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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Le cento vite di Cagliostro (1)

La casa editrice il Mulino ha pubblicato Le cento vite di Cagliostro un saggio che va oltre la biografia perché riflette e commenta lo scenario storico nel quale agì Giuseppe Balsamo senza trascurarne il profilo psicologico fra poche luci e molte tenebre nelle quali visse quel noto personaggio.

Autore del libro: Pasquale Palmieri.
Insegna Storia moderna nell’Università di Napoli Federico II. Si occupa di rapporti fra media, politica e società, didattica storica e divulgazione. Con il Mulino ha pubblicato «La santa, i miracoli e la Rivoluzione. Una storia di politica e devozione» (2013) e «L’eroe criminale. Giustizia, politica e comunicazione nel XVIII secolo» (2022).

Dalla presentazione editoriale.

«Il conte di Cagliostro – identificato dalle autorità con il lestofante siciliano Giuseppe Balsamo – raggiunse la celebrità negli ultimi decenni del Settecento grazie a presunte doti divinatorie, abilità alchimistiche e militanze massoniche. Le sue imprese stimolarono cronache giornalistiche, libelli, satire, ritratti, caricature, romanzi, componimenti poetici. Viaggiò senza sosta da un paese all’altro e divenne prototipo del «divo» moderno. Appariva abbastanza stravagante da suscitare stupore, ma possedeva anche la tipicità necessaria per risultare credibile. Pasquale Palmieri lo racconta a partire da alcuni momenti decisivi della sua vita, segnati da procedimenti giudiziari che attirarono un’attenzione senza precedenti da parte dei media di tutta Europa.
Cagliostro assunse pose anticonformiste, ma perseguì con determinazione lo scopo di conformarsi ai valori dei ceti dominanti. Fu un autentico fenomeno mediatico, protagonista di uno spettacolo ricco di colpi di scena. La sua vicenda toccò argomenti cruciali come il funzionamento della giustizia, l’esercizio del potere, l’organizzazione del sapere e il rapporto con la natura. Alimentò dubbi ed enigmi, suggerendo solo risposte frammentarie e incomplete, sospese tra fede e razionalità, virtù e misfatto, redenzione e dannazione»..

Segue ora un incontro con Pasquale Palmieri.


Le cento vite di Cagliostro (2)


A Pasquale Palmieri (in foto) ho rivolto alcune domande

Quale aspetto del personaggio Cagliostro l'ha interessato tanto da dedicargli questo saggio?

Il mio incontro con Cagliostro è avvenuto negli anni dell’adolescenza. Cominciai a guardare cartoni animati e film dedicati alla sua figura, per poi allargare l’interesse a romanzi, fumetti, trasformandolo persino nel protagonista di un artigianale gioco di ruolo. In età adulta ho fatto della “Storia moderna” il mio mestiere e ho gradualmente cambiato la mia prospettiva: la mia attenzione si è quindi rivolta ai fenomeni politici, culturali e religiosi che circondarono questo personaggio alla fine del Settecento, durante il crepuscolo dell’antico regime. Le indagini “professionali” mi hanno portato a confrontarmi con una mole impressionante di documentazione. Il "conte di Cagliostro" trascorse gli ultimi anni della sua vita in prigionia nel Forte di San Leo, dal 1791 al 1795. Fu processato dal Sant'Uffizio per eresia, magia superstiziosa, alchimia. Divenne inviso alla Chiesa per aver fondato una loggia massonica di “rito egiziano”. Negli anni precedenti aveva raggiunto la celebrità trasformandosi in un autentico fenomeno mediatico, fino a diventare il più noto avventuriero della sua epoca. Ciò nonostante, la vera identità del personaggio rimase un enigma, così come il suo profilo morale. Era un avventuriero, un mago, un guaritore? Un “gran maestro” dotato di conoscenze inaccessibili alle persone comuni? Un profeta ispirato da Dio? O un illuso, un fanatico, un perfido truffatore? La ricerca della soluzione si era trasformata, passo dopo passo, in uno degli intrattenimenti preferiti dai popoli europei.

Qual è l'intento di questo libro?

Era forte la tentazione di proporre a lettrici e lettori una biografia classica, o tradizionale. Ho deciso di percorrere una strada alternativa: trasformare Cagliostro in un punto di osservazione per esplorare le tensioni che attraversarono l’Europa durante il crepuscolo dell’antico regime. Se infatti si guarda al contesto socio-politico in cui visse l’avventuriero, emergono tendenze paradossali. È significativo un nodo in particolare: egli costruì la sua fama sulla capacità di sfruttare il fascino dell’irrazionale, e lo fece proprio nell’età dei Lumi, segnata dal trionfo delle indagini razionali.
Il libro prova quindi a raccontare una storia che è, allo stesso tempo, individuale e collettiva. E lo fa entrando nelle contraddizioni di un intero continente: discutendo animatamente di Cagliostro, gli Europei colsero l’occasione per guardarsi allo specchio, ridisegnando i confini fra il lecito e l’illecito, fra il naturale e il sovrannaturale, fra la ragione e la follia, fra il bene e il male. Il “Gran Cofto” – così definito dagli adepti della sua loggia massonica – si trasformò in una sorta di foglio bianco, sul quale imprimere i sentimenti, le paure, le aspirazioni e i conflitti che attraversavano il corpo sociale.

Nel comporre questo testo qual è la cosa che ha deciso di fare assolutamente per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Partirei dal pericolo che ho deciso di evitare: iscrivermi nei registri dei sostenitori o dei denigratori del personaggio. L’universo di “oggetti narrativi” dedicati a Cagliostro è caratterizzato da un’esasperata polarizzazione fra innocentisti e colpevolisti. Il motivo ricorrente è facile da individuare: da un lato della barricata ci sono le storie dell’eroe, mentre dall’altro lato ci sono le storie del criminale. Non ci sono sfumature, né vie di mezzo.
Ho provato quindi a tracciare un itinerario nuovo, senza cedere a pregiudizi o ad ansie riduzioniste, riaprendo tutte le fonti primarie e azzerando le interpretazioni tendenziose. Mi sono inoltrato nel magma dei discorsi incentrati sull’esistenza reale o immaginata di Cagliostro, provando a comprendere quali significati abbiano assunto per chi li ha prodotti, letti, ascoltati, discussi, recitati, amplificati, tradotti in immagini, parodiati, distorti, o condivisi. I quattro capitoli del libro isolano le fasi cruciali della parabola dell’avventuriero – la nascita e la giovinezza, l’approdo alla celebrità, lo scandalo della collana della regina di Francia, il processo inquisitoriale – come si converrebbe a una biografia, ma finiscono in realtà per restituire un colorato bouquet di mitografie divergenti. Ciascuna di queste fasi è infatti al centro di uno scontro comunicativo fra diversi settori dell’opinione pubblica, portato avanti con determinazione e senza esclusione di colpi.

Quali considerazioni possiamo trarre dalla storia di Cagliostro?

Le considerazioni vanno bel oltre i singoli scandali giudiziari che coinvolsero l’avventuriero, toccando l’intero rapporto fra potere e comunicazione alla fine dell’antico regime. Un esempio eloquente è dato dal ruolo coperto dalla Rocca di San Leo (oggi in provincia di Rimini, non lontano dalla Repubblica di San Marino), nella quale Cagliostro fu condotto a partire dal 1791, dopo la condanna pronunciata dall’Inquisizione romana. Stando alle aspettative delle autorità pontificie, quel luogo di prigionia doveva apparire come una scatola chiusa, impermeabile, utile a mandare al mondo intero un messaggio esemplare: il detenuto si era arreso alle decisioni di Dio, viveva in silenzio il suo pentimento e sperava di salvare la sua anima.
Le cose andarono però in maniera molto diversa, visto che le pareti del Forte si mostrarono friabili, quasi indegne del loro aspetto arcigno. Il Gran Cofto cominciò infatti a urlare e ad accusare le guardie di tortura, così forte da farsi sentire anche nella piazza del centro abitato più vicino. Persino l’incolumità dei suoi confessori fu messa a rischio, visto che l’avventuriero – stando a quanto riferivano le gazzette dell’epoca – era capace di avvicinare la bocca al loro volto col pretesto di sussurrare parole alle loro orecchie, ma poi finiva per prendere di mira la gola e provava ad azzannarli.
In definitiva, l’intera operazione legata al carcere di San Leo si rivelò un fallimento, poiché non riuscì a evitare una fuga di notizie pericolosa per la reputazione della Santa Sede. I poteri costituiti avevano voluto mettere un punto all’intera vicenda, ma si trovarono travolti da un’ondata di nuovi interrogativi di difficile soluzione, capaci di diventare un’ossessione per l’opinione pubblica. L’universo narrativo incentrato su Cagliostro si era ormai allargato a dismisura, muovendosi sui confini friabili che separavano il vero dal verosimile, dal falso, o dall’ingannevole. Non potevano bastare reclusioni o sentenze per scalfire la sua fama, o per sottrargli il ruolo da protagonista che si era guadagnato sul palcoscenico del continente europeo.

