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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Ripensare la scuola

Diceva Piero Calamandrei che trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere. Ecco forse perché abbiamo più sudditi che cittadini.
La scuola, infatti, in Italia per plurali ragioni storiche ha seguito modelli che riflettevano, e riflettono, un rapporto autoritario fra il sapere e i discenti avendo sembrerebbe la finalità di creare un Enrico Bottini: (il mediocre bambino della sciagurata classe del libro Cuore), lui, alunno d’ordine, ieri alle prese con giocattoli di legno oggi con i videogames ma sempre invidioso perciò già da piccolo tendente alla scalata sociale.
Talvolta alla scuola non riesce, specie oggi, a piegare gli animi più turbolenti e questi diventano intrepidi teppisti.
Sulla scuola sono stati versati fiumi d’inchiostro, talvolta con gorghi insidiosi, nei quali sono annegati – non in quanti sarebbe sperabile – autori e concetti.
Un buon libro, invece, è stato pubblicato dalla casa editrice Fefè è intitolato Ripensare la scuola riflessioni, idee, proposte di un Direttore didattico
Ne è autore Rodolfo Apostoli.
Già dirigente scolastico, insegnante a Brescia e in provincia di Bergamo, esperto in problemi giovanili, di integrazione, d’organizzazione di comunità. Sperimentatore in àmbito scolastico – anche in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma e CEMEA/Centri Esercitazione Metodi Educazione Attiva – di nuovi modelli organizzativi nelle comunità educative, nelle scuole dell'infanzia e primaria (classi aperte, tempo pieno, scuola senza classi, laboratori). Autore, inoltre, di saggi e articoli su giovani e tempo libero, giovani e gruppo, scuola dell’infanzia e dell’obbligo, modelli educativi.

Perché questo libro spicca per valore fra i tanti (buoni) volumi pubblicati?
Perché, come è stato notato, spesso si afferma che. è la scuola a doversi adeguare di volta in volta alla società; qui invece si chiede che sia la società ad adoperarsi per poter essere all’altezza della scuola.
Insomma, un radicale cambio d’osservazione.
Nel volume nulla si trascura circa i moduli più adatti per raggiungere quello scopo, perfino con una plurale esemplificazione d’immagini su come ristrutturare lo spazio degli ambienti scolastici per accogliere gli stimoli esterni.
Tanto c’è da lavorare per avere una nuova scuola.
I guai, infatti, partono da lontano. Voglio rilevarne uno (il ritardo dell’istruzione scientifica fin dalle prime classi) che investe a cascata tanti altri. Lo faccio riportando una riflessione di Lamberto Maffei che scrive: “Il pensiero idealista di Giovanni Gentile ministro della Pubblica Istruzione sotto il regime fascista e padre di una riforma della scuola italiana, ancora in piedi nelle sue linee culturali, ha causato danni disastrosi che si ripercuotono tutt’ora sulla cultura e sull’economia del nostro paese.
In più occasioni Croce ha sparato parole di fuoco contro la scienza e la matematica. Famoso e ben noto è il suo intervento al congresso della Società filosofica italiana, a Bologna (1911). Croce sostenne che la matematica e la scienza non sono vere forme di conoscenza e sono adatte solo agli «ingegni minuti» propri degli scienziati e dei tecnici e che «gli uomini di scienza (…) sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti», da paragonare agli artigiani incapaci di avere o analizzare concetti profondi”.

Raffaele Mantegazza (lo troviamo nel catalogo Fefè autore di Elogio dell'ebraismo) scrive nella Prefazione che si è tentato di “scaricare sulle spalle della scuola competenze e responsabilità che non le sono proprie; “tanto c’è la scuola”, “mal che vada ci penserà la scuola”, come se la scuola fosse una specie di tappabuchi, come se fosse un’istituzione alla quale chiedere sempre di più e nella quale investire sempre di meno; educazione alimentare, educazione stradale, prevenzione alle dipendenze, tutto ciò che veniva in mente era appaltato alla scuola, ovviamente senza fornire risorse, anzi sottraendole (…) è agghiacciante che nel gergo ministeriale i “plessi” diventino “punti di erogazione del servizio”, come se fossero distributori di benzina). A questo drammatico andazzo il libro di Apostoli si contrappone non in modo ideologico, non rimanendo nel campo dell’astrazione, ma restituendo esperienze possibili; e soprattutto dimostrando che quando si parla di emozioni, di lavoro di gruppo, di condivisione dell’apprendimento, di educazione tra pari, ci sono argomenti scientifici e razionali per dimostrarne l’efficacia”.

