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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Piazzale Loreto (1)


La casa editrice Donzelli ha pubblicato un importante libro che fa luce su quanto avvenne a Piazzale Loreto e quanto precedette quell’infausto giorno.
Titolo: Piazzale Loreto Milano, l’eccidio e il “contrappasso”.
Ne è autore Massimo Castoldi
Nipote del maestro antifascista Salvatore Principato, uno dei quindici martiri di piazzale Loreto uccisi il 10 agosto 1944 in quel piazzale dai nazifascisti, ha raccolto negli anni materiali relativi all’eccidio e alle alterne vicende legate alla storia di quel luogo.
Castoldi è membro della Commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli e insegna Filologia italiana all’Università degli Studi di Pavia. Filologo e critico letterario, si è occupato di memorialistica della Resistenza e delle deportazioni, collaborando con la Fondazione Memoria della Deportazione, che ha diretto fino al 2017.
Per Donzelli ha curato il volume 1943 - 1945 I "bravi" e i "cattivi". Italiani e tedeschi tra memoria, responsabilità e stereotipi (2016) ed è autore di Insegnare libertà. storie di maestri antifascisti (2018), con il quale ha vinto il Premio The Bridge.

Amo le ricostruzioni di episodi storici. Uno dei testi più difficili da scrivere, perché lì ogni virgola fuori posto è castigata. Ecco perché fra le cose che meno mi piacciono dell’editoria spiccano storie vere e biografie rese in forma romanzata; la trovo cosa atroce. Arbitrarie ricostruzioni d’ambienti, dialoghi inventati, addirittura personaggi mai esistiti che intervengono nel racconto, robe in pomodorocolor che risentono del peggio della fiction tv.
Il lettore ha diritto d’apprendere, invece, sui fatti realmente accaduti esattezze di date, citazioni di documenti, di particolari scritti o ascoltati da testimoni se contemporanei e conoscerne attraverso l’autore la valutazione della loro attendibilità. Testo, quindi, difficile da scrivere perché richiede una gran fatica (conoscere bene i luoghi dove si svolsero gli avvenimenti, intervistare studiosi, recarsi in biblioteche, tribunali, consultare eventuali referti medici presso ospedali), mica starsene a fissare il soffitto e, poi, ispirato da qualche ragnatela, imbrattare fogli.
La biografia romanzata è un ibrido da perdonare, forse, giusto a Senofonte per la sua ‘Ciropedia’, e pure in quel caso ho i miei dubbi.
Il libro che ha scritto Castoldi ha molti meriti, oltre la testimonianza politica sull’avvenimento, “Piazzale Loreto” è straordinario per la precisione, perfino puntigliosa, di dati: nomi, orari, estratti di cronache giornalistiche di quel tempo, parole d’intervistati, perfino i numeri che contrassegnavano le celle dei 15 prigionieri portati alla morte.
Una ricostruzione di tale precisione raramente si trova. Tutto questo per niente rallenta il ritmo della narrazione, anzi asseconda la velocità che ebbe quella tragedia.
Piazzale Loreto con l’esecuzione dei quindici antifascisti è una ferita non rimarginata, basti pensare come quel luogo è tornato sulle cronache nei giorni di fine maggio di quest’anno a causa di un progetto di riqualificazione dell'area infiammando gli animi. QUI troverete un’intervista a Sergio Fogagnolo figlio di Umberto uno dei fucilati il 10 agosto ’44.

La copertina del libro è la riproduzione dell’opera “I martiri di piazzale Loreto” dipinta da Aligi Sassu, conservata a Roma nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

QUI un video che riprende l' incontro sul libro promosso dall’Anpi con la presenza di Castoldi.

Dalla presentazione editoriale.

