svolgere'.
Per concludere: io credo che un patrimonio culturale, in cui metto anche lo sport, ha bisogno di essere continuamente rinfrescato e vivificato sul campo, attraverso il storia e il confronto. Anche con gli strumenti più moderni della comunicazione.

……………………………………………………………………..

Gianni Cerasuolo
Piedi per aria
Pagine 160, Euro 14.00
SuccedeOggi.Libri


Lassù nell'Universo


La Editoriale Scienza, come sanno gli addetti ai lavori e tantissimi lettori, è una casa editrice specializzata in divulgazione scientifica per ragazzi e svolge benissimo da anni questo ruolo. Presenza culturale quanto mai necessaria in questi tempi funestati da negatori delle scienze, da ciarlatani che osano senza vergogna discettare di virologia, da fake news che avvelenano società e politica,
Oggi presento un libro di ES che, pur mantenendo i caratteri originari diretti ai più giovani, presenta una particolarità: è un volume che può essere utile anche a noi adulti.
Perché? Lo dico dopo.
Cominciamo dal titolo: Lassù nell’Universo.
Tre autori. Per il testo, eccellente in chiarezza e concisione, Amedeo Balbi e Andrea Valente; per le illustrazioni, suggestive e funzionali, .Susy Zanella.

È questo un libro che risponde a un’infinità di domande sia sull’origine dell’universo che con i suoi 13,8 miliardi di anni rende improbo festeggiarne il compleanno per l’imbarazzante numero di candeline occorrenti, sia sui tantissimi aspetti che presenta agli osservatori, noi umani, che lo scrutiamo con strumenti scientifici sempre più sofisticati.
Le pagine scorrono – talvolta anche con cadenze umoristiche – illuminando tanti enigmi: Esiste un solo universo o anche altri? Che cosa accadrebbe se ci tuffassimo in un buco nero (si consiglia di non farlo)? Brodo primordiale, pizza cosmica e spaghetti galattici è un menu di cui fidarsi? Il Sole si spegnerà? Al pianeta Terra quanto gli resta da vivere? (stiamo facendo competentemente di tutto per accorciargli la vita).
E poi le distanze fra i corpi celesti dell’Universo. Distanze che la nostra mente non riesce a concepire. Un esempio fra i tanti: la stella più vicina al Sole Proxima Centauri si trova a quarantamila miliardi di chilometri. Così come non bisogna farsi ingannare dalla dizione “anno luce” perché non misura il tempo, ma lo spazio; anno luce è la distanza percorsa dalla luce in un anno. Sicché una galassia che sia solo a due miliardi di anni luce da noi si trova a circa venti miliardi di miliardi di chilometri e anche la parola “lontano” forse non è sufficiente per intendersi.
Da qui anche la improbabile, assai improbabile, possibilità d’incontrare civiltà aliene (la cui esistenza è, per effetti statistici, quasi certa).
La capacità che hanno gli autori di “Lassù nell’Universo” consiste di rispondere a domande ardue con risposte che senza la sciatteria del semplificare riesce a far capire di che cosa tratta il quesito.
Sono citate pure le domande cui finora non abbiamo risposte: Che cos’è la materia oscura, perché l‘Universo è fatto di materia e non di antimateria, e tanti altri tozzi quiz. A proposito di quiz, il libro è arricchito da quiz diffusi nelle pagine con le risposte giuste in conclusione del volume che possiede anche un glossario con la spiegazione di termini scientifici ricorrenti nel testo, più un Indice analitico,

Dalla presentazione editoriale

«Per Galileo è rivoluzionario, per Verne pittoresco, per Hawking singolare, per Asimov immaginario, per Dante circolare e per Hubble extragalattico. Lo osserviamo e indaghiamo, vi immaginiamo esplorazioni futuristiche e vite aliene, ne studiamo la materia oscura e l’energia che lo fa espandere. È l’Universo, che da sempre ci tiene con il naso all’insù regalandoci infiniti misteri da risolvere.
Da quanto esiste e che forma ha? C’è vita fuori dalla Terra? Che cos’è l’antimateria? Che cosa c’era prima del Big Bang? Che c’è dentro un buco nero? Grandi domande a cui risponde un grande astrofisico e divulgatore, Amedeo Balbi, che insieme allo scrittore Premio Andersen Andrea Valente racconta ai bambini i segreti dell’Universo, accompagnandoli in un viaggio attraverso lo spazio e il tempo alla scoperta della cosmologia.
Una lettura appassionante tra miti antichi, scoperte sorprendenti, oggetti astronomici affascinanti e misteriosi, dove capire com’è possibile usare i telescopi per guardare indietro nel tempo, fino all’origine dell’Universo!».

Amedeo Balbi
Andrea Valente
Susy Zanella
Pagine 156, Euro 18.90
Editoriale Scienza


Tinin dalle sette vite

Conobbi TInin Mantegazza (in foto) al Centro di Produzione Rai di Torino dove facevo la regìa di uno sceneggiato radiofonico. Un pomeriggio particolare. Perché mi andava tutto storto nello Studio di registrazione. Pure a Mantegazza tirava male nelle prove di una nuova trasmissione chiamata L'albero azzurro.
Come accade in questi casi si fa a gara a chi si ritiene il più colpito da un avverso fato e tiene al racconto delle proprie disgrazie ritenute insuperabili, ma l’altro gli dà sulla voce vantando una superiorità in fatto di sciagure. In questo duello all’ultimo sinistro vinse lui che mi travolse con la sua foga. Sconfitto, lo invitai al bar dove trovammo conforto ai reciproci guai consolandoci a vicenda e finendo l’incontro addirittura in allegria.
Altri incontri, qualche telefonata, poi come tristemente succede ci si perde di vista.
Mantegazza, ben affiancato dalla compagna Velia, faceva la tv più difficile: quella per i più piccoli. Un rapporto, quello bambini e tv fra i più delicati tra età verde e i media.
La psicologa Anna Oliverio Ferraris rileva, in un intervento che traggo da Mediamente, come "la televisione eserciti il bambino a porre attenzione agli stimoli visivi. Si corre però il rischio di abituarli al solo linguaggio e ai tempi televisivi che, per la loro durata, sempre più breve, impediscono la riflessione, favorendo lo sviluppo di un’attitudine passiva". Dobbiamo quindi imparare ad usare gli audiovisivi, sempre maggiormente presenti nella nostra vita, a vantaggio, soprattutto, delle nuove generazioni.
Ancora sull’argomento un interessante intervento video di Francesco Siliato, docente di Teoria e tecnica della comunicazione di massa al Politecnico di Milano, trasmesso tempo fa da Rai Educational.

Torniamo a Mantegazza.
Il Teatro del Buratto dedica la sua prossima stagione teatrale 2021-22 a Tinin.
A dare il via alla programmazione è una mostra allestita al Teatro Bruno Munari, dal titolo Tinin Mantegazza .Le sette vite di un creativo irriverente.

Estratto dal comunicato stampa.

««Più di 250 disegni originali dipinti, pupazzi, fotografie, oggetti di scena, filmati e documenti, occupano infatti gran parte del teatro milanese con il compito di restituire al grande pubblico la fantasia e complessità del grande artista, autore televisivo, animatore culturale e scenografo italiano.
Il percorso di visita, organizzato in collaborazione con Velia Mantegazza, sua compagna di vita e di lavoro, ha anche lo scopo di ricordare e sottolineare il ruolo fondamentale avuto dai Mantegazza nel fondare con Jolanda Cappi, a metà degli anni Settanta, la cooperativa Teatro del Buratto con il preciso intento di riqualificare il Teatro per ragazzi in Italia.
L’esposizione proviene in parte dal Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo (RA), dove si è tenuta nel 2019 con la curatela di Flaminio Balestra e Diego Galizzi. Su iniziativa del Teatro del Buratto a Milano è stata ripresa ed ampliata con due nuove sezioni. La prima, dedicata al lavoro di Tinin e di Velia con il Teatro del Buratto e con il Teatro Verdi, racconta per la prima volta in una mostra - attraverso oggetti di scena, pupazzi e video - molti dei loro spettacoli, oggi considerati delle pietre miliari del Teatro di Animazione.
La seconda sezione invece ci porta in una dimensione privata della vita dei Mantegazza e descrive il loro legame di amicizia con numerosi pittori, tra cui Tullio Pericoli, Lele Luzzati, Bruno Munari, Lucio Fontana, testimoniato da alcuni ritratti a olio, matita o acquarello, mai esposti al pubblico.
La mostra è possibile grazie alla collaborazione di: Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo (RA), Fondazione Tito Balestra, Accademia Perduta Romagna Teatri, Archivio Storico del Cabaret Italiano, Associazione Peppino Sarina e Stamperia Pascucci 1826 di Gambettola.
L’allestimento è a cura del Teatro del Buratto e coinvolge diversi spazi su due piani del Teatro Munari. Un itinerario suggestivo e articolato a cui si potrà accedere solo con visita guidata (gratuita con prenotazione obbligatoria) accolti dai numerosi pupazzi realizzati da Tinin e Velia per il teatro e la televisione: dagli ‘Animatti’, alla Fata Muccona, dal Cavalier Stampella, al Bruco Galileo e da molti altri ancora.
Completano la mostra tre video di approfondimento sull’attività dei Mantegazza al Teatro del Buratto, in televisione e infine un’intervista all’artista di Flavio Oreglio, Direttore Archivio Storico del Cabaret Italiano, dove viene raccontato il mondo del cabaret a Milano negli anni Sessanta. Un fenomeno che Tinin e Velia contribuirono a consolidare prima con la Galleria la Muffola e poi fondando il Cab 64, dove si esibivano giovani artisti come Cochi e Renato, Bruno Lauzi, Felice Andreasi e Lino Toffolo».