Dalla presentazione editoriale

«L’idea di questo libro nasce dall’esperienza diretta sul campo stimolata ancora di più dalle difficoltà indotte dal Covid-19. La proposta ha radici antiche in Mario Lodi e don Milani, integrata con le più attuali pratiche che indichino modelli di scuola diversi. Al centro, in forma attiva, è sempre il bambino, ma diventano protagonisti lo sviluppo delle capacità relazionali, la didattica laboratoriale e un’organizzazione di gruppo».

…………………………………..........

Rodolfo Apostoli
Ripensare la scuola
Prefazione di Raffaele Mantegazza
Pagine 146 * Euro 15.00
Editore Fefè



Poesia Sonora in audiolibro

Nell’antichità si leggeva ad alta voce. Sia in solitudine e sia per ascoltatori. Agostino d’Ippona, nelle sue Confessioni, esprime meraviglia nel vedere Ambrogio (il futuro santo) leggere "tacite".
Quando sia avvenuto il passaggio alla lettura silenziosa se nell’alto Medioevo o prima ancora è questione irrisolta dibattuta dagli storici e dai sociologi della letteratura, ma che all’origine la lettura avvenisse vocalmente vede tutti d’accordo.
La storia del libro – che ha inizio prima della carta, le sue origini le troviamo su legno, su papiro, su bambù – conosce varie epoche e fasi tecnologiche. Passando attraverso il determinante momento gutenberghiano si arriva fino ai supporti informatici ad oggi. Ai nostri anni appartiene anche l’audiolibro che inevitabilmente porta alla mente, in moderne forme, le origini della lettura e dell’ascolto.
Mentre in Italia va affermandosi, sia pure faticosamente, negli Stati Uniti il libro da ascoltare è un prodotto emerso già da tempo.

All’audio libro è stato riservato la lettura prevalentemente di classici, ecco perché ha una duplice importanza la pubblicazione di La Voce Della Poesia Vocoralità del Novecento che propone storiche esemplificazioni della poesia sonora veicolate da questo strumento tecnico

In foto i quattro dat registrati nel giugno del 2000 oggi audiolibro.

Protagonista di questa produzione è Enzo Minarelli> che da anni, sul piano internazionale, è autore presente nei maggiori festival e rassegne. Inoltre, è anche custode e promotore delle performances di altri artisti.
Ha detto di lui Renato Barilli: "La qualifica che più gli compete è quella di poeta, magari risalendo nell'occasione al significato etimologico della parola, per cui si tratterebbe di un "fabbricatore" col materiale più nobile a disposizione dell'uomo qual è la parola, nei suoi due volti, sonoro e grafico".

CLICper ulteriori informazioni su “La Voce della Poesia”.

La Voce Della Poesia, audiolibro, New York, Pogus, 2023.

Questo audiolibro è stato registrato presso lo studio dell’autore nel giugno del 2000, poi riadattato, riscritto e pubblicato in cartaceo presso Campanotto Editore, Udine nel 2008.


In principio era ChatGPT

La casa editrice Apogeo è tra le più attente a seguire gli sviluppi teorici e le applicazioni pratiche della cultura digitale. Lo dimostra, ad esempio, la recente pubblicazione di In principio era ChatGPT Intelligenze artificiali per testi, immagini, video e quel che verrà.
Gli autori: Mafe de Baggis e Alberto Puliafito.

De Baggis è pubblicitaria, scrittrice ed esperta di media digitali, da trent’anni studia il modo migliore per usarli senza lasciarsi sopraffare. Lavora come consulente di comunicazione per aziende piccole e grandi, per liberarne le energie e aiutarle a raccontarsi in modo più consapevole. Già autrice di #Luminol (Hoepli, 2018) e di Libera il futuro (Enrico Damiani Editore, 2020).

Puliafito è giornalista, regista, produttore, analista dei media, direttore di Slow News.
Con una formazione in ingegneria biomedica, oggi si occupa di comunicazione interculturale e lavora all'intersezione fra tecnologia, informazione e media digitali.
Ha scritto, insieme a Daniele Nalbone, Slow Journalism (Fandango Libri, 2019).