«La memoria di Piazzale Loreto è una memoria incompiuta, che non è riuscita a diventare memoria fondativa dell’Italia libera e democratica, poiché in essa si intrecciano le contraddizioni di oltre settant’anni di storia: dai conti mai risolti con il fascismo ai conflitti politici durante la guerra fredda, fino alla memoria debole e post-ideologica di oggi, che si logora tra la retorica delle vittime e quella della pacificazione. All’alba del 10 agosto 1944 quindici antifascisti detenuti nel carcere di San Vittore furono fucilati sul piazzale, senza regolare processo o specifica incriminazione, da un gruppo di militi fascisti su ordine degli occupanti tedeschi. I corpi furono ammassati contro una staccionata di legno e lasciati lì fino al tardo pomeriggio. I milanesi ammutoliti vi assistettero sgomenti e nel silenzio la piazza fu subito ribattezzata piazzale Quindici martiri. Nei giorni della Liberazione, il 29 aprile 1945, furono portati in piazzale Loreto i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi fascisti uccisi sul Lago di Como. La folla euforica e inferocita accorse per vedere la fine del regime. Le immagini di quella mattina si sovrapposero nella memoria collettiva a quelle dell’anno precedente: furono solo poche ore, ma da quel momento piazzale Loreto non sarebbe più stato soltanto piazzale Quindici martiri. Frutto di uno scrupoloso lavoro di analisi di fonti in gran parte inedite, il libro ricostruisce l’attività antifascista dei martiri e dei loro famigliari, la sequenza degli arresti, le logiche che portarono all’eccidio e fa luce su quello che ne seguì».
.
Segue ora un incontro con Massimo Castoldi.


Piazzale Loreto (2)


A Massimo Castoldi (in foto) ho rivolto alcune domande

Nell’accingersi a scrivere questo libro quale cosa si è proposto di fare assolutamente per prima e quale per prima assolutamente da evitare?

La prima cosa che ho fatto è stato organizzare e disporre in modo consequenziale tutti i materiali d’archivio in mio possesso, dando a tutti uguale dignità. Poi ho incominciato a farli dialogare tra loro e a dialogare con loro. La prima differenza tra un libro di storia e un romanzo storico è che chi scrive un romanzo seleziona le fonti a sua disposizione, scegliendo quelle a lui più congeniali per costruire la sua narrazione, chi scrive di storia deve tenere conto di tutte le fonti, anche di quelle che non gli piacerebbe avere trovato. Tra due versioni di un fatto il narratore sceglie, lo storico confronta. Il mio è un libro di storia. Da evitare assolutamente è sovrapporre il proprio punto di vista alla ricostruzione storica, anche se talvolta si è tentati a farlo. Sarebbe insensato dire che non c’è un punto di vista personale sui fatti, ma proprio per questo l’ho dichiarato fin dalla prima pagina, perché il lettore lo sappia, senza infingimenti. Poi ho lavorato con lo scrupolo del metodo, acquisito in decenni di lavoro filologico.

Negli scritti di quei quindici antifascisti ricorrono le parole “Viva l’Italia”.
Com’è da intendersi quell’espressione patriottica
?

Erano patrioti, amavano e difendevano la propria terra da un dominatore straniero, gli occupanti tedeschi, e da un potere corrotto e asservito ai nazisti, le istituzioni della Repubblica Sociale Italiana. Ricordo che nell’agosto 1944 molti comandanti nazisti già erano consapevoli dell’imminente sconfitta e si apprestavano a depredare, quando possibile, e altrimenti a distruggere quello che rimaneva dell’Italia. Bisognava difendere gli impianti industriali, le dighe in montagna, i beni artistici, la gente. Questo voleva dire in quel momento essere patrioti. Il patriottismo di questi uomini, non senza una suggestione dei miti risorgimentali ancora molto sentiti, nulla ha a che vedere con il nazionalismo fascista, che è aggressione, omologazione, disprezzo per le minoranze, per le differenze, per la cultura intesa come coscienza critica. L’Italia ha pagato a lungo nel Dopoguerra questa identificazione distorta tra patriottismo e nazionalismo.

28 aprile 1945. Sua madre salva un ragazzo repubblichino dal linciaggio.
Lei legge in quel gesto qualcosa che va aldilà della pietà

Non è stata pietà, o meglio non è stata soltanto pietà. Salvare una vita umana è sempre un gesto che si può leggere come un atto di pietà. Ma dobbiamo pensare a cosa era Milano in quei giorni e a cosa era stata nei giorni e nei mesi immediatamente precedenti: c’erano morti per le strade, persone anche orribilmente seviziate. I fascisti si lasciavano alle spalle una città ferita e tanta gente sconvolta. Avevano costruito un sistema fondato sull’arroganza, sulla violenza, sulla guerra, sul disprezzo della vita propria ed altrui. Bisognava cambiare linguaggio, modalità, non solo per interrompere una prevedibile catena di violenza e di morte, ma anche per insegnare agli italiani che stava incominciando una nuova stagione fondata sul diritto, sul rispetto anche del peggiore criminale, in quanto uomo. Questo nuovo mondo non poteva ammettere il linciaggio per le strade, quel linciaggio che era stato perpetrato dagli squadristi fascisti fin dal 1921.