Ufficio Stampa: Alessandra Pozzi – 338 596 5789, press@alessandrapozzi.com
Teatro del Buratto | 0227002476 comunicazione@teatrodelburatto.it

Tinin Mantegazza
Le sette vite di un creativo irriverente
Teatro Bruno Munari
Via Giovanni Bovio 5, Tel. 02.27002476
Visite riservate alle scuole su prenotazione in orari da concordare
Fino al 21 novembre 2021


Il rituale del serpente


Parlare di simbologia oggi può sembrare un modo superato di confrontarsi col mondo contemporaneo, ma non è così. Anche oggi i simboli esistono, naturalmente impersonati da nuove figure. Lo è quella di Marilyn Monroe e di Charlie Manson, del logo di Apple e di Nike. Gerhard Wehr, grande studioso di storia delle religioni e delle idee, afferma: "I pubblicitari di oggi che sanno dominare le immagini si servono sempre di simboli per le loro manipolazioni e per fabbricare ideali commerciali”.
Aggiunge Jacques Séguéla fondatore di Havas una delle più importanti agenzie pubblicitarie del mondo (autore dell’irresistibile “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario lei mi crede pianista in un bordello”): “Oggi i simboli dobbiamo crearli, però usiamo con mirato studio anche simboli che provengono dall'antichità ma sono ancora vivi ed efficaci nella nostra percezione, la Fiamma, la Croce, la Scala, e vari animali… dalla Colomba al Serpente a tanti altri”.
È, quindi, materia affascinante ancora oggi lo studio dei simboli, oggi che con i progressi delle neuroscienze conosciamo un po’ meglio quel Sistema nervosa centrale che è schermo e proiettore di tanti stimoli che ci attraversano.
Scrive Hans Biedermann studioso austriaco di simbologia: “Tra I motivi che rendono appassionante lo studio dei simboli sta il fatto che, aldilà della nostra volontà, penetrano nel profondo della personalità, con il fascino dell’ambiguità. Non possono, infatti, essere spiegati in modo univoco, perché spessissimo possiedono una duplice valenza. Si pensi, ad esempio, a quelli che si riferiscono al mondo degli animali sia realmente esistenti sia quelli della zoologia fantastica: la capra o il drago non sono sempre buoni o sempre malvagi”.
La simbologia… noi umani… gli animali.
Gli artisti visivi come vedono nel tempo presente quel rapporto?

È in corso a Bagnacavallo la mostra Il rituale del serpenteAnimali, simboli e trasformazioni che proprio su questo tema riflette.
La mostra è organizzata dal Gruppo Magma ideato nel 2014 da Alex Montanaro, Ambrogio Sarni, Enrico Minguzzi,
Le curatrici Viola Emaldi e Valentina Rossi così spiegano il loro lavoro: ”Il Rituale del serpente” nasce da alcune riflessioni intorno all’opera d’arte simbolo dell’identità culturale di Bagnacavallo: l’incisione ‘San Gerolamo nello studio’ di Albrecht Dürer, datata 1514 e conservata presso il Museo Civico delle Cappuccine, che raffigura il Santo insieme al leone che aveva portato con sé di ritorno dall'eremitaggio nel deserto, dopo averlo ammansito togliendogli una spina dalla zampa. Proprio da quest’opera, parte la riflessione sulla mostra, per indagare attraverso l’arte contemporanea
Il titolo della mostra, “Il rituale del serpent”, riprende l’omonimo libro di Aby Warburg, che raccoglie una conferenza tenuta dallo studioso nella casa di cura Kreuzlingen nel 1923. Warburg nella sua digressione evoca il terrore primitivo del serpente, l’animale che forse più di ogni altro attiva una carica fobica su tutti gli altri esseri viventi, compreso l’uomo. Questo stesso impulso, del tutto naturale, ci suggerisce di non distinguere l’uomo in quanto specie “differente”, sebbene agisca secondo logica e capacità di astrazione particolarmente complesse
.

Estratto dal comunicato stampa.
«La mostra è da intendersi come una costellazione di opere che indagano l’essere animale, partendo dai simboli e dalla loro interpretazione iconografica e iconologica, passando per il pensiero scientifico, fino allo slittamento dall’epoca dell’Antropocene – concetto nato negli anni Ottanta e poi formalizzato dal Premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen all’inizio degli anni Duemila – a quella del Chthulucene, termine coniato da Donna Haraway nel 2016 per indicare un tempo di crisi ecologica in cui tutto è interconnesso e in cui per sopravvivere è necessario imparare l’arte della coesistenza tra specie.
Gli animali hanno sempre fatto parte dell’immaginario artistico, nella cultura occidentale come in quella orientale, a partire dalle loro primissime rappresentazioni – le pitture rupestri paleolitiche dove i soggetti più comuni, insieme alle impronte umane, sono i grandi animali selvaggi – fino a diventare negli ultimi decenni opere d’arte essi stessi attraverso la propria presenza fisica, dallo squalo tassodermizzato di Damien Hirst alle api e al cane dalla zampa rosa che vagano nei mondi elaborati da Pierre Huyghe. Il percorso espositivo intende evidenziare come la ricerca contemporanea abbia continuato a portare avanti, ovviamente con gli opportuni indici di differenziazione, un’arte che spesso esprime – seppur in modo evocativo – questa connessione tra specie.

“Il rituale del Serpente” – realizzata con il contributo di Molino Spadoni e Wall&dec – presenta lavori inediti di Marta Pierobon, Luigi Presicce, Lorenzo Scotto di Luzio, Filippo Tappi, opere recenti di Mark Dion, Valentina Furian, Claudia Losi, Marco Mazzoni, Dana Sherwood, Davide Rivalta, Emilio Vavarella e un’opera site specific di BekhbaatarEnkhtur.
L’esposizione è accompagnata da una pubblicazione di Danilo Montanari Editore con un testo di Fabrizio Lollini docente presso l’Università di Bologna.
La presentazione del volume avverrà il 14 novembre 2021».

Ufficio Stampa: Irene Guzman, irenegzm@gmail.com ; +39 349 1250956

Il rituale del serpente
Convento di San Francesco
Via Luigi Cadorna 14,
Bagnacavallo (Ravenna)
Fino all’8 dicembre 2021


Vangeli nuovissimi

In verità, in verità vi dic…no, scusate sono appena uscito dalla lettura di un vangelo apocrifo e sto ancora sotto l’influenza del linguaggio di quelle pagine pubblicate dalla casa editrice Quodlibet.
Però… però poco male, in fondo posso continuare come prima.
E allora: in verità in verità vi dico che quel libro è proprio un gran bel libro, ve lo consiglio. Ovviamente già sapete che se sono io a consigliarvelo non è un romanzo… pussa via romanzieri!
Il titolo? Vangeli nuovissimi secondo Mario Valentini.
Di lui si dice che sia nato a Messina, abbia studiato a Bologna e sia vivente a Palermo, dove insegna e naturalmente scrive vangeli un giorno sì e l’altro pure. Gli si attribuiscono racconti pubblicati sulla sofisticata rivista detta «Il semplice». Inoltre, vanta alquanti tomi: “Voglia di lavorare poca” (forse un’autobiografia), (Portofranco, 2001); “In certi quartieri” (Mesogea, 2008); “Come un sillabario” (idem, 2015); “Così cominciano i serial killer” (idem, 2018). L’opera sua ritenuta maiuscola è intitolata “La minuscola” (Exòrma, 2018).