Il libro si apre con un saggio su che cos’è l’intelligenza di Nello Cristianini; di lui ho recensito su questo sito il suo più recente lavoro intitolato: La scorciatoia.

La più bella definizione dell’IA l’ho trovata finora scritta da Carola Barbero: “… ci aiuta e ci confonde, ci isola e ci connette, ci delude e ci stupisce, registrando tutto senza capire niente”.
Plagiando me stesso, ripeto quanto scrissi tempo fa. In quest’epoca delle ‘psicotecnologie’ (copyright Dennis De Kerchove), l’Intelligenza Artificiale è diventata protagonista sulla stampa quotidiana e periodica, alla radio, alla tv, sul web, impersonando al tempo stesso ogni Bene ed ogni Male.
Nello scenario contemporaneo la digitalizzazione ha avuto un impatto eccezionale con una serie di progressi tecnologici: l'Internet delle cose, la blockchain, l'automazione robotica dei processi, i veicoli autonomi, l'analisi dei big data, la sterminata memoria d’Internet.
L’IA è tutto questo più altro e proietta l’umanità in un mondo inimmaginabile appena pochi anni fa suscitando commenti che vanno dal catastrofico all’entusiastico.
In principio era ChatGPT aiuta a capire che cos’è l’Intelligenza Artificiale e le forme del suo possibile futuro.

Nell’Introduzione i due autori così scrivono: “Le intelligenze artificiali sono al nostro servizio da molto tempo, svolgendo silenziosamente compiti che permettono alla tecnologia – per come la conosciamo – di funzionare. Ce ne siamo accorti solo nell’estate del 2022 per un motivo molto semplice: hanno iniziato a fare qualcosa che sappiamo fare anche noi. Rispondere a una domanda. Disegnare. Scrivere. Impegnatissimi a cercare di capire se comprendano o meno, lasciamo sullo sfondo loro capacità intrinsecamente umane, ma decisamente poco praticate da troppi umani. L’apprendimento. La gentilezza. La facoltà di riconoscere i propri errori. La velocità nell’imparare dai propri errori. Le allucinazioni. Le contraddizioni (…) Noi umani in questo momento stiamo correndo il rischio di ricreare la stessa situazione di trent’anni fa, quando artisti, umanisti e ricercatori si sono sottratti alla conversazione in corso sui media digitali, considerati sciocchi, prosaici e indegni dei loro pensieri (…) Abbiamo la possibilità di educare le macchine e la rifiutiamo sdegnosamente, proteggendo il nostro orticello. Se la nostra ti sembra una posizione assurda, seguici in questo viaggio e poi parliamone”.

Dalla presentazione editoriale.

«Un mondo di intelligenze che possono fingersi umane. Centinaia di milioni di posti di lavoro a rischio nel mondo, una rivoluzione nel modo di informarsi, imparare, studiare e scrivere. L'impossibilità di distinguere tra vero e falso non solo nei testi ma anche nelle foto, nei video, nel suono. Se fosse un film di fantascienza sarebbe un horror, eppure la scelta, non solo per il lieto fine, sta a noi: possiamo allearci con le macchine oppure combatterle.
In questo saggio Mafe de Baggis e Alberto Puliafito scelgono di mostrare cosa succede a chi decide per la prima possibilità. Come useremo queste macchine? Elimineranno il lavoro o solo la fatica del lavoro? Come scegliere quali usare senza essere obsoleti il giorno dopo? Quale metodo ci deve guidare? E ancora: come devono essere regolate? Le scuole dovranno proibirle o usarle? Saranno uguali per tutti o personalizzabili?».

………………………………

Mafe de Baggis
Alberto Puliafito
In principio era ChatGPT
Prefazione di Stefano Gatti
160 Pagine * 19.00 Euro
eBook con DRM 6.49 Euro
Apogeo


Vera gioia è vestita di dolore (1)

Oggi, dopo la pausa estiva che si concede ogni anno, torna online Cosmotaxi presentando un libro della casa editrice Adelphi, un libro che alla qualità letterari accoppia una lucente documentazione sulla particolare epistolografia di una grande scrittrice italiana del secolo scorso.
Titolo: Vera gioia è vestita di dolore Lettere a Mattia. di Anna Maria Ortese.

Il volume è a cura di Monica Farnetti e si avvale di una nota di Stefano Pezzoli prezioso custode delle lettere a Mattia, tutte finora inedite, così come le fotografie riprodotte nel volume; materiali che appartengono all’archivio privato della famiglia Pezzoli di Bologna.