29 aprile 1945. I corpi di Mussolini e di altri gerarchi giungono a piazzale Loreto.
Ci furono allora esponenti della Resistenza che disapprovarono quello che accadde dopo?
A partire dall’infausta scelta di portare i cadaveri proprio in quel luogo di Milano
?

Quando si ricostruisce un fatto storico ci sono elementi di verità, soprattutto quando più fonti prodotte in contesti diversi coincidono e quando parlano le fonti involontarie, non prodotte per costruire memoria. I corpi di Mussolini e dei gerarchi giunsero nella notte tra 28 e 29 aprile 1945 in piazzale Loreto. Un gruppo di partigiani stanchi ed euforici, animati dal pensiero di un contrappasso, che in qualche modo riscattasse i fatti del 10 agosto 1944, li scaricarono sul piazzale. Verso mattina incominciò ad accalcarsi una folla enorme, che voleva vedere, essere sicura che tutto fosse finito, qualcuno anche animato dal desiderio della vendetta e del riscatto. La pressione della folla fu tale che i partigiani chiamarono in aiuto i pompieri, che cercarono di tenerla lontana con gli idranti. Poi appesero alcuni dei corpi alla pensilina del benzinaio, per farli vedere e per preservarli in qualche modo. Alle 14 era tutto finito. I corpi erano all’obitorio, dove ancora una folla incontrollata premeva ai cancelli. Alcuni tra gli esponenti della Resistenza disapprovarono e inorridirono allo spettacolo dei corpi appesi, sicuramente Ferruccio Parri e Sandro Pertini, altri se ne fecero una ragione, come Luigi Longo e il colonnello americano Charles Poletti, commissario per la Lombardia del governo militare Alleato. Nessuno certamente, ai vertici intendo, aveva cercato, proposto e determinato quel fatto, comunque increscioso. Questa è la storia.

A chi e a che cosa attribuire la responsabilità negli anni del progressivo oscuramento dell’eccidio del 10 agosto 1944?

Non è stato un vero e proprio oscuramento, ma una memoria per pochi e gestita da pochi. Fare chiarezza voleva dire mettere sotto accusa il comando nazista nella Milano occupata e non si è voluto fare. Si pensi che il colonnello Walter Rauff, comandante responsabile della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza delle SS per la Lombardia, il Piemonte e la Liguria scampò a ogni processo per tutta la vita e morì in Cile nel 1984, non nascosto o con identità mutata. Chissà perché? Il suo dipendente capitano Theodor Emil Saevecke fu agente della Cia e vicedirettore dei servizi di sicurezza del Ministero degli Interni della Repubblica Federale Tedesca fino al 1971, quando andò in pensione. E fu processato soltanto nel 1999 per l’eccidio del 1944. Ma anche gli altri, da Wolff a Tensfeld, ebbero storie postume non chiare. Anche a molti fascisti furono risparmiate le inchieste. Dall’altra parte raccontare le storie dei Quindici martiri, come ho fatto nel mio libro, voleva anche far capire che non erano, come si è detto per anni, i quindici ragazzi operai, ma una rete diversificata di uomini liberi, che combattevano oppressione e corruzione, al di sopra degli schieramenti contingenti. Le loro vite, se raccontate, avrebbero smentito tanti luoghi comuni sulla Resistenza.

Quando su questo sito incontro chi si è occupato di episodi storici, concludo con la stessa domanda.

- Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924.

- Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945

- Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992.

Per Massimo Castoldi la storia che cos'è
?

Si scrive e si studia la storia per riconoscere l’inganno, la falsificazione e il pregiudizio, per garantire l’educazione di un libero cittadino, di un uomo responsabile, capace di valutare i fatti e scegliere in autonomia.