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Pasquale Palmieri
Le cento vite di Cagliostro
Pagine 248, Euro 22.00
E-book Euro 14.99
il Mulino


Elogio dell'Ebraismo


Diceva Gesualdo Bufalino: “Quanto male è nato dal pregiudizio che il biasimo sia intelligente e l'elogio stupido”.
Se non fossi ateo, direi: parole sante!
Si pensi all’elogio dantesco di S. Francesco nel canto XI del Paradiso, all’Elogio della Follia di Erasmo, all’Elogio degli Uccelli nelle Operette morali di Leopardi, e i tanti elogi, spesso anonimi, alla modestia, all’eroismo, alla maternità, e, perfino, alla povertà, alla miseria, alla morte… ma in quest’ultimo caso francamente mi pare che si esageri costringendoci a gesti apotropaici.
Né mancano ai nostri giorni (escludendo quelli fatti per servilismo su qualche foglio) altri nobili scritti: Elogio della lettura di Vargas Llosa, Elogio della letteratura di Zygmunt Bauman, Elogio dell’imperfezione di Rita Levi Montalcini, Elogio della penna stilografica di Giuseppe Neri, Elogio della Disarmonia di Gillo Dorfles, «Elogio della ribellione di Lamberto Maffei.… e come non ricordare Umberto Eco che elogia Il riso di Franti considerato malvagità solo perché per l’Enrico deamicisiano il Bene sta solo nell’ossequiente ordine di cui si nutre.

Elogiando elogiando, qui si rende necessario un elogio alla casa editrice Fefè che ha intitolato una Collana proprio agli Elogi: si spazia tra il serio e il faceto, dalla Nonna alle Tette, dalla Cannabis allo Zero, fino all’ultimo tanto serio quanto scorrevole Elogio dell’Ebraismo - sottotitolo le radici di un’identità e il dialogo con il futuro - che s’interroga su quali siano le origini della miscela di religione, ritualità, cultura, fede, speranza, arte, letteratura che fanno l’identità del popolo ebraico.
Ne è autore Raffaele Mantegazza.
Professore di Scienze umane e pedagogiche al Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano Bicocca. Ha svolto ricerche sui temi della Shoah, dell’educazione alla morte e al dolore, dell’educazione alla Costituzione, dell’intercultura, della bioetica.
Ha pubblicato con Franco Angeli, Dehoniane, Castelvecchi, Elledici Leumann.
Per Fefè Editore ha pubblicato anche Lui/agli estremi del maschile (2022) e Compiti a casa/perché, quali e come, quanti e quando (2018).

Dalle pagine di “Elogio dell’Ebraismo: “Io sono un goy. Un goy è un “gentile”, ovvero una persona che non appartiene al popolo di Israele. Un non ebreo. Il che significa che mia madre non è ebrea, dal momento che l’appartenenza al popolo ebraico è matrilineare [..] L’ebraismo mi è venuto incontro prima di tutto con il volto dei libri di Primo Levi e di Elie Wiesel; l’ho incontrato, tenace e resistente, al fondo del progetto che lo voleva cancellare dalla faccia della Terra. L’ho conosciuto come forma di salvaguardia della dignità e dell’identità di tanti deportati e deportate. Nelle testimonianze dei deportati ebrei mi ha colpito, fin da ragazzo, come questa strana miscela di religione, ritualità, lettura, mantenesse una straordinaria forza di opposizione al nazismo e all’annientamento. Mi sono chiesto cosa ci fosse di così forte in questa identità così indebolita dalle offese e dalle aggressioni ma mai del tutto piegata. La mia idea di una pedagogia della resistenza è profondamente debitrice alla forza resistenziale dell’ebraismo".

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Raffaele Mantegazza
Elogio dell’Ebraismo
Pagine 142, Euro 15.00
Fefè Editore


L'infinito nel volto dell'altro

Fotografia. Ecco il pensiero di due fotografi diversissimi fra loro.
Helmut Newton: “Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, tre concetti che riassumono l’arte della fotografia".
Henri Cartier-Bresson: “Le fotografie possono raggiungere l'eternità attraverso il momento”.
Giovanni Fiorentino così si esprime in “Il sogno dell’immagine” (Meltemi, 2019): «La fotografia è l’estensione sensoria del corpo, una protesi per vedere diversamente, una macchina inconscia che produce rappresentazione automatica. Oggi, nella sua dimensione digitale, si presenta sempre più come straordinario artificio in grado di ridisegnare la vita quotidiana e gli ambienti di vita».

La casa editrice Mimesis ha pubblicato un libro di una grande fotografa, libro sulla fotografia ma che va oltre i lineamenti fotografici perché illustra un complesso percorso verbovisivo.
Titolo: L’infinito nel volto dell’altro Sul ritratto fotografico

L’autrice è Paola Mattioli
Fotografa di fama, vive e lavora a Milano dove ha studiato filosofia con Enzo Paci e si è laureata con Marisa Dalai Emiliani con una tesi sul linguaggio fotografico.
Tra le mostre e le pubblicazioni principali: Ungaretti (1972); Immagini del no (1974); Ci vediamo mercoledì (1978); Cellophane (1979); Statuine (1987); Donne irritanti (1995); Regine d’Africa (2004); Fabbrico (2006); Dalmine (2008); Una sottile distanza (2008).

Il libro esce a cura di Francesca Adamo storica e critica d’arte, specializzata in arte contemporanea e storia della fotografia presso l’Università degli Studi di Bologna. Attualmente collabora con alcune gallerie d’arte milanesi e con la casa editrice Mimesis.
La postfazione è di Raffaella Perna. Dal suo scritto ecco estratti alcuni passaggi.

«La parola gioca un ruolo cruciale nel percorso fotografico di Paola Mattioli, sin da quando, giovanissima, nel 1970 viene incaricata dall’editore Luigi Majno di ritrarre Giuseppe Ungaretti, per un progetto editoriale concepito per mettere in dialogo poesia e arti visive. Di lì a breve l’incrocio tra parola e immagine assumerà per Mattioli contorni nuovi nella serie Immagini del No (1974), dove i tanti “no” apparsi sui muri e i monumenti di Milano in occasione del referendum sull’abrogazione della legge sul divorzio sono all’origine di un racconto fotografico in cui scrittura e immagine si intrecciano inestricabilmente, in modo da dare consistenza alla qualità iconica della parola e al valore narrativo delle fotografie. Si tratta, infatti, di una serie di immagini che eccedono i confini della fotografia documentaria per approdare a esiti logo-iconici vicini alle esperienze di poesia visiva e concreta e alle intersezioni foto-testuali delle sperimentazioni dell’arte concettuale (…) Cosa vuol dire per una donna fotografare ed essere fotografata? Da dove proviene e come si costruisce l’immagine che la donna ha e dà di sé? (…) L’incontro con il femminismo per Mattioli è qualcosa che non comporta soltanto il cambiamento dei codici visivi con cui rappresentare il corpo e l’esistenza delle donne: è un incontro che scuote dalle fondamenta le sue certezze, trasforma il suo sguardo sul mondo e, quindi, i modi con cui lo legge e lo racconta fotograficamente (…) Nel libro “Linfinito nel volto dell’altro” troviamo il pantheon dei suoi riferimenti culturali e visivi, mescolati alle amicizie di una vita, a comporre un personalissimo album di famiglia: Enzo Paci, Ugo Mulas, Aldo Mondino, Sarenco, Luisa Muraro, Semi Camara, con i quali condivide tratti di strada più o meno lunghi, e anche maestri e maestre d’elezione, Luce Irigaray, Roland Barthes, Maurice Merleau-Ponty, Jacques Derrida, Alberto Giacometti, Georges Didi-Huberman, Jean-Luc Godard, Carla Lonzi, Jean-Christophe Bailly (…) “L’infinito nel volto dell’altro”, libro che apre uno squarcio sul laboratorio creativo di Mattioli e ci fa entrare nel corpo vivo della sua fotografia, dove le immagini si richiamano l’una con l’altra in un modo segreto e complesso, difficilmente codificabile».

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Paola Mattioli
L’infinito nel volto dell’altro
A cura di Francesca Adamo
Postfazione di: Raffaella Perna
Corredo fotografico b/n e colore
Pagine 128, Euro 14.00
Mimesis



Le voci dei telefilm


La casa editrice Oligo ha pubblicato "Le voci dei telefilm Doppiatori in Tv" con schede di oltre 100 interpreti.