Dalla presentazione editoriale

«Nel maggio del 1940, Anna Maria Ortese incontra a Bologna Marta Maria Pezzoli, giovane studentessa universitaria che gli amici chiamano Mattia. Nasce fra loro un’intesa, un’intimità che, come precisa la Ortese, è tenerezza di sorelle: “Ti sono così grata di essermi vicina in questo tempo difficile – sola sorella”. Una tenerezza tanto più intensa in quanto fondata sulla dissimmetria. Mattia è malinconica, sollecita, assidua, percettiva, Anna Maria mutevole, tempestosa, non di rado silente, caparbiamente intenta a coltivare la sofferenza, sua “vera patria”, a trasformarla in conoscenza, a trasfonderla in un lavoro che pure reca con sé dubbio e tormento: “Non ho sete che di gioia, di luce, d’amore. E tutto questo non c’è, fra le carte. Scrivere, è uguale al canto raccolto e disperato del mare, nelle insenature segrete. È il rifugio triste, non è la vita. Vorrei essere dove voi tutti siete” – ma capace anche di trasmettere all’amica la sua irrequietezza visionaria, in lettere di fiammeggiante bellezza».

Alcune perle:
“Ho grande diffidenza delle creature ma so che a volte esse consolano”.

“Soprattutto nel dolore bisogna lavorare per farne dolcezza”.

“Io sono come un albero che vuole trovare in cielo le sue radici”.

Segue ora un incontro con Monica Farnetti.


Vera gioia è vestita di dolore (2)

A Monica Farnetti (in foto) – curatrice di questo volume Adelphi e autrice delle pagine “Poetiche della sorellanza in Anna Maria Ortese”, in “L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica”, con Giuliana Ortu, editore Cesati – ho rivolto alcune domande.

Chi era Mattia, Marta Maria Pezzoli?

Marta Maria Pezzoli, affettuosamente chiamata Mattia, è una delle prime amicizie femminili della Ortese di cui si sappia. Si conoscono nel 1940 (Anna Maria ha dunque ventisei anni, Mattia quattro di meno) e l'epistolario documenta la loro relazione fino al gennaio del 1944. Dopo di che, le due ragazze escono l'una dalla vita dell'altra, e su questo “finale” non abbiamo che ipotesi.
Mattia è bolognese, di buona famiglia, liceo classico prima e facoltà di Lettere poi (dove si laurea nel 1943 con una tesi in Letteratura italiana, relatore l'autorevole Carlo Calcaterra), e appare dotata di una sensibilità a tutto campo: per gli esseri umani, la natura, la lettura e la scrittura (è autrice di poesie, che tiene però nel cassetto e che vedranno la luce a cinquant'anni esatti di distanza dalla composizione del primo testo). Il nipote Stefano Pezzoli, che la racconta in una bella nota biografica pubblicata a corredo dell'epistolario, la descrive «incline a raffigurarsi come una donna sola, chiusa in se stessa e in guerra contro un mondo impenetrabile e ostile», che la condurrà fra l'altro all'appartata professione di bibliotecaria svolta interamente alla Biblioteca Universitaria di Bologna. Tuttavia le lettere che la Ortese le invia, amorosamente da Mattia conservate (e che a differenza delle sue proprie, che la Ortese ha perduto, costituiscono l'unica voce udibile di questo scambio), rivelano una disponibilità e una generosità affettive non indifferenti, favorite dall'affinità che ella evidentemente avverte fra il proprio modo di stare al mondo e quello dell'inquieta e già dotatissima “Toledana” (che è, come noto, uno dei nomi che la Ortese si dà nel romanzo autobiografico, relativo soprattutto ai suoi anni giovanili, Il porto di Toledo).
Secondo i miei calcoli (basati soprattutto, per quel che riguarda la biografia ortesiana, sui dati sempre vacillanti che la scrittrice dissemina nelle sue opere e interviste), l'amicizia con Mattia precede di poco quella con un'altra figura femminile importantissima nella vita della Toledana, Adriana Capocci Belmonte (nel romanzo, che rivela l'autentica passione della scrittrice per lei, chiamata Aurora Belman); mentre, come lo stesso epistolario certifica, la corrispondenza con Mattia corre parallela a quella, di più antica data e che registra in questi anni la sua fase più intensa, con un'altra amica geniale quale è la scrittrice Paola Masino.
Sono gli stessi anni in cui via via si sfalda e si disperde, per ragioni sempre drammatiche, il nucleo già compatto di sorelle e fratelli Ortese, garanzia di quell'infanzia strampalata e felicissima resa memorabile dal romanzo autobiografico. Ed è come se la Ortese provvedesse – così la vedo io – a colmare quel vuoto, peraltro immedicabile, con altri rapporti nei quali investire quanto ricevuto (e sperimentato, e appreso) dentro al nucleo familiare. Di lì a poco stringerà altre relazioni importanti, quali quelle con gli amici e le amiche del cosiddetto “Gruppo Sud” a Napoli (di cui anche nel celebre e famigerato Il mare non bagna Napoli) e del gruppo de «L'Unità» a Milano (coprotagonista dei romanzi per l'appunto “milanesi”, Poveri e semplici e Il cappello piumato). Ma le amiche degli anni della sua formazione restano, credo, esperienze fondamentali
.
Che cosa ci dice questo epistolario del carattere di Anna Maria Ortese?