Vangeli nuovissimi, come dicono quei critici che scrivono bene, è una festa della pagina. Sapientemente scritta con cadenze che rimandano a scritture sacre, diverte ogni lettore che sia lontano da Tamaro, Moccia e dal saggista Bruno Vespa.
Valentini riesce nell’arte più difficile: divertire. Divertire alludendo alle tante bufale che ci siamo sorbettate nei secoli e illudendo sulle presunte verità di quelle bufale perché furono comunicate con autorità scrittoria.
“Vangeli nuovissimi” è un libro che vive nell’universo del Gioco. Vale a dire la cosa più seria che esista. Perché il Gioco non scherza. Onora le beffe e si fa beffa degli onori.
È allegro, ma non giocondo. Infrange ma non fracassa.
Al Gioco piacciono i tarallucci e il vino, ma li consuma come aperitivo e mai a fine pasto.
Insomma, comprate questo libro, mi ringrazierete.
Ancora una cosa, la presentazione editoriale che adesso leggerete porta le iniziali E.C.
A me non la si fa, come diceva Totò. Quelle da giurarci sono le iniziali di Ermanno Cavazzoni… urcacan!

Dalla presentazione editoriale
«Questa non è l’ennesima vita di Gesù romanzata, ma veri e propri vangeli apocrifi, con un Gesù bambino simpatico e leggermente screanzato, che fa miracoli poco convincenti, come fossero scherzi. Il racconto è scandito in capitoletti o versetti come è tipico della forma vangelo, intesa come genere letterario. Sebbene faccia ridere spesso, è un riso sereno e mattutino, perché riprende e celebra con un po’ d’ammirazione i racconti ascoltati ogni settimana fin dalla più tenera età, per lo più di sabato o di domenica, a dottrina; non molto diversi delle fiabe, dai fumetti o dai cartoni animati, verso cui Mario Valentini si dichiara molto riconoscente (come tanti di noi) avendo contributo a strutturargli la mente con valori morali, tabù, fantasie, credenze, sensi di colpa, convinzioni e timori Gesù un giorno fece quattordici miracoli, ma non se ne accorse nessuno».

Ogni libro che si rispetti ha un quarto di copertina, quindi, anche questo. Sopra c’è scritto: Gesù un giorno fece quattordici miracoli, ma non se ne accorse nessuno.

Mario Valentini
Vangeli nuovissimi
Pagine 152, Euro 14.00
Quodlibet


Come muore un regime (1)

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un libro con ampie riflessioni sugli ultimi mesi del regime fascista facendo luce su episodi e personaggi di quel tragico periodo della storia italiana.
Titolo: Come muore un regime Il fascismo verso il 25 luglio.
L’autore è Paolo Cacace.
Giornalista e storico, ha pubblicato diversi volumi in collaborazione con Giuseppe Mammarella, tra i quali, usciti da Laterza, «La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri» (20174), «Storia e politica dell’Unione europea» (20206), «Il Quirinale. Storia politica e istituzionale da De Nicola a Napolitano» (2011). Tra i suoi libri anche «Vent’anni di politica estera italiana 1943-1963» (Bonacci, 1987), «Elena e Vittorio: mezzo secolo di regno tra storia e diplomazia» (con G. Artieri, Luni, 2000), «L’atomica europea» (Fazi, 2004), «Quando Mussolini rischiò di morire» (Fazi, 2007).

«L’aspetto più impressionante del 25 luglio non è quello delle folle scese, all’annuncio della radio, in piazza per acclamare la caduta del duce e del fascismo. È piuttosto quello dell’assenza di qualsiasi opposizione o almeno di rammarico, o anche semplicemente di dubbio, di perplessità, di sorpresa […]. Nessuno si meraviglia della sua liquidazione improvvisa: veramente un tale regime era maturo per la sua fine, anzi era già “passato”»
Luigi Salvatorelli

Dalla presentazione editoriale

«Sappiamo veramente tutto sulla fine del regime fascista, innescata dalla seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943? Questo saggio ne propone una nuova ricostruzione, concentrandosi sui sei mesi precedenti, a partire dal rimpasto di governo con cui a febbraio Mussolini si liberò di alcuni gerarchi scomodi. Seguendo passo passo, sulla base anche di documentazione inedita, le iniziative e le manovre di quanti furono a vario titolo implicati – le «congiure parallele» dei generali e dei gerarchi frondisti, il sovrano e la corte, il Vaticano, gli industriali, gli antifascisti, e anche probabilmente la massoneria – Cacace mostra come infine l’operato di Grandi e la seduta del Gran Consiglio siano stati marginali: il vero protagonista fu il re che pressato dagli eventi bellici decise di arrestare Mussolini e sostituirlo con Badoglio».

Segue ora un incontro con Paolo Cacace.



Come muore un regime (2)

A Paolo Cacace (in foto) ho rivolto alcune domande.

Il suo libro è puntato sull’ultimo semestre del regime fascista.
Quali i motivi di questa scelta
?

È il periodo che segna la fase agonica del regime fascista. E contiene tutti gli elementi significativi, di ordine interno ed internazionale, che conducono all’inevitabile collasso finale. Parte dall’estremo tentativo di Mussolini di recuperare, almeno sul fronte interno, una situazione che stava rapidamente deteriorandosi sotto il peso dei bombardamenti alleati e si conclude con la destituzione del dittatore nel pomeriggio del 25 luglio 1943. Inoltre, in questo periodo si concentrano tutte le trame dei vari attori (militari, re e Corte reale, gerarchi frondisti, oppositori prefascisti e antifascisti) per tentare una via d’uscita dalla guerra.

Quanto hanno influito le cattive condizioni fisiche di Mussolini sulle sue incertezze e passività in quei mesi finali?

Certo in quei mesi Mussolini era l’ombra di se stesso. Al penultimo vertice con Hitler, a Salisburgo nell’aprile ’43, era paralizzato dai dolori allo stomaco provocati dall’ulcera duodenale. Egli appariva spesso assente e alternava momenti di euforia ad altri di cupa depressione. , disse una volta Ciano per sottolineare che il vero malessere del suocero era di una natura psicosomatica ed era determinato dalle notizie dei continui rovesci bellici. Anche durante la riunione del Gran Consiglio, Mussolini era sofferente. Ma mai manifestò intenzioni di volere abbandonare la scena.

Il grande rimpasto del 5 febbraio ’43 (sostituzione di 9 ministri su 12) fu un errore del duce? Può essere considerata una concausa alle origini del 25 luglio ?

Sì, sostituendo i principali ministri (Ciano, Grandi e Bottai) con personaggi di minore influenza, Mussolini non ottenne lo scopo che si prefiggeva; cioè di costituire un governo più coeso, più fedele alle sue direttive e meno ingombrante. D’altronde, lo stesso dittatore si pentirà amaramente di alcune sue scelte (come quelle di Albini e di Cini). Può essere considerata una concausa del 25 luglio soltanto perché rafforzò i legami dei gerarchi frondisti. Ma le ragioni per cui crollò il regime furono altre.

Chi è stato il primo motore politico e organizzativo della congiura?

Nel mio libro sottolineo il ruolo cruciale che ha avuto, nei sei mesi finali del fascismo, re Vittorio Emanuele III. Al di là degli errori, delle incertezze, delle paure mostrate in varie circostanze è stato lui, il , a dettare i tempi della destituzione di Mussolini. Sino dal febbraio del ’43 quando cominciano i primi contatti tra i militari golpisti (dopo la nomina di Ambrosio al vertice del Comando supremo al posto di Cavallero) per rompere l’alleanza di guerra con la Germania nazista. Il duca d’Acquarone è il tramite tra i generali e il sovrano.

Il Vaticano quale ruolo ha avuto con gli americani e gli inglesi ?

Pio XII e i suoi principali collaboratori (il segretario di Stato Maglione e i vice segretari di Stato, Tardini e soprattutto Montini) hanno giocato un ruolo molto significativo e ancora non sufficientemente chiarito nella fase finale del regime. Naturalmente i margini operativi sul versante diplomatico erano angusti e il Vaticano dovrà fronteggiare la minacciosa ostilità del Terzo Reich. Lo scopo principale di Pio XII era ovviamente quello di preservare la città di Roma, culla del cristianesimo dai bombardamenti alleati. È stata un’azione diplomatica discreta, ma intensa, quella del papato, per cercare di arrivare ad una pace di compromesso. Alla fine, anche Mussolini aveva accettato tacitamente l’ipotesi di una mediazione vaticana con gli inglesi. Ma non se ne fece nulla>.