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Massimo Castoldi
Piazzale Loreto
Pagine 240, euro 25.00
Con inserto foto b/n
Donzelli


Paolo Bernacca - Stefano Scialotti: Intervallo

Intervallo fra cosa? Oppure fra chi? E da quando a quando?
Don’t panic, please! Ecco la risposta agli allarmati interrogativi.
Intervallo è una pubblicazione e una mostra.
il libro è composto da disegni di Paolo Bernacca e da dialoghi di Stefano Scialotti, ed è edito da Bernacca Edizioni piccola raffinata casa editrice specializzata in grafica.
La mostra espone le tavole originali alla libreria Fahrenheit 451 di Catia Gabrielli e nel foyer del cinema Farnese di Roma, a Campo dei Fiori.

“All’inizio non c’era nessuna idea precisa, come sempre” – scrive Stefano Scialotti, l’autore dei testi -, solo una insofferenza per i racconti ripetitivi del secondo anno di pandemia e l’idea di combinare qualcosa con l’amico, complice di molte imprese verbo-visive, Paolo Bernacca. Lui mi manda un po’ di disegni di Roma vuota. Panorami della Città Eterna in un campo grigio morbido. Un tempo sospeso. Da molti anni io ero fissato con una serie di brevissimi racconti: Banalità. Alla fine, i disegni hanno ispirato un’evoluzione delle mie vecchie banalità e viceversa i dialoghi hanno creato un percorso anche per i disegni.
Nel secondo anno di pandemia. Il tempo scorre come sempre indifferente, noi viviamo in una strana forma di sospensione, la città anche. Nei cinema degli anni '60, l'intervallo tra primo e secondo tempo permetteva di andare al bagno, chiacchierare, comprare bibite e gelati. Ora invece siamo sospesi tra un primo tempo perso nel passato e un secondo tempo che non sappiamo quando inizierà”.

Ha origine così la combinazione felice fra i disegni romani di Paolo Bernacca, maestro dello sketchcrawl (maratona di disegni e acquerelli che testimoniano un’escursione, una flânerie nei luoghi prescelti) e i testi a dialogo fra una Lei e un Lui di Stefano Scialotti (regista, documentarista e scrittore, fra l’altro, di un libro dal titolo Lennon not Lenin. il muro di Berlino erano due

Sul sito Dicono di oggi, così ha scritto su “Intervallo” la divina Antonella Sbrilli: «I disegni sono una ventina e, per chi conosce la città, scatta subito l’invito a ricostruire il punto da cui l’artista ha tracciato la veduta, da quale ponte sul Tevere, da quale finestra, da quale parapetto si è affacciato; e poi viene voglia di farsi piccoli per entrare nei dettagli delle finestre, del selciato, degli scorci in discesa. Lo sguardo di Bernacca su Roma è pieno di cura per le cose, i monumenti, i platani, e per le persone, prova ne sia la scritta Free ZAKI che compare, discreta ma decisa, su un cartello.
Accanto a ogni disegno, si trovano i testi di Scialotti, identificati da categorie che costruiscono una lista eloquente (Depressione, Vuoto, Impossibilità, Inerzia, Stupidità, Concerto, Solitudine, Schizofrenia, Ossimoro, Sciocchezze, Capriola, Finzione, Circolo vizioso, Tran tran, Credo, Problema, Bella domanda, Solo, Fine del mondo) e da un numero, a volte altissimo, come se l’autore avesse estratto il testo da una raccolta senza fine o stesse giocando con i segni, vedi per esempio “Circolo vizioso n. 1001”.
Volendo, si può cercare quali fili leghino i dialoghi con i disegni (“Ma tu ti senti isolato?” è la battuta d’inizio del testo che si accompagna a uno scorcio dell’isola Tiberina), mentre il fiume scorre, con i tratti chiari sul fondo grigio della carta, in corrispondenza di domande ricorrenti “E poi cosa succederà? / Niente di nuovo penso”.
Per la sua natura, questa doppia raccolta mette in risonanza due tracce di esperienza (disegni e testi, domande e risposte, LUI e LEI) e le porge a chi ha voglia di essere coinvolto nel gioco.
Che poi, gli schizzi di Bernacca sono sketch e i dialoghi di Scialotti anche, nel senso che questa parola ha nello spettacolo, dove indica una scenetta, che capta una situazione e la restituisce in poche battute. Qualcuno ricorda, o ha sentito parlare, di un programma radiofonico degli anni Sessanta/Settanta, Eleuterio e Sempre Tua, in cui due grandi attori, Paolo Stoppa e Rina Morelli, interpretavano scenette di vita quotidiana d’antan, dove si affacciava l’attualità, per esempio nel 1973 l’austerity.
Cinquant’anni dopo, la pandemia occupa lo spazio della coppia senza nome di Intervallo e l’arguzia coniugale di allora è ridotta all’osso di poche parole, dove il tempo, il vuoto, il presente-remoto spadroneggiano.
Banalità, voleva intitolarle Scialotti, ma poi la scelta del titolo è caduta su una parola molto evocativa: l’intervallo, quello fra le lezioni, quello – remoto e musicale – nella programmazione televisiva, quello dei cinema degli anni ’60, quando la pausa fra il primo e il secondo tempo – è sempre Scialotti a scriverlo – “permetteva di andare al bagno, chiacchierare, comprare bibite e gelati”.
Ben ci sta dunque questa mostra nel foyer del cinema Farnese (e nella libreria all’ombra di Giordano Bruno)».