Ci dice tante cose, naturalmente contraddittorie e, altrettanto naturalmente, sorprendenti. Ci parla per esempio dell'insicurezza con cui Anna Maria si muove, e anche in futuro si muoverà, sul terreno affettivo, rammaricandosi e scusandosi di continuo della propria inadeguatezza (tarda a rispondere, macchia il foglio, invia cartoline invece di lettere, non trova la penna e scrive a matita, è troppo sintetica, troppo egocentrica, troppo febbricitante, troppo sofferente...) e fa luce, come ho scritto nella postfazione, «su una giovane donna che si avventura negli spazi dell'alterità in cerca della misura e dei confini del proprio io, e va addestrandosi a negoziare il senso di sé alla luce dei valori di fedeltà, dolcezza, rigore, ammirazione e gratitudine connessi all'amicizia». Per contro, ci mostra “una giovane donna” già molto centrata sul desiderio e sul progetto di essere una scrittrice, e che in funzione di questo organizza gran parte del proprio quotidiano senza permettere che gli ostacoli, che certo non mancano (la salute malferma, la povertà, i lutti familiari, i continui traslochi, lo sfollamento, la guerra...), la distolgano da ciò.
Ancora, l'epistolario ci rivela la sua timidezza (che le rende difficile, per esempio, l'incontro e lo scambio con Alfonso Gatto, partner di una breve e movimentata liaison amorosa) e il suo coraggio (viaggia sola per l'Italia, affronta senza ambasce la giuria dei Littoriali, prende alloggio dove il suo budget, pressoché inesistente, glielo consente e soprattutto sottopone con fiducia i propri scritti alle riviste e agli editori più importanti dell'epoca), la sua fragilità (tanto fisica quanto emotiva) e la sua forza, la sua folgorante gioia di vivere e la sua profonda malinconia.
È insomma un autoritratto veritiero, senza idealizzazioni e senza infingimenti, quale spesso accade di riscontrare nelle scritture intime (lettere, diari, autobiografie), fatta la tara soltanto di quello che una persona crede – o desidera – di essere. Il che del resto reputo che appartenga, con buona pace dei teorici del “patto autobiografico” e delle “finzioni dell'io”, alla (o a una) sua verità. Ed è uno specchio già fedele di quella vera e propria pratica della contraddizione che contraddistingue la percezione, e il pensiero, della Ortese, consapevole della complessità del mondo e del fatto che ci sono esperienze che, per significarsi, hanno bisogno di contraddirsi (un «cupo splendore», un «furore tranquillo», «cacciatori dal carniere pieno di sangue e di cielo», «dolere felicemente» ecc.), senza che vi sia esclusione alcuna…

…. e che cosa ci dice della scrittrice?