Quale parte ha giocato la Massoneria nel luglio ’43?

Un ruolo ancora da definire, ma non c’è dubbio che la presenza della massoneria aleggi su gran parte dei protagonisti della congiura militare. La scelta di Badoglio da parte del re come successore di Mussolini ne sarebbe una conseguenza, almeno secondo il principale antagonista del duca di Addis Abeba, cioè il generale Caviglia. Anche Grandi parla di un che avrebbe portato al colpo di Stato dei militari.

Perché la scelta di Vittorio Emanuele III cadde proprio su Badoglio?

È uno dei misteri insoluti del 25 luglio. Il re non aveva alcuna stima del maresciallo e dopo la rimozione dalla carica di capo di Stato maggiore generale non l’aveva incontrato per oltre due anni. Lo convoca solo nei mesi finali della dittatura e un mese prima della caduta
di Mussolini gli comunica che sarà lui il successore. C’è l’ipotesi massonica – come si è detto - connessa forse alle pressioni che lo stesso Badoglio esercitava sul sovrano minacciando di esautorare il duce anche senza il suo assenso. Certo è che Vittorio Emanuele III si pentirà amaramente di quella scelta
.
Ciano e Grandi: due congiure. Quali profili le differenziavano ?

Gli scopi di Grandi erano abbastanza chiari: proponeva Caviglia capo del governo, se stesso come inviato speciale per trattare la pace con gli anglo-americani e l’immediata dichiarazione di guerra alla Germania. Con il voto del Gran Consiglio pensava di essere vicino all’obiettivo. Invece, fallì completamente perché il re nominò Badoglio e si servì strumentalmente del voto del G.C. di cui non aveva bisogno per intervenire. Forse Grandi aveva un con una sponda vaticana, ma anch’esso non è riuscito. Gli obiettivi di Ciano erano più confusi, forse sperava solo di salvarsi dal naufragio della dittatura. Invece pagò il prezzo più caro.

…………………………..

Paolo Cacace
Come muore un regime
a stampa Euro 25.00
e-book Euro 16.99
Formato: Kindle, ePub
il Mulino


Ciao maschio!


“Nella vita abbondano i maschi, ma scarseggiano gli uomini”.
(Bette Davis)

“I maschi oggi sono spaventati da due cose: una donna col coltello e una col cervello.”
(Robin Williams)

“Un uomo che non piange non potrà mai fare grandi cose”.
(Steve Jobs)

Ci sono più aforismi dedicati al maschio o alla femmina?
Ogni ricerca in tal senso è vana, impossibile saperlo perché quel numero varia in modo consistente da una raccolta a un’altra.
Sul maschio, però, le angolazioni con cui è visto, e forse meglio dire studiato, in una grande mostra a Roma, sono probabilmente esaustive, tanta è la pluralità di sguardi con cui è osservato.
Perciò se a Roma abitate o per la Capitale siete di passaggio avete ancora un mese per godere di una bellissima mostra presso la Galleria Nazionale d’Arte moderna e Contemporanea.
Titolo: Ciao maschio! Volto, potere e identità dell'uomo contemporaneo.
Curatori: Arianna Angelelli e Claudio Crescentini.

Oltre 100 opere, tra dipinti, sculture, grafica, fotografia, film d’arte e sperimentali, video, video-performances e installazioni, di cui molte mai esposte prima o non esposte da lungo tempo.
Fra tanti lavori sul tema scelgo un’opera (in foto) di Lamberto Pignotti tra i fondatori e fra i protagonisti internazionali della poesia visiva, genere espressivo che vede unite parola e immagine
Questa mostra fa riflettere anche su quella malattia sociale che è stata definita “mascolinità tossica” su cui il sociologo Manolo Farci così scrive: “…è necessario: sradicare quello che c’è di avvelenato negli uomini. Stanno emergendo corsi di studi e iniziative scolastiche che invitano i ragazzi ad abbandonare comportamenti tossici per entrare in contatto con i propri sentimenti e sviluppare una mascolinità sana”.

La mostra è corredata da un catalogo pubblicato dall’editore Gangemi.
Arianna Angelelli e Claudio Crescentini ne sono i curatori che così scrivono: «Partiamo dal titolo, aperta e inevitabile citazione del film diretto da Marco Ferreri (1978), vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 31º Festival di Cannes. Un film sul decadimento dell'uomo contemporaneo e del suo status sociale, elaborato per scene costruite nella ciclica sequenza di quadri-situazione che abbiamo voluto ricontestualizzare nella presente mostra per concettuali sequenze/sezioni tematico/rappresentative. Ad iniziare da “Il Volto del potere”, fra dimensione politica e sistema dell'arte, con un focus su “Il Volto del terrore”, per ricordare – non dimenticare – la violenza dell'uomo sull'uomo tramite la dittatura e il volto di tre uomini, Hitler, Mussolini e Stalin, da intendere come esemplificazione della violenza maschile nella politica mondiale.
E ancora: “Identitá Maschile”, con particolare riguardo ai temi della famiglia, dell'eroismo/antieroismo e dell'edonismo; “Culto del corpo ed Etica dello sport”, temi di pressante attualità, terminando con una voce rappresentativa – “altra” – dell'arte che riproduce il maschio, quella delle artiste in “Uomini visti da donne”».

QUI più diffuse notizie e parecchie immagini.

……………………………….

Gall. Naz. Arte Moderna
Viale delle Belle Arti 131
“Ciao maschio!”
A cura di
Arianna Angelelli
Claudio Crescentini
Info T +39 06 322 98 221
Fino al 14 – 11 – 2021


Centro Studi Internazionale al Femminile

Quali sono le origini del femminismo?
Prime tracce, in senso politico, se ne trovano nelle intenzioni della Rivoluzione francese dell’89 e in parte (ma solo in parte) nelle teorie scaturite dall’Illuminismo.
Questo aldilà di figure di donne che nei secoli precedenti, sia in campo scientifico sia in quello umanistico, si sono distinte per le loro capacità. In quei casi, però, si è trattato di occasioni al singolare, dell’emergere – sia pure fra mille difficoltà – di talenti individuali non riconducibili ad un movimento organizzato.
Successivamente, è nella fine dell’’800 e nei primi del ‘900 che possiamo rilevare la formazione di gruppi i quali rivendicano in senso sociopolitico la presenza femminile nella società.
Una buona documentazione sulle donne che nel tempo hanno contribuito con i loro scritti e le loro azioni al progresso della figura femminile nel mondo si può consultare QUI.

Attraverso varie lotte, svoltesi prevalentemente nel mondo anglosassone, dapprima soprattutto per ottenere il voto alle donne, si arriva al grande movimento e alle grandi teorizzazioni degli anni ’60 del secolo scorso. E anche a una divisione di pensiero sugli obiettivi primari da raggiungere nel XX secolo negli stessi ambienti femministi.
Su questo sito a due studiose, Laura Severini e Adele Cacciagrano, chiesi: “Rispetto agli incandescenti anni ’60 e ’70, penso, ad esempio, a Germaine Greer, Kate Millet, Anne Koedt, com’è cambiato il pensiero femminista?
Così risposero.
“L'elemento di maggiore discontinuità tra il femminismo di quegli anni e il dopo è probabilmente legato alla differenza di bersaglio e interlocutore. La seconda ondata del femminismo rappresentata dai nomi che hai fatto, e in Italia da un personaggio di altrettanto calibro come Carla Lonzi, si metteva in polemica con lo sguardo e la teorizzazione maschile sulle donne.
Freud e la sua teoria della donna vaginale per “L'eunuco femmina” di Greer, un pensiero millenario androcentrico per “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, la battaglia per la differenza si combatteva contro i padri, mariti e eroi maschi del pensiero.
Ora l'interlocutore e il bersaglio è cambiato. Ci si è impercettibilmente, ma sempre più spostati verso un discorso tra donne comprendendo che è proprio lì, nella relazione da donna a donna, una relazione mai davvero costituita, ancora molto problematica e insoluta, che ci si deve concentrare per arrivare a una definizione del femminile, sia in termini di genere ma soprattutto di costituzione delle individualità”.
Il femminismo dei nostri giorni si trova diviso in un'infinità di correnti; alcune recuperano temi delle origini, altre sono di nuova concezione.
Questa frammentazione se da una parte è segno di vivacità e, inoltre, testimonia la capacità di coprire più aree dei territori della vita di noi umani, dall’altra fatalmente determina debolezza delle lotte. Specie in un momento come l’attuale dove la cronaca impone all’attenzione sociale il fenomeno del femminicidio che registra numeri paurosi.
Ben vengano, quindi, iniziative che illustrino il valore storico delle donne nel pensiero e nell’organizzazione degli abitanti di questo pianeta.