Ne è autore Andrea Lattanzio
Nato a Verona, studioso di cinema, si occupa da anni di doppiaggio cinematografico e televisivo. È autore dìi “Il chi è del doppiaggio. Le voci del cinema di ieri e di oggi” (Falsopiano 2007), L'arte del doppiaggio. Doppiatori e direttori di doppiaggio (Felici Editore 2011), “Il dialogo nel doppiaggio. Doppiatori e adattatori-dialoghisti” (Felici Editore 2013), Le voci del cinema. Doppiatori e curiosità (Felici Editore 2016) e “Le voci dei cartoni animati. Doppiatori a Cartoonia” (Felici Editore 2018).

Lattanzio così scrive nell’Introduzione.
«Tra i molti lavori oscuri e difficili che fanno parte del mondo del cinema e della televisione, uno dei più importanti e allo stesso tempo meno riconosciuti è certamente il doppiaggio.
Un mestiere che ha una grande tradizione in Italia.
Dalle sale buie di registrazione i doppiatori italiani danno la loro voce agli attori stranieri con grande creatività e professionalità rendendoli fra noi popolarissimi. Ma non solo danno
la voce, riescono a saper creare il personaggio con le pause, con i controtempi e con le sfumature del vero interprete.
In questo mio nuovo lavoro sono inseriti i principali doppiatori del passato e del presente con dati biografici, filmografici, televisivi, radiofonici che hanno dato voce a moltissimi personaggi indimenticabili delle serie televisive dagli albori della televisione, anni ’50, ai nostri giorni.
Nel volume è inoltre proposto un aggiornamento delle principali manifestazioni italiane dedicate al doppiaggio con i doppiatori premiati nelle varie edizioni dal 1995 a oggi».

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Andrea Lattanzio
Pagine 175, Euro 15.00
Con corredo fortografico
Oligo Editore


Sesso Chiesa Streghe

La casa editrice Fefè ha pubblicato Sesso Chiesa Streghe sottotitolo una storia vecchia e nuova di femminicidi.

Ne è autrice Maria Mantello.
Di formazione filosofica e storica, è stata docente ed è giornalista e saggista.
Scrive per Micromega e L’Idée Libre. Ha collaborato a Lettera Internazionale, di cui ha fatto parte anche del Comitato scientifico. Dirige il periodico culturale "Libero Pensiero".

Dalla retrocopertina

«Modelli patriarcali sedimentati per secoli e accettati nell’abitudine creano quell’omertosa solidarietà sociale su cui la Chiesa, storicamente, ha costruito un sistema. Con la sessualità ridotta a pulsione/peccato da inibire contro la tentazione della strana creatura donna, ha creato anche fertile terreno per una vera e propria operazione di sterminio: la caccia alle streghe contro la discendente di Eva, porta del demonio, come teologi e santi inquisitori propugnavano. Il libro ricostruisce tutto questo e sottolinea come la dogmatica cattolica, proponendo il modello di donna costruito sul mito mariano, lo usa anche come baluardo contro i cambiamenti rivoluzionari della storia sociale e politica. Oggi come ieri, il virus maschilista persiste contro le nuove streghe, donne colpevoli di non obbedire agli schemi sessisti in cui le si vorrebbe ingabbiate».

Maria Mantello
Sesso Chiesa Streghe
Pagine 220, Euro 17.00
Fefé Editore


25 Aprile

Come sanno i lettori di queste pagine web, il sabato, la domenica, e altri festivi, Nybramedia non va on line.
Perciò anticipo ad oggi una nota destinata alla data che si festeggia domani.

Il 25 aprile (QUI il portale dell’Anpi) è una di quelle date che va scolorendosi sulle pagine della Storia nonostante l’amore e l’odio suscitati allora ancora ribollino sotto la pelle dei nostri giorni.
Si dice, giustamente, che anni democristiani, craxiani e poi berlusconiani e renziani abbiano ottuso coscienze e slanci, ma il primo colpo tirato alla Resistenza, a mio avviso, risale all’amnistia del 22 giugno 1946 promulgata da Palmiro Togliatti (allora Ministro di Grazia e Giustizia) che avrà suo collaboratore al Ministero Gaetano Azzariti Presidente del Tribunale della Razza!).
Decisioni che produssero il primo affronto ai combattenti per la libertà che videro uscire dalle galere fior di repubblichini, un “liberi tutti” di cui ancora oggi si risentono le conseguenze.
Quell’amnistia fu contestata sia da parte della base del Pci, sia dalle associazioni partigiane e anche dal fronte democratico non comunista che videro chiaramente il pericolo, puntualmente avveratosi, di una mancata defascistizzazione del Paese. Fu, infatti, seguita da quattro successive amnistie – varate da governi Dc – che allargarono ulteriormente in senso assolutorio i termini temporali e la casistica dei reati commessi dai fascisti.
Poca o nessuna meraviglia, quindi, se poi in successive anni, attraverso stragi e colpi di forza, nonché plurali, episodi di mancata vigilanza della Sinistra siamo precipitati nella voragine dei nostril giorni.

«Lo spirito che animava le donne e gli uomini della Resistenza fu una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, il senso di incarnare la vera autorità legale e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla, un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa.
A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari».

Italo Calvino, da “La generazione degli anni difficili”, Laterza, Bari 1962.

«La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c'è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline».

Pier Paolo Pasolini, Il caos, Editori Riuniti, 1979.


Pensare la realtà nell'era digitale (1)

La casa editrice Carocci ha pubblicato Pensare la realtà nell’era digitale Una prospettiva filosofica
Ne è autore Giacomo Pezzano..
PhD, è ricercatore in Filosofia morale nel Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione dell’Università degli Studi di Torino. Con i progetti Philographics: How to Do Concepts with Images e GraPhil: New Habits in Mind (programma EU H2020) studia i modi in cui i media e le tecnologie digitali possono riconfigurare gli abiti del pensiero filosofico. I suoi libri più recenti sono Filosofia delle relazioni (con Laura Candiotto; il nuovo melangolo, 2019), Ereditare (Meltemi, 2020) e 4 minuti. Filosofia per i tempi che corrono (Mimesis, 2022).

Dalla presentazione editoriale

«Con l’avvento della rivoluzione dell’informazione, siamo ogni giorno alle prese con tecnologie della mente, quali PC, fitbit, tablet, smartphone, action cam, assistenti vocali e simili, che ci hanno abituato a maneggiare “non-cose” come dati e informazioni, richiedendoci di elaborare un pensiero appropriato riguardo a questa strana materia “non-cosale”. La sua consistenza, paradossale e straniante, ci costringe infatti a rinegoziare i contorni di ciò che eravamo soliti considerare reale, esortandoci a domandarci non tanto se la realtà esista o no, quanto piuttosto a che cosa davvero ci riferiamo quando la pensiamo e ne parliamo. Il libro intende articolare un realismo al passo con i tempi, capace di rispondere alle esigenze congiunte del senso comune, della ricerca scientifica e della riflessione speculativa, e lo fa coniugando il rigore analitico-concettuale e l’attenzione ai fenomeni più quotidiani. Esplora così la possibile relazione tra la questione dell’essere, il problema della revisione concettuale, il feed dei social media, la scelta di utilizzare lo schwa e gli eventi climatici estremi. Infine, discute le virtù del realismo informazionale, spiegando che cosa realmente sono i dati e in che senso “il mondo è dato”».

Segue ora un incontro con Giacomo Pezzano.


Pensare la realtà nell'era digitale


A Giacomo Pezzano (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quale il principale intento di questo tuo libro?

Direi un doppio intento, uno più ambizioso e uno più minimale.
Il primo è spiegare perché pensare che la realtà potrebbe non essere fatta di “cose”, cioè di oggetti nettamente distinti e separati che permangono nel tempo, non è così folle come potrebbe sembrare, soprattutto quando ci ritroviamo ogni giorno a maneggiare e interagire con informazioni e dati, ossia con entità che anche intuitivamente ci si presentano come puramente immateriali e interattive. Come stiamo imparando a riconoscere, ciò che chiamiamo “il virtuale” certo non è reale nello stesso senso in cui lo sono una pena, una penna, un capello, un cappello, un gatto, un gateau di patate e compagnia bella; eppure, non perciò esso è irreale o meno reale: esprime infatti una realtà genuinamente informazionale. Bene, è questo tipo di realtà “non cosale” che volevo discutere e contribuire a rendere pensabile.
Il secondo è rendere più comprensibili alcune questioni filosofiche che i cosiddetti addetti ai lavori trattano ancora troppo spesso in maniera tanto sofisticata e astratta da finire per far perdere loro ogni legame con le situazioni più quotidiane che si vivono – e ho l’impressione che questo succeda perché sono gli stessi studiosi e ricercatori che si occupano di certi problemi teorici a smettere a un certo punto di riconoscere tale nesso. Insomma, non credo serva essere ostinatamente gergali od oscuri, abbandonando il traffico delle piazze per rifugiarsi nei resort esclusivi dei linguaggi tecnici e formali, per dire qualcosa di significativo e stimolante per il pensiero: proprio perché già di per sé la materia è strutturalmente complessa, bisogna tentare di tirar fuori un surplus di lucidità, cura e padronanza per riuscire a semplificare senza diventare semplicistici. Non dico di avercela fatta, ma quantomeno ci ho provato…
A ben pensarci, sai, forse il secondo intento è altrettanto se non più ambizioso del primo!