Su Vimeo uno sguardo su “Intervallo”.

Paolo Bernacca – Stefano Scialotti
Intervallo
Roma, Libreria Fahrenheit 451,
Campo dei Fiori 44 e
foyer del Nuovo Cinema Farnese
Per informazioni:
Tel. e fax 06 – 68 75 930
libreriafahrenheit451@yahoo.com
Dal 3 al 17 giugno 2021


Ettore Bernabei in un libro di Marsilio

Esistono uomini che riassumono, nel bene e nel male, tutte le precipue caratteristiche di un’epoca esprimendole compattamente sul piano sociale, politico, lavorativo, familiare.
In Italia, un uomo simbolo degli anni del potere democristiano, dal suo pieno vigore dei primi ’60 fino alla sua crisi a metà degli anni ‘70, è stato Ettore Bernabei (1921 – 2016).
Fiorentino, otto figli, giovane direttore del quotidiano Dc “Il Popolo”, direttore generale della Rai dal 1961 al 1974, dopo fu a capo dell’Italstat e poi fondò la casa di produzione cinematografica Lux Vide.
Vero è che ha diretto l’azienda radiotelevisiva in regime di monopolio senza dover difendersi dalla concorrenza, ma è altrettanto vero che ha dovuto guidare la Rai navigando – da fanfaniano di ferro – nel mare infido delle correnti dc e poi dalla moltiplicazione degli appetiti del centro sinistra, ricordo la battuta: “Assunzioni alla Rai: due dc, un socialista, un comunista e uno bravo”. Battuta velenosa, ma in parte non bugiarda. Solo in parte. Perché Bernabei – quando la scelta toccava a lui (vale a dire quasi sempre) sceglieva i migliori soprattutto in campo cattolico. Per onestà va detto che la stessa cosa faceva il Pci, ma non così tutti gli altri in casa Pri, Psdi, e Psi.
Divenne direttore della Rai dopo aver provato un grandissimo dolore: un anno prima, nel 1960, morì la figlia Paola.
In Rai dimostrò subito il suo carattere: instancabile, perfezionista, intransigente, facile alla collera. Capì, pur religiosissimo (diverrà (soprannumerario dell'Opus Dei), che era tramontata l’epoca delle censure bigotte e, pur non trascurandole del tutto, spostò la censura prevalentemente sul piano politico. Clamorosi esempi furono la cacciata di Gianmaria Volontè, quella di Dario Fo e Franca Rame dal programma del sabato sera, e, dopo averne voluto l’assunzione, quella di Enzo Biagi costretto alle dimissioni da direttore del tg. Ma furono parecchi i nomi, non famosi spesso ignoti al grande pubblico, sia di dirigenti allontanati dalle cariche che avevano sia di collaboratori esterni per comportamenti politici a lui non graditi.
Grande pubblico… non ne aveva stima lo riteneva composto da “milioni di testa di cazzo”.
Oggi a parlarne bene sono in tanti anche della Sinistra. Non sorprenda. Bernabei ha dato loro non poco purché “ non rompessero i ‘oglioni” sennò… zac!
Sotto il suo regno (perché tale fu) la Rai conquistò vari primati tv e anche la radio non fu trascurata conquistando successi con trasmissioni divenute famose.
Poi arrivò la Riforma, fu costretto alle dimissioni il 18 settembre del ’74 e passò all’Italstat.
Dopo la sua direzione la Rai ha perso progressivamente il peso di un tempo. Alla centralizzazione dell’organigramma da lui voluta si passò al piano folle di dividere le reti che dovevano essere “in concorrenza fra loro” (!) e la moltiplicazione dei punti d’acquisto. Insomma, un disastro con la sola eccezione della Terza Rete diretta da Angelo Guglielmi ricordata come modello, ancora oggi mai più raggiunto, di moderna tv.
Bernabei, attento alla conduzione di sostanza democristiana con segno fanfaniano, considerava che il profitto della Rai doveva essere quello politico, tanto che sul piano economico lasciò l’azienda con ben 16 miliardi in lire di debiti, e si era nel 1974!
Quelli venuti dopo sul piano finanziario hanno fatto peggio. Quanto al profitto politico lo hanno usato (e lo usano) selvaggiamente.