In foto: Samantha Cristoforetti prima donna italiana nello Spazio

Un’iniziativa recente, in Italia, si segnala a Corinaldo dove è nato il Centro Studi Internazionale sulla Donna .
Tra le Settecentesche mura dell'ex convento degli Agostiniani, sorge una nuova meta che vuole essere occasione per riflettere sul rapporto donna e società, con una biblioteca e, inoltre, dove si alterneranno eventi, incontri e proposte per parlare di nuovi scenari sociali possibili, valorizzare il ruolo delle donne e costruire una cartina geografica del mondo attraverso le grandi donne dei 5 continenti.

Dal comunicato stampa

«Centro Studi Internazionale sulla Donna: si inizia il 16 ottobre con l'inaugurazione di una mostra permanente che vedrà protagoniste 14 scienziate. Una mostra per proclamare, al di là delle disparità di genere, l’universalità dell’ingegno, la libertà di pensiero e di espressione, il diritto all’affermazione personale di tutti gli individui.
In mostra 14 scienziate. 14 donne che hanno cambiato il mondo con le loro eccezionali invenzioni e scoperte: Ada Lovelace Byron, Caroline Hershel, Emmy Noether, Jane Goodall, Katherine Johson, Margherita Hack, Maria Gaetana Agnesi, Marie Curie, Tu Youyou, Rita Levi Montalcini, Katia Kraff, Hedy Lamarr, Ipazia, Maria Sibylla Merian: un tracciato per conoscere le vite straordinarie di donne che hanno apportato un contributo fondamentale all’emancipazione femminile.
Oltre alla mostra permanente, il “Centro Studi Internazionale sulla Donna”, attraverso eventi, incontri, dibattiti, darà vita a una mappa del mondo "al femminile”. Su un globo di grandi proporzioni ogni volta che verrà ricordata una grande donna, il suo nome verrà apposto sulla cartina geografica con l'obiettivo di costruire una geografia unica nel suo genere, un filo rosso tra le donne che hanno dato il loro contributo alla società.
Attraverso una serie di suggestioni, grafiche e audio, si rappresenta il difficile ingresso dell’universo femminile nel mondo della scienza, fra mille ostacoli e pregiudizi di genere. 16 ottobre: un’inaugurazione, per una data non casuale: quella del compleanno, nel suo paese natio, di Maria Goretti, tra le prime vittime di femminicidio del Novecento, uno dei primi fatti di sangue del secolo scorso passato alla cronaca e rimbalzato sui media con protagonista una donna».

Ufficio Stampa HF4
Marta Volterra marta.volterra@hf4.it (+39) 340.96.900.12
Alessandra Zoia alessandra.zoia@hf4.it (+39) 333.76.23.013

Centro Studi Internazionale sulla Donna
Dal 16 ottobre 2021
CLIC per informazioni.


Edizioni Mincione

Ma cos’è questa crisi cantava negli anni '30 Rodolfo De Angelis satireggiando i tanti che si lamentavano dell’eterna crisi.
Groucho Marx diceva che s’era accorto della crisi del 1929 quando aveva visto in Central Park i colombi portare le briciole di pane ai passanti. Ma, si sa, quello è un tipo che esagerava sempre.
Le cose non sono cambiate dai tempi di Rodolfo De Angelis e Groucho Marx e anche prima del Covid-19 (una crisi vera) in molti imputavano alla crisi i loro insuccessi “immergendosi” – diceva Einstein – “in pensieri esclusivamente sui problemi e non sulle loro soluzioni”.
Crisi del cinema, del teatro, per non dire crisi dell’editoria e del libro che accompagna in Italia anche i periodi più floridi.
Esistono, però, persone che prevengono la crisi pensando a rimedi prima che il problema li investa o altri che della crisi ne sfruttano anche le opportunità che presenta.
Al primo caso (ma in parte anche al secondo) appartiene, ad esempio, l’editrice Mariangela Mincione che anche in epoca Covid ha difeso la sua impresa meglio di altri editori.

Leggete qui di seguito un estratto del comunicato stampa che mi è pervenuto e mi darete ragione.

«Nata a Roma nel 2015, diretta da Mariangela Mincione, dal 2018 Mincione Edizioni si trasferisce a Bruxelles, dando vita a un ambizioso progetto editoriale e culturale, quello di una casa editrice europea che pubblica autori italiani in diverse lingue.
In direzione inversa è la collana “Dal Belgio”, dedicata alla letteratura belga contemporanea e rivolta a fare conoscere in Italia le voci di un paese plurale. Primi titoli: "Racconti trappisti” di Jean Jauniaux, “Lo chiamavano Tony Barber” di Thilde Barboni)».

Ora Mariangela in voce indica viaggi, fervide fantasie e felici derive che l’hanno portata a Bruxelles.

Ma non finisce qui perché eccola in un breve video.

Ufficio stampa: Anna Maria Riva
39 3290974433
riva@annamariariva.eu

Mincione Edizioni
mincionedizioni@gmail.com
Tel: 32 2 48 794 11 30
Rue Gachard 80, 1050 Ixelles Bruxelles


Breve trattato sulla stupidità umana


Una delle tante felicissime battute di Totò: “Lei è un cretino, s’informi” (“Totò, Eva e il pennello proibito”, 1959, regia di Steno).
Ma il cretino non segue quel consiglio, non s’informa perché pensa – come tutti i cretini – di non esserlo. È questa la prima caratteristica del cretino: non dubitare di se stesso, né dei suoi giudizi sul prossimo. E se è vero che la stupidità può colpire anche chi stupido non è, c’è un metodo infallibile per sapere di essere appartenuto sia pure solo un momento agli stolti: chiederselo.
Baudelaire scrive: “Oggi mi sono sentito sfiorare dall’ala dell’imbecillità”. Ecco, nel momento in cui si è accorto di quell’ala, ne ha avuto consapevolezza, può rincuorarsi: non è un imbecille.
Molti anni fa, nel 1976, Mario Cipolla pubblicò un libro dal titolo “Allegro ma non troppo” in cui formulò leggi che definivano lo stupido. Una di quelle così recitava: “Una persona è stupida se causa un danno a un'altra persona o ad un gruppo di persone senza realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo un danno”.
La stupidità, come un vento velenoso ha attraversato secoli e secoli, carezzato teste, soffiato nei cuori, causando disastri, anche eccidi, incautamente attribuiti alla cattiveria. No, è stata la stupidità a causarli. Non che la cattiveria non esista, ma la malvagità e la stoltezza non sono incompatibili né antagoniste. I totalitarismi lo dimostrano.

Su questi temi scorre un affascinante librino pubblicato dalla casa editrice Graphe.it: Breve trattato sulla stupidità umana.
L’autore è.Ricardo Moreno Castillo.
Laureato in matematica e dottore in filosofia con specializzazione in storia della scienza, è stato docente di scuola superiore fino al pensionamento e professore associato nella facoltà di matematica dell'Universidad Complutense.
Ha scritto saggi sulla matematica e la sua storia, sul pensiero e la filosofia, sull'educazione e poi… poi ha pubblicato anche un romanzo... si sa, nessuno è perfetto.
Nelle pagine di quel Trattato si trovano ragionamenti serrati che, conditi con angoli di fine umorismo, tratteggiano la figura del cretino però senza burlarsi troppo di lui perché viene illustrata l’estrema pericolosità di cui è portatore e l’autore, giustamente, ne trema.
“La scarsa intelligenza” – scrive Moreno Castillo – “può essere più dannosa della cattiveria, perché è più facile lottare contro la seconda (dato che persegue una certa logica) che contro la prima (che ne è carente). Con un malvagio si può dialogare e finanche giungere a convincerlo che potrebbe essere più felice diventando una brava persona. Uno stupido, al contrario, è impenetrabile ai ragionamenti”.
L’ultimo capitolo del saggio è intitolato ‘Come lottare contro la stupidità’. Saggiamente l’autore apre quella parte dicendo: “Le ricette che si propongono a seguire non danno alcuna garanzia. Anzi, probabilmente non serviranno a nulla”.
Espone poi le ricette annunciate. Comprate il libro e giudicatele.
Un’ultima cosa che non c’è nel pur valoroso volume di Moreno Castillo. Mi sono chiesto: esiste un tratto che caratterizza la stupidità nella nostra epoca?
Ho trovato risposta in un detto di Jean Cocteau: “Il dramma della nostra epoca è che la stupidità si è messa a pensare”.
Urcacan! direbbe Totò.