Della scrittrice, della immensa scrittrice che la Ortese deve o dovrà “diventare”, questo epistolario ci dice molto e, allo stesso tempo, ancora poco. Molto perché, come è naturale, i suoi “doni” ci sono già tutti, sono ed erano già lì dall'inizio: il suo sguardo lungimirante, che senza sforzo si inoltra nelle profondità dell'invisibile; la sua scrittura sghemba e insieme piena di lampi (di genio), come quella del suo amato Edgar Poe il quale, come lei dice, «ha messo stelle dappertutto»; la sua capacità di morire di bellezza (per la natura, la musica, i poeti, le città); l'inebriante e motivante consapevolezza di essere al mondo, di essere qui, e di doverne rendere conto. Giacché, come scriverà nel tardo e testamentario Corpo celeste, «il fatto di essere qui, su questo pianeta […] è talmente al di sopra di ogni immaginazione... e il fatto di esistere, in se stesso – dico solo il fatto di esistere – è così straordinariamente […] al di sopra di ogni merito [...]! Insomma, comunque sia, questo vivere è cosa sovrumana».
Allo stesso tempo, reputo che questa Ortese, quella che l'epistolario ci restituisce, debba ancora trovare la sua intonazione, di voce e di pensiero, più alta e più giusta. Lo farà gradatamente, nel corso del tempo e delle opere – anche se, ripeto, per certi aspetti lei dispone fin dal suo esordio di tutti i suoi talenti, che nel tempo non farà che raffinare. Ma la sua grande lezione sull'umano e sull'universo, sullo splendore e il tremore di esserne parte, e sulla responsabilità che ne deriva («Sono lieta di aver speso la mia vita per questo. Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di […] dirvi com'è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra», scriverà, in chiusura di carriera, in Corpo celeste, fra altre mirabili testimonianze del suo impegno come abitante della terra e cittadina del cosmo), la sua grande lezione, dicevo, è in corso d'opera. L'esperienza del dolore come principio di conoscenza e di “visione” è ancora troppo privata e troppo intensa, dominante e restrittiva della sua sensibilità, e tale da limitare ancora con forza quello che sarà il suo grandioso e peculiare colloquio con tutte le forme della creazione (l'umano compreso, ma certo non prioritario).

Quale la caratteristica o le caratteristiche che rendono la Ortese una figura importante nella letteratura italiana del Novecento?

Tali caratteristiche sono molteplici, eppure a mio vedere tutte coerentemente convergenti in un unico, grande e ben riconoscibile progetto, che fa di lei una pensatrice di prim'ordine alla quale, non a caso, questo nostro presente ripetutamente si rivolge. La Ortese infatti, fin dai primi racconti, ma soprattutto da L'Iguana (1965) in poi, è autrice di narrazioni ad alta densità meditativa, ovvero di un “pensare in figure” che ha “pre-figurato”, peraltro con stupefacente lungimiranza, quanto la filosofia e la scienza (e la fantascienza) odierne vanno con profitto ed emozione dibattendo: vale a dire la necessità, oramai improrogabile, di ridimensionare l'umano in ragione della biodiversità che imperiosamente lo interpella, nonché di tutte le promesse mancate dell’umanesimo e del disastro planetario cui il cosiddetto antropocene ha in definitiva fatto approdo
L’opera della Ortese, sorta di atlante sommamente “inclusivo” degli abitanti del pianeta, è per esempio lo spazio di innumerevoli «pratiche di compagnia» (quelle che, secondo donna haraway, consentono di «vivere e morire bene insieme su questa terra») fra specie differenti, ivi comprese quelle messe in atto dalle inedite e non catalogabili creature che hanno dato il titolo ai suoi testi più famosi – L'Iguana appunto, e poi Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari -, oltre che a un gran numero di racconti brevi.
È un'opera marcata da cima a fondo, per fare un altro esempio, da quella distintiva «reverenza nei confronti della sacralità della vita», quel «rispetto profondamente radicato verso tutto il vivente» che anticipa la grande lezione di Vandana Shiva. E vi sono contenute in nuce altresì quella vocazione alla «geopietas», quella capacità di disegnare prospettive «antropoverdi», quella visione senz'altro «cosmopolitica» e quella ferma aspirazione a una «eco-giustizia multispecie», o a una «etica multispecie» senz'altro (oltre che le prove generali di una autentica «sim-poiesi» ovvero del con-crearsi, e del farsi reciprocamente esistere, di creature necessarie al divenire l'una dell'altra), di cui si discute oggi (fra autorità quali Paul Gilroy, Isabelle Stengers, Anna Tsing, Rosi Braidotti, Karen Barade, Lynn Margulis e molte altre), e di cui la Ortese testimonia fin dai suoi esordi pur dandone suprema prova negli anni della sua maturità.

……………………………………

Anna Maria Ortese
Vera gioia è vestita di dolore
a cura di Monica Farnetti
con una nota di Stefano Pezzoli
Pagine 160 * Euro 14.00
Adelphi



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