Nell’affrontare tipo e stile di scrittura da usare in un testo di grande impegno filosofico, com’è il tuo, qual è stata la prima cosa che hai deciso di fare assolutamente per prima e quale per prima assolutamente da evitare?

Riallacciandomi proprio a quanto appena detto, riassumerei dicendo che innanzitutto mi sono auto-imposto due imperativi categorici: "scrivi in modo da trattare il lettore, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo” e “scrivi in modo che i tuoi concetti possano diventare concetti rispettabili”, ossia “fatti capire!”, e “non banalizzare”. In fondo, si tratta dei due aspetti fondamentali a cui qualunque autore è chiamato a badare: rispettare tanto l’“a chi” scrivi quanto il “di che cosa” scrivi. Banale, apparentemente, ma meno di quanto si possa credere, soprattutto rispetto al primo imperativo e nella scrittura filosofica accademica: come si comincia a notare, anche per via della dinamica implacabile del “publish or perish”, sembra si tenda sempre più a perdere di vista che anche quando si scrive di filosofia, comunque ci si rivolge o dovrebbe rivolgersi a qualcuno. Si finisce così per mascherare questa svista con la figura generica e anonima del lettore esperto di turno e – penso ai paper – per nascondere ogni elemento di personalizzazione e riconoscibilità in nome delle esigenze della “blind review”, per la quale chi scrive non deve sapere chi legge e chi legge non deve sapere chi scrive. Sia chiaro, il meccanismo è utile a garantire una certa imparzialità nella valutazione della ricerca, almeno in linea di principio, ma occorre anche cominciare a chiedersi se vogliamo davvero accontentarci di testi prodotti da uno scrittore impersonale per un lettore impersonale: in fondo, se bastasse quello, tanto varrebbe delegare direttamente il discorso filosofico alle intelligenze artificiali!

Dopo avere illustrato varie forme del realismo, scrivi “Nell’esposizione privilegio l’ottica complessiva del realismo speculativo”.
Perché questa scelta? Che cosa differenzia il realismo speculativo dalle altre forme
?

In fondo, la scelta dipende dalla mia formazione e attitudine filosofica, che mi portano a credere che l'elaborazione concettuale possa godere di una certa “autonomia responsabile” sia nei confronti del sapere scientifico sia rispetto al senso comune. In questo senso, il realismo speculativo può permettersi di muoversi più liberamente negli spazi delle possibilità mentali rispetto – poniamo – alle esigenze di misurazione dei dati sperimentali e di quadratura dei conti della spesa, facendo per esempio giocare con più coraggio la razionalità immaginativa a fianco di quella argomentativa: certo, si corre il rischio di perdersi in speculazioni fini a se stesse (come quelle di certa finanza), ma riuscire a evitare questa deriva è ciò che distingue una buona speculazione da una cattiva. Sarò riuscito a rimanere dalla parte dei buoni? Chissà!

Perché hai voluto concludere il testo lasciando l’ultima parola all’Intelligenza Artificiale ChatGPT?
.
Sono tentato di chiederlo direttamente a lei, ma resisto! Il fatto è che volevo dare un piccolo esempio finale di una delle idee conclusive del libro: le intelligenze artificiali non vengono a noi per sostituire la nostra intelligenza naturale, ma rappresentano un nuovo strumento con cui e attraverso cui quest’ultima può configurarsi ed esprimersi – anche perché essa ha di per sé ben poco di naturale, se con “naturale” intendiamo la purezza da ogni contaminazione con le macchine. Infatti, le tecnologie digitali rappresentano una nuova fase nel processo di estensione o esteriorizzazione delle nostre facoltà che è caratteristico della nostra storia evolutiva: questo significa non che esse pensano o arriveranno a pensare al posto nostro, quasi concedessimo loro un appalto totale dei nostri processi cognitivi, ma che abbiamo l’occasione per imparare a pensare altrimenti, cioè per costruire una nuova “forma mentis”, esattamente nel senso in cui attraverso “cerebrotecniche” come la scrittura alfabetica e la stampa a caratteri mobili abbiamo scolpito la nostra mente.
In questo momento, ancora non abbiamo un’idea chiara del possibile significato e delle possibili conseguenze di simile processo di “ripensamento” e si delineano all’orizzonte diverse criticità e sfide: per esempio, nel momento in cui sto scrivendo le presenti righe, in Italia queste AI sono bloccate per questioni legate alla privacy, e più in generale si comincia a prestare attenzione non solo ai rischi per la proprietà intellettuale, la manipolazione delle informazioni, ecc., ma anche al tipo e alla provenienza geografica dei database che simili tecnologie utilizzano – una rete neurale addestrata a partire da dati provenienti largamente dagli USA e una che avesse accesso anche a dati “Made in Africa” darebbero vita a interazioni diverse. Tuttavia, la soluzione ai problemi non può essere bloccare ogni ricerca o impedire ogni utilizzo: è soltanto provando a usare ChatGPT & C. che si può imparare a farne “buon uso”. Diversamente, sarebbe come aver deciso all’epoca di bloccare lo sviluppo e la circolazione di una delle tecnologie della mente a noi oggi più cara… il libro! Vien forse da sorridere, ma non è mancato chi ha avuto una posizione simile ai suoi tempi! Ma mi fermo, per non fare spoiler sul prossimo libro a cui sto lavorando, dedicato all’umanità digitale…

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Giacomo Pezzano
Pensare la realtà nell’era digitale
Pagine 172, Euro 21.00
Carocci


Giornalismo culturale


Esisteva una volta la Terza Pagina. Isola di cellulosa bagnata dal Mar Inchiostro di particolare salinità derivatogli dalla presenza di elementi prevalentemente letterari, ma anche scientifici.
Per la cronaca la Terza Pagina comparve per la prima volta nel 1901 su un quotidiano di Roma, «Il Giornale d'Italia», diretto da Alberto Bergamini.
La Terza Pagina: quell’isola redazionale non c’è più, sommersa sia dall’aumentata foliazione dei quotidiani sicché a pag. 3 troviamo notizie di politica interna o internazionale, sia da una nuova strategia aziendale, soprattutto delle grandi testate, che preferisce tutto quanto appartiene alla letteratura, al cinema, al teatro, alle arti visive, ma pure alla riflessione su costume, moda, società, contenuto in “supplementi” che hanno anche la caratteristica di far sorridere l’amministrazione per la grande quantità di pubblicità che può essere ospitata in quelle numerose pagine… e poi c’è qualche buontempone che sostiene: ‘con la cultura non si mangia’.
Fu il Corriere della Sera il primo quotidiano a pubblicare un inserto chiamato "Corriere cultura".
Il giornalismo culturale è arte difficile tanto che ci sono programmi di studi in diverse università; la più prestigiosa pare sia l’Utrecht School of Journalism.
Con Internet sono nati molti siti dedicati all’informazione e alla critica di cose dei saperi.
Sia nel formato cartaceo sia in quello elettronico, due sono i principali mali, non solo da oggi, che affliggono quel tipo di giornalismo, entrambi di pari nocività.
L’uso di un linguaggio criptico che costringe a tenere accanto un vocabolario da sfogliare frequentemente (immagino con la gioia, e ghigno, del redattore che si sente gratificato da quel forzato esercizio del lettore) e l’altrettanto malvagio uso di fittissime citazioni precedute implacabilmente da un “com’è noto”. Sicché capita di leggere: “Com’è noto Ernst Cassirer afferma nel suo Substanzzbegriff und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Erkenntnsiskritik”… e ti senti come un pulcino capitato sotto la zampa di Godzilla.