Dalla presentazione editoriale.
«Che cos’è la stupidità e come si manifesta? Come possiamo evitare quella degli altri e (ancor più) quella che, in percentuali variabili, alberga in ognuno di noi?
Il tema dell’insipienza umana – della sua natura, del rapporto che intrattiene con la cattiveria e l’infelicità – si dipana in questo breve saggio dall’impianto gustosamente filosofico: l’autore espone le proprie considerazioni con un andamento che occhieggia ai trattati di qualche secolo fa, con grazia e buona scrittura, e con argomentazioni sostenute dalle massime dei pensatori di tutte le epoche. Universale nei concetti ma non priva di attenzione ai dilemmi del mondo contemporaneo, questa lettura ha il potere di suscitarci il dubbio (buon segno!) e incoraggiarci al più robusto degli antidoti all’idiozia: la cultura».

………………………….….......………

Ricardo Moreno Castillo
Breve trattato sulla stupidità umana
Traduzione di Roberto Russo
Pagine 76, Euro 9.00
Graphe.it Edizioni


Biblioteca Oplepiana


Tante le cattive notizie che ci pervengono, eccone una che di sicuro non è la più grave, ma altrettanto certamente la sua perniciosità ce l’ha: in Italia si pubblicano circa 40 romanzi al giorno.
Sfugge ai radar la cifra dei libri di poesia perché qui l’autoproduzione è assai elevata e dallo stampatore di paese alla tipografia di città sono messi in giro librini e libretti, spessissimo, di furibonda bassezza.
Il guaio è l’ispirazione.
Impulso creativo da molti vissuto con funesto approdo volando tre metri sopra il cielo o andando dove li porta il cuore.

Ben venga, quindi, una corrente letteraria quale l’Oulipo con le sue severe regole giocose.
Gemello dell’Oulipo è in Italia l’Oplepo fondato a Capri, nel novembre 1990, da Ruggero Campagnoli, Domenico D’Oria, Raffaele Aragona, Lello per gli amici. Proprio a quest’ultimo alla sua inesauribile attività artistica e organizzativa, si deve una serie di convegni e pubblicazioni che in Italia sono all’avanguardia della ludolinguistica. Che come tutte le cose ludiche è cosa serissima incrociando semantica, matematica, enigmografia, poesia verbovisiva.

La Bibliografia Oplepiana in quest’anno che celebra Dante nel settecentesimo anniversario della morte, ha arricchito il numero dei suoi titoli pubblicando Il divino intreccio Metàfrasi infernale lipogrammatica di Stefano Tonietto (38 copie numerate da 1 a XXXVIII oltre a 125 copie numerate a 1 a 125) e Ridondante L’Oplepo per il Sommo composizione di testi di vari autori (anche qui idem a prima quanto a copie).
Ancora una cosa. Tonietto è già su Cosmotaxi per un suo precedente lavoro: “Letteratura latina inesistente”. Se ne volete sapere di più CLIC!

OPLEPO
Opificio di Letteratura Potenziale
Piazza dei Martiri 30
80121 Napoli
info@oplepo.com
tel. +39 081 764.2888
fax +39 081 764.3760


Dalle parole allo schermo (1)


In tutte le Tv del mondo le cosiddette “serie” si sono affermate.
Alcune di quelle produzioni registrano record d’ascolti anche in Italia.
Da noi è stato spesso detto, perfino da illustri firme di critici, che le “serie” erano robe non confacenti ai nostri autori e meno ancora al nostro sistema produttivo.
I fatti hanno smentito quei giudizi, prodotti italiani oltre a non avere nulla da invidiare a produzioni straniere sono state acquistate da grandi sigle, per fare un solo esempio dal gigante Hbo emittente televisiva statunitense a pagamento, via cavo e satellitare, di proprietà di Home Box Office, sussidiaria di WarnerMedia.
Un bel libro che illustra perché e come non c’è da meravigliarsi di quanto in tanti si sono meravigliati lo ha pubblicato Oltre Edizioni.
Titolo: Dalle parole allo schermo La fiction d’indagine in Italia
Ne è autore Massimo Carloni.
Docente di Lettere, fa parte del Gruppo 13 fin dalla sua fondazione.
Per Oltre edizioni ha pubblicato nel 2020 “Il caso Degortes” ideato e scritto a quattro mani con Antonio Perria esclusivamente via mail; il libro nel 2002 vince il Premio Tedeschi.
Più estese notizie biografiche QUI.

Dalla presentazione editoriale

«Questo interessante saggio di Massimo Carloni sulla fiction televisiva d’indagine in Italia, dagli albori, ai primi anni Settanta, a oggi, con un’attenzione particolare al lavoro di due sceneggiatori, Massimo Felisatti e Fabio Pittorru e del successo della loro serie televisiva “Qui Squadra Mobile”, costituisce il primo ampio studio su un fenomeno che oggi sta godendo il suo momento di maggior popolarità, sicuramente anche perché favorito dalla pandemia di Covid 19 che costringe il pubblico a stare molte ore chiuso in casa. L’attenzione alla fiction, in particolare italiana, accompagna quella al giallo italiano, che nel corso degli anni è cresciuto, non solo sul piccolo schermo e nel cinema ma anche nella narrativa di genere, spesso ispiratrice delle stesse serie (si pensi a “Romanzo criminale” di Giancarlo De Cataldo o a “I delitti del BarLume”, tratto dai gialli di Marco Malvaldi). Lo studio non trascura neppure i fumetti che, sempre negli anni Settanta, con la nascita di Diabolik, Kriminal e Satanik finirà per surclassare i prodotti d’oltreoceano. Insomma, con questo "La fiction d’indagine in Italia” Massimo Carloni, già autore di altre opere sulla storia del giallo, offre al pubblico italiano un’occasione unica per capire un fenomeno che, da opera d’intrattenimento ha finito, inevitabilmente, per condizionare la nostra vita».

Segue ora un incontro con Massimo Carloni.


Dalle parole allo schermo (2)

A Massimo Carloni (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quale principale finalità ti sei posto nello scrivere “Dalle parole allo schermo”?

Si tratta della tesi di laurea in Storia e critica delle arti e dello spettacolo. Massimo Felisatti è un autore che conoscevo dai tempi della mia prima laurea in Lettere sul romanzo giallo italiano contemporaneo; dopo aver contattato i suoi eredi (la vedova e il figlio), ho ottenuto di poter visionare alcune sceneggiature per la tv inedite. Da qui l'idea di analizzare il passaggio dal cinema alla pagina scritta alla sceneggiatura inedita per tv di un testo in particolare. Naturalmente ho ricostruito, sullo sfondo, l'ambiente letterario, cinematografico e televisivo del poliziesco in Italia degli anni Settanta.

Una tua definizione della differenza fra giallo e noir

Premesso che molti in Italia usano i due termini indifferentemente, come sostanziali sinonimi, direi che il giallo si concentra principalmente sul meccanismo dell'indagine e sulla scoperta del responsabile di uno o più delitti; il noir invece vede il singolo eroe/antieroe alle prese con vicende più o meno angoscianti, più o meno criminali, di cui può essere vittima o responsabile, che suscitano identificazione nel lettore/spettatore.

Sia l’editoria italiana della carta stampata sia quella televisiva della Rai al principio si sono modellate su quei generi così come prodotti negli States.
Fu un errore? Se sì oppure no, perché
?

All'inizio è chiaro che si prenda come modello l'esperienza artistica più riuscita; l'importante è non rimanerne schiacciato per anni e anni, a causa di un malinteso senso d'inferiorità o addirittura solo per pigrizia. Direi che in Italia la tv, dal tenente Sheridan in poi, il cinema, col poliziottesco, e la letteratura, da Sciascia e Scerbanenco in poi, sono riusciti nel liberarsi dall'ingombrante eredità USA. Basti vedere il successo planetario di serie come Gomorra.

I vecchi, gloriosi, gialli della tv italiana ancora in b/n e le serie di oggi in che cosa essenzialmente differiscono?

Nel ritmo, infinitamente più lento allora; nella recitazione, infinitamente superiore allora; nello sviluppo seriale, infinitamente più articolato oggi.

Con le serie tv americane e canadesi nasce la figura dello showrunner.
Perché in una serie supera per importanza quella del regista
?