La casa editrice Marsilio proprio su quel personaggio ha pubblicato Ettore Bernabei il primato della politica La storia segreta della Dc nei diari di un protagonista.
Ne è autore Piero Meucci. Giornalista professionista, ha lavorato per il gruppo Il Sole 24 Ore e per l’agenzia ANSA. Fondatore del «Corriere di Firenze», ha guidato la redazione fiorentina di «Paese Sera». Dirige il giornale online StampToscana ed è autore di libri su giornalismo, politica ed economia. È stato direttore della comunicazione multimediale della Giunta regionale della Toscana e, per una legislatura, dell’Agenzia per le attività di informazione del Consiglio regionale della Toscana.
È presidente di ARCTON, Associazione Archivi Cristiani Toscani del Novecento.
Nell’Introduzione scrive: “È un’esperienza riservata a pochi aprire per primo le pagine di diario alle quali solo i familiari finora hanno avuto accesso e ripercorrere la storia che si è vissuta attraverso gli occhi di chi era più vicino ai luoghi che hanno visto confrontarsi forze di ogni segno e qualità per la conquista del potere”.
I diari cui fa riferimento l’autore sono quelli che Bernabei ha minuziosamente scritto per 30 anni, depositati dalla famiglia il 2 febbraio 2020 agli archivi Arcton.
Quegli scritti sono commentati da Meucci con parecchie, forse troppe, affettuosità, ma, da buon giornalista qual è, ha scritto un libro che è un prezioso sguardo su ciò che ha attraversato l’Italia (non solo la Rai, i diari vanno oltre il 1974) visto dagli occhi di un dirigente che ha avuto ruoli di primissimo piano. Libro da leggere.

Estratto dalla presentazione editoriale
Ettore Bernabei ha lavorato con Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, orientandone scelte e strategie. Appena ventiseienne, da direttore del quotidiano «Il Popolo», ha dato vita a uno straordinario sodalizio intellettuale tra i leader dei quali condivideva filosofia e politica. Partecipando, da fervente cattolico, a battaglie e sconfitte della Democrazia Cristiana, ha incantato subito il partito (…) In mezzo secolo di permanenza nella cabina di regia del potere non ha mai smesso di tenere un diario quotidiano, in cui si intersecano giudizi perentori, ritratti, dubbi e testimonianze eccezionali, dalle lotte interne alla DC fino ai giorni del rapimento di Moro e allo scontro con le forze laiche nella stagione del referendum sul divorzio. A cento anni dalla nascita, questi scritti vengono pubblicati in una raccolta inedita che attraversa il secondo Novecento italiano, in cui Bernabei delinea che cos’è davvero la politica e le dinamiche che la governano, annotando eventi e indiscrezioni di un Paese giovane invecchiato troppo velocemente».