Naturalmente le eccezioni esistono. Ne segnalo oggi una che in realtà non mi ha sorpreso perché conosco da tempo il valore di quella firma. Si tratta di Maria Teresa Carbone (in foto), la sua più recente pubblicazione (maggio ’22) è nel catalogo dell’editore Italo Svevo: Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell'era della postfotografia. .
Giornalista, autrice e traduttrice, ha coordinato la redazione della rivista online «alfabeta2» dal 2014 fino alla sua chiusura, nel settembre 2019. In precedenza, ha diretto la sezione Arti del settimanale «pagina99», ha lavorato alle pagine culturali del quotidiano «il manifesto» e curato alcune edizioni del festival romapoesia.
Da diversi anni si occupa di promozione della lettura in Italia e all’estero.
Fra le altre, una sua pubblicazione che ho cara sui miei scaffali è: 111 cani e le loro strane storie, uscito nel 2017 e l'anno successivo tradotto in tedesco.
Di recente mi è capitato di leggere un suo pezzo, splendido esempio di giornalismo culturale, intitolato Le case abbandonate a commento di un libro fotografico di Steven Seidenberg .
E qui una serie di sagaci interviste sul lavoro culturale oggi.


19 aprile: una data storica

Da un librino “Millelire” (“Viaggi Acidi” di Pino Corrias, Stampa Alternativa, 1992).

“Zero virgola cinque milligrammi di acido lisergico in soluzione. Tre gocce, un sorso. Si siede e aspetta. Sono le due del pomeriggio di un giorno speciale, il 19 aprile 1943: il chimico Albert Hoffmann, 37 anni, da cinque impegnato in esperimenti sugli alcaloidi contenuti nella segale cornuta, ha appena ingerito la prima dose di Lsd della Storia. Aspetta, e ancora non sa di avere appena socchiusa quella che Aldous Huxley, un decennio più tardi, avrebbe chiamato la Porta della Percezione. Ancora non sa che quella sostanza incolore avrebbe conquistato ragazzi californiani, musicisti anglosassoni, scrittori, filosofi di tante parti del mondo”.

Hofman nato nel 1906 è morto all’età di 102 anni nel 2008.


Orgoglio tossico


Orgoglio: è una delle parole che meno amo. A qualunque cosa sia associata.
Basti pensare ai suoi sinonimi: presunzione, superbia, alterigia, albagia, arroganza, boria, burbanza, vanto… tutte brutte parole, anzi maleparole. Mentre i suoi contrari: saggezza: umiltà, moderazione, semplicità.
Canta Vasco Rossi: ”Corri e fottitene dell'orgoglio / Ne ha rovinati più lui che il petrolio
L’orgoglio, insomma è velenoso, quando poi è indossato da chi pratica supremazia diventa tossico.

La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato Orgoglio tossico Abusi sessuali e gerarchie del potere
L’autrice è Martha C. Nussbaum.
Nata a New York nel 1947 è una filosofa e studiosa di filosofia greca e romana, filosofia politica, diritto ed etica, nonché delle connessioni tra queste discipline.
Il Saggiatore ha già pubblicato anni fa di Nussebaum “Disgusto e umanità” (2011) e “La nuova intolleranza” (2012).
Secondo il Foreign Policy Magazine è tra i cento intellettuali più influenti al mondo.

QUI un’intervista (con sottotitoli in italiano) che illumina parte del suo pensiero.

“Gli obiettivi di fatto pratici di “Orgoglio tossico” – scrive Olga Campofreda – “che in molti aspetti potrebbe anche essere definito un manuale, hanno radici profonde nella visione etica che la sua autrice ha del sessismo endemico nella società occidentale. Il titolo del libro nella sua versione americana è “Citadels of Pride”, letteralmente cittadelle, enclaves di un orgoglio che ha molto a che fare con il suprematismo. “L’orgoglio gioca un ruolo pericoloso nel razzismo e nella disuguaglianza di classe, come pure nella discriminazione sessuale, esso ci permette di comprendere che una forma di abuso è collegata alle altre e […] ci invita a riflettere su come un’inaccettabile subordinazione razziale e un’intollerabile subordinazione sessuale siano degli aspetti fra loro collegati nell’ambito di una cultura malata”.

L’incipit del libro: “La violenza sessuale non è solo un problema di individui «malati»
isolati. Essa è alimentata da caratteristiche che pervadono la società americana. Come quasi tutte le società, anche quella statunitense ha alimentato per lungo tempo una cultura di radicato privilegio maschile che considera le donne alla stregua di individui di livello subordinato, poiché non contano quanto gli uomini. Ma la situazione è persino peggiore. Come dimostrerò, questa cultura di fondo, persino quando viene insabbiata dietro a dichiarazioni di rispetto e di affetto (molte delle quali possono anche essere sincere), nega alle donne le caratteristiche fondamentali di una pari e totale umanità, trattandole, in determinati modi, come merci oppure oggetti a uso e consumo maschile”.

Dalla presentazione editoriale.
«Orgoglio tossico è un atto d’accusa alla cultura del potere maschile che giustifica e sostiene la violenza In questa essenziale riflessione filosofica e pratica, Martha C. Nussbaum mostra come il vizio dell’orgoglio sia un fattore determinante nella tendenza ancora troppo diffusa a trattare le donne come oggetti, negando loro pari rispetto e piena autonomia. L’autrice concentra la sua indagine su tre «roccaforti dell’orgoglio» in cui gli uomini che si accaparrano il potere si considerano al di sopra della legge: il settore giudiziario, quello artistico e quello sportivo. Nussbaum ci mostra come l’orgoglio perpetui l’abuso sessuale sistemico, il narcisismo e la mascolinità tossica. Il coraggio di molte donne ha portato ad alcune riforme, ma la giustizia è ancora imperfetta, a volte ostacolata dal denaro, dal potere o dall’inerzia, altre volte da un desiderio collettivo di vendetta.
Analizzando gli effetti della legge e delle politiche pubbliche sulle nostre definizioni di violenza sessuale in continua evoluzione, l’autrice chiarisce come le lacune normative permettano a questa violenza di proliferare indisturbata. Nussbaum offre però una speranza, immaginando un futuro in cui, mentre le sopravvissute agli abusi si mobilitano per raccontare le loro storie e le istituzioni attuano riforme eque, potremo riconoscere pienamente la pari dignità di tutte le persone».

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Martha C. Nussbaum
Orgoglio tossico
Traduzione di Laura Majocchi
Pagine 352, Euro 25.00
Il Saggiatore


Black box

Sempre più spesso s’incontrano nell’area delle arti visive opere che riflettono sul rapporto fra l’uomo e la tecnologia.
Scrive Lisa Giupponi: “Con il tempo il concetto di opera d’arte si è desacralizzato, rendendo sempre più labili i confini tra arte colta e cultura della comunicazione di massa: ogni nuovo strumento tecnologico è assunto al servizio dell’attività artistica che, intersecandosi con le condizioni storico culturali di ciascuna epoca ha portato a nuove forme di socializzazione dell’attività estetica, sia sul versante della fruizione che su quello della produzione (…) come nel Rinascimento, gli artisti tendono a (con)fondersi con gli scienziati, l’arte contemporanea si pone come un tramite tra l’apparato della ricerca tecnoscientifica e la società”.

E proprio dalla riflessione sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia è in corso presso la LABS Contemporary Art una personale dell’artista slovacco d’origine ma ceco d’adozione, Milan Vagač che espone una selezione di sue opere inedite.

La mostra è accompagnata da un testo di Domenico de Chirico di cui propongo un estratto.
«Nell’estetica contemporanea lo spettatore rimane sempre di più affascinato dalla superficie seduttiva dei device senza interrogarsi sui funzionamenti interni. Circuiti del computer, cavi e metalli preziosi: tutti questi elementi, nascosti sotto la copertura plastica dell’apparecchio, rimangono inaccessibili al fruitore comune perché nascosti all’interno di scatole nere (…) Ciò che interessa a Vagač è l'approccio che la maggior parte degli utenti ha nei confronti di un dispositivo che si presenta ai loro occhi come accattivante e progressista, privilegiandone, tuttavia, la sua superficie, da intendersi come involucro, disinteressandosi di ciò che esso contiene, delle parti fondamentali interne che rendono quell'oggetto ciò che realmente è, comprensivo dei suoi meccanismi più profondi che gli consentono di espletare le funzioni per cui è stato originariamente ideato. “Black box”, da cui il titolo della mostra, è, per l'appunto, una scatola nera, un sistema di cui non si conoscono i processi interni, tanto da poterla metaforicamente definire come una scatola magica. Il modo in cui Vagač guarda alla pittura è intrinsecamente questo, ovvero un luogo concreto e denso sia di riguardevole cura sia di instancabile fatica nonché di lunghi e articolati processi che collimano in superficie, unica zona visibile agli occhi dello spettatore. Attraverso i suoi lavori egli vuole mostrare ciò che sta sia dietro sia dentro, creando rilievi illusori, esponendo solo parzialmente la superficie e rivelando le strutture che altrimenti sarebbero nascoste, negando non già la superficie in senso ontologico ma facendo di tutta l'opera la superficie stessa».