Perché è lui il vero creatore del programma di successo; il regista retrocede al ruolo tipicamente anglosassone di "director" tanto che spesso lo diventa uno dei principali attori della serie senza che si noti il cambio di passo.

Nel libro è dedicato largo spazio ai ferraresi Massimo Felisatti (1939 – 2016) e Fabio Pittorru (1928 – 1995). Perché ritieni di rilievo i profili di questi due autori?

Per il fatto che in largo anticipo rispetto ai tempi, soprattutto in Italia, si muovono con disinvoltura in un universo transmediale in cui lo stesso prodotto può indifferentemente transitare su un medium o l'altro, naturalmente con gli aggiustamenti del caso dovuti al target di riferimento.

Nel tuo curriculum si legge che hai scritto “Il caso Degortes” con Antonio Perria esclusivamente via mail.
Puoi qui chiarire come in pratica avete proceduto
?

Abbiamo concordato, sempre via mail, la scaletta e la distribuzione in capitoli della vicenda. Ciascuno ha steso i capitoli di sua responsabilità (di solito i dispari Perria, i pari io; i primi ambientati in Sardegna, i secondi a Reggio Emilia o in Umbria) e li ha spediti al collega che li ha letti e che ha consigliato eventualmente gli aggiustamenti per evitare contraddizioni narrative. Alla fine, sono stati assemblati ma NON è stato effettuata un'armonizzazione stilistica, aiutati dal fatto che le diverse location con i rispettivi personaggi permettevano questa scelta.

………………………………..

Massimo Carloni
Dalle parole allo schermo
Pagine 188, Euro 18.00
Oltre Edizioni


Documanità (1)


John Cage: “Molti hanno paura del nuovo. A me spaventa il vecchio”.

La casa editrice Laterza, venerdì 23 luglio scorso nella serata d’esordio della Terza edizione di “Reflex. Istantanee del pensiero contemporaneo”, ha presentato Documanità Filosofia del mondo nuovo con l’intervento dell’autore Maurizio Ferraris.
Insegna Filosofia teoretica nell’Università di Torino, è presidente del Labont (Laboratorio di Ontologia) e dirige l’istituto di studi avanzati Scienza Nuova, dedicato a Umberto Eco, che unisce l’Università e il Politecnico di Torino e si occupa della progettazione di un futuro sostenibile tanto dal punto di vista culturale quanto da quello politico. Fondatore del ‘nuovo realismo’, nella sua lunga carriera ha determinato un nuovo corso di pensiero e di studi almeno in quattro ambiti: l’ermeneutica, l’estetica, l’ontologia e la filosofia della tecnologia. Visiting professor a Harvard, Oxford, Monaco e Parigi, editorialista di “la Repubblica”, “Neue Zürcher Zeitung” e “Libération”, autore di fortunati programmi televisivi, ha pubblicato oltre sessanta libri tradotti in tutto il mondo. Tra i più recenti, per Laterza: Manifesto del nuovo realismo (2012); Mobilitazione totale (2015).
Parecchi anni fa, Ferraris salì sulla mia taverna spaziale posta sull’Enterprise di Star Trek e avemmo una conversazione su argomenti suscitati da un suo libro di allora "Babbo Natale, Gesù Adulto. In cosa crede chi crede".


Dalla presentazione editoriale di Documanità.

«È giunto il tempo di smetterla di pensare al futuro come una proiezione del passato. La rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema.
Il web è il più grande apparato di registrazione che l'umanità abbia sinora sviluppato, e questo spiega l'importanza dei cambiamenti che ha prodotto. Basti pensare che sebbene più di un essere umano su due non possieda ancora un cellulare, il numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2,5 quintilioni di byte. Il numero di segni disponibile per la manipolazione e la combinazione diviene incommensurabilmente più elevato che in qualunque cultura precedente, e questo cambia tutto. Ecco perché comprendere la vera natura del web è il primo passo verso la comprensione della rivoluzione in corso, che genera un nuovo mondo, un nuovo capitale, una nuova umanità: anzi una documanità. Alla radicale revisione e alla costruzione concettuale dei nostri modi di guardare alla tecnica, all'umanità, al capitale è dedicato il nuovo e definitivo libro di Maurizio Ferraris, uno dei più influenti e originali filosofi contemporanei».


Documanità (2)

Dalla seconda metà del XX secolo si sono avuti i primi segnali, oggi visibili a occhio nudo, su come Il futuro abbia cambiato natura, adesso lancia perfino le prime occhiate sul transumano.
Ecco perché è di grande interesse il libro “Documanità” di Maurizio Ferraris (in foto) che eleva una voce rara a sentirsi ai nostri tempi dove sono in tanti a piangere su di un futuro in cui le macchine ci renderanno loro schiavi.
La genetica, le nanotecnologie, la robotica cognitiva, vanno a formare un futuro non più affidato all’immaginario fantascientifico ma a laboratori dove sono in corso ricerche che cambieranno non soltanto la società e le sue regole, le psicologie di gruppo e il pensiero politico, ma la stessa creatura umana.
Kevin Warwick, infatti, studia l'integrazione Uomo-Macchina innestando chips nel proprio corpo e pensa a nuove tappe del Cyborg Project dall'Università di Reading; secondo alcuni studiosi in un tempo meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di Spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli.
Molti studiosi sono divisi nel giudicare le prospettive del futuro di noi umani.
Al pessimismo, ad esempio, di Katherine Hayles (“Come siamo diventati post-umani”), o di Bill Joy, scienziato della Sun Microsystems, il quale sostiene che “il futuro non ha bisogno di noi uomini”, s’oppongono, per citarne alcuni, Chris Meyer e Stan Davis che nel libro “Bioeconomia” sostengono che la futura complessità non sarà incomprensibile e offrirà molti vantaggi; oppure Andy Clark, docente di scienze cognitive all’Università dell’Indiana, autore di ‘Natural-Born Cyborgs’: “Nel futuro continueremo a innamorarci, a desiderare di correre più veloci, di pensare più efficacemente… crescerà però l’abilità di creare sempre nuovi strumenti che espandono la mente”.
In tanti, però, nascono paure, fughe, terrore.
Nella presentazione, l’editore definisce "Documanità" il volume di Ferraris “definitivo”, mi pare l’aggettivo più giusto per quell’opera.


Documanità (3)


Le machine prenderanno il potere.
Queste cinque parole sono gridate da tanti in fuga davanti al futuro.
Gli stessi che parlano malissimo di ogni novità ben lieti, però, quando seggono dal dentista che un giorno ci fu chi inventò l’anestesia.
C’è perfino chi un tempo autorevole postumanista oggi ha ritrattato le sue teorie. È il caso di Nick Bostrom che illustra i pericoli possibili in un libro (“Superintelligenza, 2017) ammettendone però i tanti lati positivi. L’Intelligenza Artificiale (AI), afferma, è una delle più grandi promesse dell’umanità; grazie ai suoi sviluppi, attuali e futuri, saremo probabilmente in grado di fare cose che oggi sarebbero impensabili, vivremo meglio, e magari più a lungo e più felici. E tuttavia, aggiunge, c’è una nube minacciosa sopra il cielo dell’AI: siamo proprio certi che riusciremo a governare senza problemi una macchina «superintelligente» dopo che l’avremo costruita?
Ferraris lo smentisce con precisi esempi.
Laterza mette a disposizione dei lettori un podcast dell’autore di “Documanità” che presenta un profilo dell’opera.

Per ascoltare: CLIC!


Janis Joplin


ll 4 0ttobre 1970 il mondo perdeva una grandissima voce, quella di Janis Joplin.
Fu trovata morta nella stanza 105 del Landmark Hotel a Hollywood. Aveva 27 anni.
Overdose di eroina, questo il rapporto dell’autopsia.
Stava lavorando al suo nuovo album; il 5 ottobre avrebbe dovuto registrare le parti vocali di un brano dal titolo che, visto quanto accadde, appare decisamente inquietante: “Buried Alive In The Blues”.
L’oceano riceverà la dispersione delle sue ceneri.
Aveva debuttato nel 1967 nel gruppo “Big Brother & The Olding Company” con cui incise i suoi primi dischi e conobbe il successo.
«Sul palco faccio l'amore con venticinquemila persone, poi torno a casa da sola», così usava dire.

«Una voce» – scrive Claudio Fabretti - «appassionata e straziante, che era insieme ruggine e miele, furore e tenerezza, malinconia blues e fuoco psichedelico. Un canto unico e inimitabile in tutta la storia del rock. Uno stile che diventerà un riferimento preciso per intere generazioni di vocalist, da Patti Smith a PJ Harvey, da Annie Lennox degli Eurythmics a Skin degli Skunk Anansie».
E Riccardo Bertoncelli: «Era una musa inquietante, una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà».