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Ufficio stampa: Irene Guzman | mail: irenegzm@gmail.com | Tel. +39 349 1250956
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Milan Vagac
"Black box"
LABS Contemporary Art
Via Santo Stefano 38, Bologna
Informazioni:
Tel. +39 051 3512448 | Mob. +39 348 9325473
info@labsgallery.it
Fino al 3 Giugno 2023


Alfabeto cosmogonico


Alfabeto è parola ben nota, ma l’altra che segue non la pronunciamo tutti i giorni, sta come avverte il dizionario, per “Mito, dottrina, poema che forniscono un'interpretazione dell'origine e della formazione dell'universo” e, in contesti scientifici, è “la parte dell'astronomia che studia la formazione dei corpi celesti; talvolta, nel termine viene inclusa anche l'evoluzione di tali corpi”.

Alfabeto cosmogonico è il titolo di una mostra dedicata a Nanda Vigo (novembre 1936 – maggio 2020) al Museo d'Arte Moderna di Ascona curata da Alberto Fiz, realizzata in collaborazione con l’Archivio Nanda Vigo di Milano.

In questo video Vigo fornisce un racconto dei suoi esordi.

Dal comunicato stampa
«Sono oltre 40 le opere esposte, dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Duemila, in un percorso che analizza le fasi salienti della creatività di Nanda Vigo partendo dall’architettura che, grazie alla collaborazione con gli studenti dell’Accademia di Architettura di Mendrisio, presenta la ricostruzione in scala di due progetti architettonici concepiti nella prima metà degli anni Sessanta – il Monumento per i morti del Vajon e le Torri cimiteriali – fondamentali per comprendere la sua ricerca successiva.Lo spettatore ha poi modo di entrare in relazione con l’indagine forse più famosa dell’artista, quella legata alla cronotopia che rappresenta la fusione del tempo (cronos) con lo spazio (topos) attraverso la luce. In mostra si incontrano cinque Cronotopi e viene ricostruito l’Ambiente Cronotopico di oltre due metri e mezzo che consente di vivere un’esperienza immersiva. Non manca la Parete Cronotopica di oltre quattro metri, realizzata per l’occasione, in grado di modificare radicalmente la percezione del Museo.
Il dinamismo della luce, elemento fondamentale nel linguaggio artistico di Nanda Vigo, si manifesta attraverso i Deep Space, opere radianti o direzionali e prosegue con i Light Tree che sviluppano un’innovativa idea di riflessione sullo spazio dove natura e artificio trovano una nuova dinamica.
Il percorso prevede inoltre l’opportunità d’immergersi in un ambiente luminoso rosso e blu evocativamente intitolato Genesis Light dove la luce assume un aspetto trascendente.
Il desiderio di analizzare la versatilità di Nanda Vigo in base a una ricerca dove i linguaggi sono tra loro connessi, porta ad affrontare anche il tema del design in una sala che diventa un vero e proprio spazio abitabile dove si ritrovano le sue creazioni più famose tra cui il Mobile Cronotopo e la lampada Golden Gate.
La mostra si conclude con i due totem luminosi Goral e la proiezione di Venerezia, Venezia è un’illusione cosmica del 1978, un raro film realizzato da Nanda Vigo che la vede protagonista di una performance dove i differenti elementi della sua opera Alfabeto Cosmogonico interagiscono con l’architettura della città lagunare e con il corpo dell’artista»
.
La mostra è accompagnata da un catalogo bilingue (italiano e inglese) edito da Magonza con saggi di Alberto Fiz, Ilaria Bignotti, Fulvio Irace, Barbara Könches, Marco Meneguzzo e contributi dell’Archivio Nanda Vigo.

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Nanda Vigo
Alfabeto Cosmogonico
Museo Arte Moderna
Via Borgo 34, Ascona
Info: +41 (0)91 759 81 40
2 Aprile – 25 Giugno 2023


L'architettura nel cinema (1)

La casa editrice Lindau ha pubblicato un gran bel saggio intitolato L’architettura nel cinema .
Ne è autore Giorgio De Silva.
Laureatosi alla facoltà di Architettura del Politecnico di Torino nel 1971, fondatore della società De Silva Associati, ha lavorato per cinquant’anni nel campo della comunicazione pubblicitaria per grandi istituzioni pubbliche e private, per musei, teatri e mostre. Oltre al mestiere di tecnico pubblicitario, ha svolto l’attività di artista. Nel 1974 ha fondato con un gruppo di amici il Movie Club di Torino, un club senza scopo di lucro per la conoscenza e la promozione della storia del cinema.
Dal 2019 collabora alla sezione cinema della rivista di architettura «IN/Arch Piemonte».
È contitolare e direttore artistico dello Studio De Silva Associati.

Il libro si avvale della Prefazione di Riccardo Bedrone
.
Dalla presentazione editoriale.

«Un film è un’opera composta da diversi elementi. Dalla sceneggiatura alle scenografie, dai costumi alle musiche, è lungo l’elenco di ciò che concorre alla nascita di una pellicola. Per dare vita alla storia che si vuole raccontare, è spesso di fondamentale importanza la scelta di una particolare ambientazione.
Per questo volume, l’architetto e cinefilo Giorgio de Silva ha selezionato più di ottanta pellicole, presentandole dal punto di vista degli edifici che vi compaiono e dei luoghi in cui si muovono i personaggi. L’impatto visivo di numerosi film di ieri e di oggi si fonda sulla presenza di strutture iconiche, in grado di rappresentare l’essenza visiva della vicenda raccontata. Luoghi caratteristici, originali, unici, che evocano nello spettatore sentimenti e sensazioni indimenticabili e rendono immediatamente riconoscibile l’opera in cui compaiono.
Oltre ad analizzare le architetture presenti in capolavori della storia del cinema come Metropolis, 2001: Odissea nello spazio, Blade Runner, Arancia Meccanica e Matrix, l’autore riserva la sua attenzione anche a film meno noti, come Non si sevizia un paperino, Koyaanisqatsi e Architecture of Infinity. Registi del calibro di Kubrick, De Palma, Antonioni e Riefenstahl dialogano con i più grandi architetti della storia: Le Corbusier, Mies van der Rohe, Wright e molti altri».

Segue un incontro con Giorgio De Silva.


L'architettura nel cinema (2)


A Giorgio De Silva (in foto) ho rivolto alcune domande

Qual è la storia di questo libro? Com’è nato?

Quando il prof Riccardo Bedrone mi ha proposto di curare una nuova rubrica, “Architettura e Cinema” sulla rivista online di architettura in@arch-piemonte diretta dall’architetto Paola Valentini, sono stato restio ad accettare per la semplice ragione che pur considerandomi competente in entrambe le discipline non la reputavo cosa facile.
Cosa potevo scrivere di piacevole, coinvolgente, interessante senza annoiare e annoiarmi? Qualcosa che fosse diversa e lontana dagli scritti dei tanti direttori, dottori, professori, critici cinematografici e cultori dell’architettura, veri o presunti tali? Tutti autori di libri e articoli su riviste importanti di cinema e architettura? Diversa anche dalle schede ‘scientifiche’ e dalla documentatissima Wikipedia? Lontana dai molti siti che trattano lo stesso argomento, ben citati nell’introduzione al libro di Bedrone?
Cosa potevo dare in più? Che novità? Dovevo, ho pensato, cercare di interessare i miei colleghi architetti non proprio di gusti facili, non disponibili a banalità e luoghi comuni, sempre in polemica con il mondo. In più, senza sfoggiare opinioni e concetti complessi da puro e insopportabile intellettuale.
Comunicare e far divertire, sorridere, ironizzare è sempre stato, fin da ragazzo, alla base del mio vivere quotidiano, del lavoro professionale, letterario e artistico. Impossibile per me prendere sul serio la vita. La considero un incidente demenziale: un fatto che mi è capitato all’improvviso e mi perseguita da quando ho tre anni e so di essere. Però, girala come vuoi, alla fine ho accettato.
Pertanto, preso l’impegno, obtorto collo mi sono messo all'opera. Rassicurato dalla serietà dell’iniziativa ho subito scritto una quarantina di articoli, nel giro di qualche mese, garantendo così alla rivista tre anni di pubblicazioni coerenti stilisticamente, cosa per me, tecnico della comunicazione, fondamentale. Poi Ezio Quarantelli, editore di Lindau, generosamente mi ha proposto di raccoglierli in L’architettura nel Cinema. Nel libro ne sono stati pubblicati 80 su 120.

Ai fini della comprensione del tema trattato qual è la cosa che ha ritenuto necessaria fare per prima e quale necessaria per prima da evitare?