Una buona trasmissione dell'anno scorso della Radio Svizzera Italiana dedicata alla cantante.

Stefano Marcucci ricorda: “Adorava Bessie Smith, la regina nera dalla voce etilica scomparsa prematuramente: Janis le comprò una lapide.
Quando toccò a lei, a 27 anni, dopo Brian Jones e Jimi Hendrix, Jim Morrison profetizzò: Io sarò il quarto”.
Ci prese. Morirà, infatti, a Parigi il 3 luglio 1971.

QUI Cosmotaxi ricorda Janis Joplin con uno dei suoi maggiori successi.


Italiani dovete morire (1)

La casa editrice Neri Pozza ha pubblicato una nuova edizione dalla prima di Longanesi di Italiani dovete morire Il massacro della Divisione Acqui a Cefalonia che ventuno anni fa ottenne il Premio Hemingway e il Premio Acqui Storia.
Questo testo, bello, necessario, vibrante, è opera di Alfio Caruso (QUI il suo sito web).di cui ho ragionata stima amplificata dalla lettura (non conoscevo la prima edizione) di questo volume che è arricchito di nuovi capitoli e nuove testimonianze.
Di Caruso già su questo sito notai in precedenti titoli di Neri Pozza: I siciliani e Garibaldi corruzione e tradimento – la capacità di trascinare il lettore nel vivo delle pagine storiche rievocate con puntigliosa precisione e senza mai abbandonarsi a romanzerie.
Questo libro riporta al centro della storia nazionale il massacro dei nostri soldati a Cefalonia e Corfù avvenuto nel 1943.
Circa la biografia di Caruso, così si legge in bandella “È nato a Catania nel 1950. Una laurea, una moglie, tre figli, una nuora, due nipotini, dopo quattro romanzi con Leonardo e Rizzoli si è dedicato con Longanesi alla storia italiana del Ventesimo secolo. Ne ha narrato l’escalation mafiosa (Da Cosa nasce Cosa, Perché non possiamo non dirci mafiosi, Io che da morto vi parlo, Milano ordina: uccidete Borsellino), l’abbondanza di misteri (Il lungo intrigo), i più importanti episodi della seconda guerra mondiale (Arrivano i nostri, In cerca di una Patria, Noi moriamo a Stalingrado, L’onore d’Italia).
Con Einaudi ha pubblicato due romanzi, Willy Melodia e L’arte di una vita inutile; con Salani Breve storia d’Italia.

Dalla presentazione editoriale
«Il libro racconta i vani sforzi condotti dal 2000 dalla magistratura militare e ordinaria di portare a giudizio i militari tedeschi che si macchiarono dell’immonda strage (oltre cinquemila soldati e ufficiali passati per le armi dopo la resa).
Purtroppo, i pochi responsabili individuati e ancora vivi l’hanno scampata. La giustizia della Germania ha fatto muro archiviando i procedimenti, assolvendo i colpevoli, negandone l’estradizione. Così il sottotenente del 98° Otmar Muhlauser, mastro pellicciaio in pensione a Dillingen sul Danubio, nel cuore della Svevia, si è sottratto alla condanna. Muhlauser comandava il secondo plotone, che cominciò la tragica giornata del 24 settembre fucilando il generale Gandin. Così l’ha scampata il caporale Alfred Stork, reo confesso: «Dovevamo sparare in tre su ogni ufficiale: uno in testa e due al petto. Al termine ero completamente sfinito. Abbiamo caricato i corpi su un vecchio traghetto, che si è diretto verso il mare aperto. Quando sono tornati abbiamo chiesto che cosa ne avessero fatto dei cadaveri, ci hanno risposto di averli legati insieme e gettati in mare».
Hanno tutti ripetuto di aver eseguito gli ordini ricevuti da Hitler. In ciascuno di loro il profondo convincimento bene sintetizzato dalla sentenza choc con cui la procura di Monaco ha respinto il desiderio di giustizia delle vittime italiane: «archiviazione perché i soldati italiani a Cefalonia erano traditori, e quindi andavano trattati come i disertori tedeschi: fucilati».
Per fortuna il ricordo dei tanti ragazzi (età media 24 anni), che s’immolarono in nome di un’Italia non più fascista e non ancora repubblicana, è tenuto vivo dai figli, dai nipoti, da quanti hanno scoperto in anni recenti il loro sacrificio. L’eccidio di Cefalonia, «una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato», così fu definito a Norimberga, non è in tal modo caduto nell’oblio, grazie anche alle pagine di questo commovente e straziante libro che ne ricostruisce la tragica vicenda».

Ancora una cosa. Il libro, oltre alla bibliografia, contiene un Indice dei nomi. Qualcuno dirà “Ma è cosa ovvia”. No, non lo è. Perché ormai da tempo, come numerose volte ho qui scritto, molti editori trascurano colpevolmente quello strumento, fino a pochi anni fa usato sempre nella saggistica; utilissimo al lettore, organo tipografico che prolunga la vita dei volumi.

Segue un incontro con Alfio Caruso.


Italiani dovete morire (2)

Ad Alfio Caruso (in foto) ho rivolto alcune domande.

Di quali nuovi materiali si avvale quest’edizione?

I pochi processi svoltisi in questi venti anni con il muro alzato dalla Germania per impedire che i responsabili dell’eccidio ancora in vita fossero posti di fronte alle loro responsabilità. E ancora: le testimonianze di figli, nipoti, pronipoti, che hanno continuato a coltivare la memoria per salvaguardare l’episodio più nobile della nostra guerra sbagliata. Infine alcuni sopravvissuti quasi centenari raccontano la loro drammatica esperienza a Cefalonia, in che modo riuscirono a salvarsi.

Quali le responsabilità da parte italiana nell’abbandonare l’Acqui al suo destino?

Nel marasma susseguito all’annuncio dell’armistizio, la Acqui pagò il prezzo più amaro per aver presidiato una lontana isola, praticamente non sfiorata fino dalla guerraal 14 settembre ’43. Con l’esercito italiano in rotta e privo di ordini, era impossibile aiutarla. L’unico che ci provò, il contrammiraglio Galati, fu stoppato dal comando inglese di Bari.

Tutta la Divisione fu d’accordo nella decisione di combattere i tedeschi?

Al 90 per cento. Per quanto pochissimi immaginavano che la decisione di non cedere i cannoni, questo era il vero perno della trattativa, avrebbe scatenato la furia belluina del tedesco. E ricordiamoci che la strage non fu opera delle SS o della Gestapo, ma di rispettati battaglioni della Wermacht.

La figura del Generale Gandin (Medaglia d’Oro al VM) non vede tutti d’accordo sui suoi meriti. Perché?

Nell’inseguire l’utopia di salvare i suoi 12mila "figli di mamma" e la carriera commise una serie di errori cedendo delicate postazioni strategiche. Si prestò per far capire al tedesco che gli sarebbe bastata una sorta di non belligeranza. Clamorosa sottovalutazione da parte di un generale ritenuto il maggior conoscitore della Wermacht. In ogni caso, però, la sorte della Acqui era segnata: al massimo avrebbe potuto resistere una settimana in più.

Perché i colpevoli sono riusciti a farla franca?

In Italia si preferì perseguire giudiziariamente per 15 anni gli ufficiali della Acqui, che si erano espressi per la resistenza. Una serie di processi scatenati dalla denuncia di due influenti padri, i cui figli erano caduti a Corfù e a Cefalonia. In più il desiderio dell’esercito era di chiudere una pagina, in cui la volontà di tanti soldati e di alcuni tenenti e capitani si era imposta su quella dello stato maggiore della divisione. Determinante il ruolo della dc: non desiderava guastarsi con i preziosi alleati politici della Sudtiroler Volkspartei, dove erano affluiti diversi fucilatori degli italiani, e più ancora con il governo della Germania Ovest.

Girano cifre diverse circa le vittime di Cefalonia e Corfù.
A lei che ha ben studiato quel tragico episodio chiedo: qual è quella cifra

Tra Corfù e Cefalonia la Divisione contava quasi 14mila effettivi. Il numero dei morti, compresi i 5mila trucidati dopo la resa, numero fornito dall’alto comando germanico, e i circa 3mila annegati durante i trasporti verso la terraferma, supera abbondantemente i 9 mila.
……………………………

Alfio Caruso
Italiani dovete morire
Pagine 400, euro 19.00
Neri Pozza


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