Far divertire e coinvolgere evitando il contrasto ideologico. Pertanto, ho cercato di dare un quadro complessivo estremamente divulgativo lasciando al lettore il compito di approfondire nel caso fosse interessato i diversi temi. Un testo aperto da interpretare liberamente ognuno dal proprio punto di vista.
Tra l’altro, quello di approfondire un film a diversi livelli è un’abitudine che ho da sempre. Il cinefilo un buon film — solitamente ama un regista o predilige un genere (horror, western, azione, guerra, thriller etc.) — lo vede e lo rivede nell’arco della sua vita divertendosi sempre. Proprio perché la sua visione non lo esaurisce mai, essendo difficile da cogliere nella complessità, nelle sfaccettature etico morali e non soltanto tecnico specialistiche.
Negli articoli mi sono concentrato doverosamente sull'architettura e l’urbanistica ma spesso anche su altri aspetti a me congeniali, filosofici ad esempio. Sul sacro e la sacralità dell’opera d’arte quale momento di espressione intuitiva, coscienziale, libera da ideologie e quindi non esecrabile per ragioni politiche e religiose.

Chi è il regista che le pare il più attento nel dare importanza all’architettura nell’ambientazione dei suoi film?

Parlare di un regista in particolare è difficile. Molte volte il film è ricco di architetture a causa della sceneggiatura e del soggetto. Tra i registi che più hanno utilizzato il paesaggio urbano, le architetture, al limite costruendole appositamente, rammento Lang, Hitchcock, de Palma, Godard, Pollack, Visconti, Tati.
Fritz Lang (1990-1976) è tra quelli che più hanno guardato all’architettura e alla complessità urbanistica della città. Forse a causa della sua formazione giovanile. Era figlio d’arte, di Anton Lang architetto comunale a Vienna. Dal 1907, assecondando i desideri del padre, iniziò a studiare architettura alla “Technische Hochschule” di Vienna per poi passare ad altre scuole d’arte. Ma quello che più conta è che rimase come impostazione, culturale, artistica, fondamentalmente un architetto. Questa cultura del progetto, del disegno, segnerà il suo modo di fare il cinema. Infatti l’importanza dell’architettura nei suoi film è primaria, non la si vede soltanto nel celeberrimo Metropolis (1927) ma in tutti i suoi lungometraggi in modo particolare nei suoi primi film.

Perché è Wright l’architetto più citato nelle pagine del suo libro?

Il cinema ha usato molto le opere di Wright per via della loro travolgente diegeticità, originalità e contemporanea classicità. È un dato di fatto che il grande maestro ha influenzato e influenza ancora oggi il gusto e le scelte di architetti e artisti in genere. Basta guardare alcune sue opere e metterle a confronto. Il Guggenheim Museum a NY, il Marin County Civic Center a San Francisco, la Fallingwater (casa sulla cascata), la Walker House a Caramel o la Hennis House a Los Angeles. Tutte organiche, realizzate sulla morfologia del luogo in cui sono collocate che siano nel centro di una città o in un territorio desertico; inimitabili, quasi sempre fatte con i materiali trovati in loco, progettualmente non trasferibili in altri contesti urbani o situazioni paesaggistiche. È evidente data, la loro iconicità, che siano utilizzate spesso dagli scenografi; pertanto, in molti dei bellissimi film di cui parlo nel libro.

Perché ha dato cospicuo spazio a Torino nelle sue pagine ?

Torino è la città dove abito e lavoro. Molti sono gli articoli in cui non solo a margine cito Torino, confrontandola con le altre grandi città del mondo, Milano, Roma, Parigi, Vienna, Los Angeles, New York, Londra, Tokio, Kuala Lumpur, Berlino. Per me, Torino, dal punto di vista urbanistico architettonico e del vivere piacevolmente, è la più bella e importante di tutte anche se nel dopoguerra, malgrado la presenza di bravi architetti urbanisti, a causa di pessimi politici nonché di un’imprenditoria egoista, è stata mal gestita con l’abbandono dell’idea aulica e aristocratica per privilegiare quella ideologica della città fabbrica e della eccessiva speculazione edilizia. È una città collinare, posta tra tre fiumi, da percorrere a piedi, ricca di parchi e giardini, viali alberati, piazze con importanti opere d’arte, sculture equestri, fontane, musei, palazzi aulici di grande valore progettuale. Una città che dà la sensazione di protezione, crea orgoglio di appartenenza. Scrivo anche delle belle architetture che bravi colleghi hanno costruito nel dopo guerra. Ma spesso provocatoriamente di situazioni orribili come la Piazzetta dedicata a Carlo Mollino, lo scempio di Palazzo Vela, lo stato di abbandono del Palazzo del lavoro in corso Unità d’Italia, la devastazione di Piazza Valdo Fusi, l’abbattimento del Centro Congressi di corso Stati Uniti, il palazzo di Torino esposizioni, o della bellissima via Ormea devastata dalle orribili firme di vandali… e molto molto altro.

Concludendo: come risponde a quelli (pochi in verità) che la definiscono “reazionario” ?

Mi definiscono reazionario perché spesso tengo a sottolineare di appartenere alla cultura tradizionale. Quella che si basa sulle qualità spirituali dell’individuo e non sulla quantità delle cose che possiede. Che “ancora guarda agli dei dell’Olimpo”. Quell’aristocrazia che considera sbagliato il livellamento democratico, dell’uno vale uno: la democrazia male interpretata di chi non riconosce in se stesso il sacro principio di uguaglianza comune a tutti. Più che altro non credo al raggiungimento di verità attraverso il ragionamento, le opinioni, il dialogo se mai, cosa non facile, attraverso la costante interiorizzazione. Non credendo nel libero arbitrio sono indifferente a qualsiasi spinta o tendenza innovatrice sul piano politico-sociale, per questa ragione tendo ad accettare compassionevolmente gli accadimenti.

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Giorgio De Silva,
L’architettura nel cinema
Prefazione di Riccardo Bedrone
Con illustrazioni in b/n nel testo
Pagine 400, Euro 32.30
Edizioni Lindau


Georges Perec: L'infra-ordinario

La casa editrice Quodlibet ha pubblicato la riedizione di un testo, uscito da noi nel 1994, dello scrittore Georges Perec (Parigi,1936 – Ivry-sur-Seine,1982), sempre con la brillante traduzione di Roberta Delbono, titolo: L’infra-ordinario.
Perec è una delle maggiori glorie della letteratura francese contemporanea. Raggiunge gli onori letterari con il suo romanzo d’esordio, “Le cose” ,1965.
"La cosa",(traduzione italiana di Sabina Sacchi, EDB) invece, è del 1967, anno in cui Perec entra a far parte dell'Oulipo.
Tra gli altri suoi titoli: “La disparition” (1969), “W ou le souvenir d’enfance” (1975), “Je me souviens” (1978), “La vita istruzioni per l’uso” (1978), il suo romanzo più famoso, tradotto in tutto il mondo.
Nato e vissuto a Parigi, figlio di ebrei polacchi (il padre muore in guerra nel 1940, la madre nel ’43 deportata e uccisa in un campo di concentramento nazista), servizio militare nei paracadutisti, psicoanalisi presso Lefèvre-Pontalis, Perec, fu a lungo archivista al Cners, e da sempre appassionato di enigmistica.

Nel nostro tempo infestato da tanti romanzieri giallisti o nientisti è una gioia ritrovare un autore come Georges Perec.
Perec, lo ricordo ai più distratti, è tra i protagonisti dell'Oulipo. .
“Dell’Oulipo, Georges” – scrisse Italo Calvino, oulipiano anch'egli – “era diventato il maggiore esponente, e almeno due terzi della produzione del gruppo erano opera sua”.
Alla domanda “Chi vorrebbe essere?”, postagli da uno studente che preparava una tesi sull’opera perecchiana, rispose “Uomo di lettere”; preciserà, poi il senso che volle dare a quelle sue tre parole: “Un uomo di lettere è un uomo il cui mestiere sono le lettere dell’alfabeto”.
Su quelle lettere ha lavorato creando una poetica ispirata prevalentemente a principii matematici, scacchistici, geometrici, ludonumerici e ludolinguistici.
Si pensi, ad esempio, a quel suo testo lipogrammatico di trecento pagine,La disparition, 1969 (La scomparsa, traduzione italiana di Piero Falchetta, Guida, 1995 - seconda edizione 2007) scritto senza mai usare la vocale "e" al quale fa seguito un secondo lipogramma, a specchio de “La Disparition”, intitolato “Le ripetizioni” nel quale, invece, utilizza come sola vocale in tutto il testo proprio la lettera "e".
Il discorso di Perec e degli oulipiani travolge tanti oziosi dibattiti fra convegni del Nulla e blog dello Strepito sui troppi, inutili, romanzi odierni. L’Oulipo, infatti, è, prima dell’era informatica, uno dei più avanzati esempi di letteratura che si avvale di tecniche scientifiche. Si pensi ai “Centomila miliardi di poesie”, di cui Queneau ci fa leggere solamente i dieci sonetti base che permettono di produrre cento mila miliardi di poesie, testi che per leggerli tutti occorrerebbero quasi duecento milioni di anni leggendo 24 ore su 24. Si arriva così alla realizzazione di un libro esistente ma impossibile da leggere tutto. Oppure si pensi al diagramma di flusso usato - in modo rigoroso e comico a un tempo – da Perec in “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento”, scritto breve che nella sua brevità contiene l’infinibile.

Già nel 1975, anno della pubblicazione in Francia di “L’infra-ordinario”, si era invasi e sopraffatti dall’uso scriteriato della definizione di “straordinario”, oggi è ancora peggio: da ricordare è solo lo "straordinario". Scrive Perec: “Quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento, l’insolito, lo straordinario: articoli in prima pagina su cinque colonne, titoli a lettere cubitali. I treni cominciano a esistere solo quando deragliano, e più morti ci sono fra i viaggiatori, più i treni esistono; gli aerei hanno diritto di esistere solo quando sono dirottati; le macchine hanno come unico destino quello di schiantarsi contro i platani: cinquantadue week-end all’anno, cinquantadue bilanci: tanti sono i morti e tanto meglio per l’informazione se le cifre non fanno che aumentare! Dietro a un avvenimento ci deve essere uno scandalo, un’incrinatura, un pericolo, come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare, come se l’esemplare, il significativo, fosse sempre anormale: cataclismi naturali o sconvolgimenti storici, conflitti sociali, scandali politici”.

Le pagine di “L’infra-ordinario” portano l’attenzione (e l’implicito invito a fare attenzione) all’infinito contenuto in piccole cose (una penna stilografica) o rapide immagini (un gatto che corre), cose e fatti che se trascurati sfuggiranno per sempre alle nostre vite, inghiottite dalle tenebre della mancata memoria.
Attenzione, ad esempio – com’è scritto nella presentazione editoriale – del quotidiano cibarsi, e Perec fa l’inventario, comico e indigesto nella sua riassuntiva catalogazione, di tutto ciò che ha ingurgitato nel corso di un anno, il 1974: “sette galline bollite con riso, settantacinque formaggi, sette zampini di maiale” ecc. Poi come scrivere automaticamente duecentoquarantatré cartoline, tutte diverse, di ordinari saluti estivi usando solo cinque frasi elementari in tre varianti.
Scrive Ermanno Cavazzoni su “La Stampa”: L’infra-ordinario, uscito in Francia nel 1989, sette anni dopo la morte di Georges Perec, raccoglie una piccola serie di scritti sparsi degli anni ’70, che parlano di ciò che è talmente ordinario e scontato, e sotto gli occhi di tutti, che neppure lo si nota durante la nostra vita corrente, né lo si pensa possibile oggetto di letteratura. (…) È il transeunte a cui non si presta attenzione, e che però è la veste che si mette il tempo, che genera poi nel ricordo la malinconia. Questa idea di ritagliare una fetta di tempo c’è anche in un buffo e stomachevole scritto, che è l’elenco dei cibi solidi e liquidi ingeriti durante tutto il 1974; che verosimilmente viene dall’accumulo delle ricevute delle trattorie dove pranzava, col tipico lessico da lista dei piatti; per cui risulta che nel ’74 ha mangiato: «nove brodo di manzo, una minestra di cetrioli ghiacciata ... un salume italiano ... quattro testina di vitello», e via via.

Dalla presentazione editoriale. Firmata E.C. in cui è facile riconoscere le iniziali di Ermanno Cavazzoni.

«Un libricino pieno di semplici genialità, come riesce di norma a Perec, parlando dell’ordinario quotidiano. Ad esempio, di tutto ciò che ha mangiato nel corso di un anno, il 1974. Poi come scrivere automaticamente duecentoquarantatré cartoline, tutte diverse, di ordinari saluti estivi usando solo cinque frasi elementari in tre varianti. E l’osservazione di una via di Parigi in sei date diverse, i negozi, le insegne, le scritte occasionali, le facciate, cioè tutto ciò che è sotto gli occhi, così ovvio che non lo si nota, ma esiste per un attimo poi sarà perduto per sempre. Questi scritti pubblicati tra il 1973 e il 1981 sono stati raccolti in libro nel 1989».

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Georges Perec
L’infra-ordinario
Traduzione di Roberta Delbono
Pagine 120, Euro 14.00
Quodlibet


Ipotesi Metaverso


In questi ultimi tempi sempre più ricorre la parola Metaverso.
È usata da molti, non sempre correttamente.
“Metaverse” è un termine coniato da Neal Stephenson nel libro appartenente alla cultura cyberpunk; titolo: Snow Crash (1992).
Il metaverso è una sorta di realtà virtuale condivisa tramite internet dove si è rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar, cioè un'immagine scelta per raffigurare la propria utenza in luoghi di discussione, in comunità virtuali.

Troviamo questa parola nel nome di una mostra che aprirà il 5 aprile a Roma: Ipotesi Metaverso. Come leggo in un comunicato, promette (o minaccia, fate voi) “altalene immersive, filosofia digitale zen, tecnonatura, sculture blockchain, realtà virtuale, letteratura generativa, intelligenza artificiale. Un’immersione nella mente dei creatori di mondi dal Barocco a oggi. Da Escher a Refik Anadol, da de Chirico a Pak, da Balla a Krista Kim, da Piranesi a Primavera De Filippi, artisti del passato incontrano i contemporanei pionieri dell’arte digitale”.
Il tutto a cura di Gabriele Simongini e Serena Tabacchi che circa la finalità della mostra intendono come affermano: “… sottolineare che la nuova dimensione ipertecnologica, si debba aggiungere alla vita reale senza sostituirla, proporre al visitatore, spesso chiamato in causa come ‘attore’ della mostra, un rapporto equilibrato, anche se talvolta spiazzante, fra ‘fisico’ e ‘digitale’. Una sorta di laboratorio per il futuro, con il fine di offrire un'esperienza che si suppone essere, per certi aspetti, simile a quella futura, nella coesistenza di percezione del materiale e dell'immateriale, fra stabilità e fluttuazione”.

«Ipotesi Metaverso», è voluta da Emmanuele F. M. Emanuele Presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale che a sua volta dice: «Ipotesi Metaverso, attraverso il dialogo fra 32 artisti storici e contemporanei provenienti da tutto il mondo permette di coniugare, la tradizione con il nuovo, con il mondo digitale, mediante l’apporto delle nuove tecnologie, le quali costituiscono una rivoluzione anche nella maniera di manifestare il sentimento che è da sempre alla base di ogni opera d’arte, in qualsiasi epoca».

Dal comunicato stampa

«Grandi artisti del passato incontrano i contemporanei sul terreno dell'immaginazione e della creazione di nuove dimensioni spaziali/esistenziali in una mostra che vedrà insieme opere storiche di Carlo Maratti, Andrea Pozzo, Giovanni Battista Piranesi, Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Fortunato Depero, De Pistoris, Giorgio de Chirico, Maurits Cornelis Escher, Victor Vasarely, Giulio Paolini, Giuseppe Fiducia, Pier Augusto Breccia, Alfredo Zelli, Cesar Santos, e opere site-specific di alcuni tra gli artisti digitali più innovativi e dirompenti della scena contemporanea italiana e internazionale: Robert Alice, Refik Anadol, Alex Braga, Joshua Chaplin, Sofia Crespo e/and Feileacan McCormick, Damjanski, Primavera De Filippi, fuse*, Fabio Giampietro con/with Paolo Di Giacomo, Krista Kim, Mario Klingemann, Pak, Joe Pease, Federico Solmi, Sasha Stiles, Pinar Yoldas.
Ogni spazio di Palazzo Cipolla diventerà un mondo a sé, all'interno del quale saranno definiti regole e spazi sempre diversi: un'altalena speciale darà al visitatore la sensazione di tuffarsi in un mondo parallelo, immagini digitali prenderanno improvvisamente corpo nella realtà fisica, un'opera immersiva visualizzerà la "filosofia digitale zen", una performance sonora creerà un'esperienza di moltiplicazione sensoriale, ci si immergerà in poesie generative, si incontreranno sculture costruite su tecnologia blockchain e opere interattive che uniscono scienze biologiche e tecnologie digitali con la creazione di una "seconda natura"».

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Ufficio stampa HF4
Marta Volterra: 340.96.900.12; marta.volterra@hf4.it
Valentina Pettinelli: press@hf4.it ; 347 449 9174

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Ipotesi Metaverso
Roma, Palazzo Cipolla, Via del Corso 320
Realizzazione di Poema SpA
Info: Tel +39 06 9837051
Da 5 aprile al 23 luglio 2023


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