Piero Meucci
Ettore Bernabei, il primato della politica
Pagine 368 +16 d’inserto fotografico b/n
Euro 17.00
Marsilio


Non come loro


Due noti nomi della scena sperimentale italiana si ritrovano in un nuovo spettacolo.
Si tratta di Rossella Or e Marco Solari (in foto).
L’occasione è data da una nuova edizione di Non come loro che debuttò anni fa con la regìa di Mario Prosperi.
Or è autrice del testo. Già confrontatasi sia con la scrittura in prosa sia con quella poetica sulla quale Marco Bordini ha scritto: “La poesia di Rossella Or (che è sempre stata avulsa dalla letteratura come istituzione, come per una cura ossessiva della marginalità, ma legatissima, in una lunga frequentazione, alla parola scritta) si nutre dello studio attento e puntiglioso delle avanguardie teatrali e letterarie”.
Marco Solari ha una lunga esperienza di attore, regista, scenografo, ed è stato un protagonista della nuova scena dapprima con la Gaja Scienza, dopo formando compagnia con Alessandra Vanzi e più recentemente fondando “Temperamenti” con la Vanzi e altri compagni di lavoro producendo parecchi spettacoli. Qualche titolo: “Valle Giulia”, “I viaggi di Gulliver”,”Quinte armate”, “I Negri”, “Visioni simultanee”.

Dal programma di sala.

«Il testo di “Non come loro” è il dialogo di un incontro, e lo spazio dell’incontro è onirico. Onirico, ma riconoscibile: è l’incontro in un bosco.
L’incontro dell’autore con la proiezione della sua creatura.
Il testo si confronta in un’azione minimale e rarefatta con le proiezioni dei due personaggi reali, e al tempo stesso sognati, nel tentativo di un’identificazione.
Le loro identità, come appunto nei sogni, sono ignote figlie dell’immaginario, ma non dell’imprevisto, cioè del desiderio.
Ma le domande che nutrono il dialogo girano attorno a soggetti inevitabili e centrali della psiche: l’attesa della morte e il senso della vita.
E a che cosa c’è di mortale, e cosa di vitale, nell’arte e nella coscienza dell’arte.
Uno spazio simbolico dove le vite dei protagonisti s’incrociano, si dissolvono,
si dibattono in preda alle loro solitudini.
Un lasciarsi per poi rincontrarsi con la parte più autentica del sé, riscoprendo la propria coscienza».

Non come loro
di Rossella Or.
Interpreti:
Rossella Or – Marco Solari
Coordinamento: Ulisse Benedetti
Artwork: Fabio Collepiccolo
Disegno luci: Roberto Zorzut ·
Musiche a cura di Paolo Modugno
Tournée in programmazione


Cerbero e gli altri (1)


Questo 2021 è prodigo di ricorrenze dalla cifra tonda – vera leccornia per i media – che riguardano famosi episodi storici, ad esempio l’attacco alle Torri Gemelle avvenuto vent’anni fa, o segnano date di nascita oppure di morte di celebri personaggi. Solo per citarne alcuni: cent’anni fa nascevano Baudelaire e Dostoevskij, moriva il 5 maggio 1821 Napoleone Bonaparte.
L’anniversario più gettonato, però, riguarda Dante che 700 anni fa, nella notte fra il 13 e il 14 settembre raggiungeva chissà quale delle tre località da lui immaginate nelle tre cantiche, constatando quanta ragione avesse avuto scrivendo “del viver ch’è un correre alla morte” (2 – 33 – 54, per ritrovare il verso e per gli amanti del Lotto).
Fra mostre, articoli, spettacoli, pubblicazioni librarie, s’è abbattuto uno tsunami d’avvenimenti, roba che è impossibile tener loro dietro, ammesso, poi, che se ne abbia la voglia. Su questo sito ho filtrato molto (e molto filtrerò nei prossimi mesi), dopo avere aperto l’anno di Cosmotaxi il 2 gennaio 2021 ricordando due produzioni che mi sembrano degne d’essere ricordate. Un gioco leibniziano ideato da Mauro Pedretti intitolato Danterandom e un’autobiografia in versi su calco dantesco del poeta Vincenzo Mazzitelli, prematuramente scomparso, da mandare in solluchero quelli dell’Olulipo; titolo: L'acrostico più lungo del mondo. E lo è sul serio. Leggere per credere.

Tanti gli autori che si sono impegnati su Dante, chi in modo indiscreto ha frugato nella sua vita privata, chi ha maliziosamente esplorato il tormentato aspetto politico del Poeta, chi si audacemente trattenuto su nuove analisi critiche della Commedia.
Intendiamoci, libri talvolta valorosi. Anche se spesso apparentati da una certa pesantezza accademica che pur senza privarli di qualità, ne rendono poco allegra la lettura.
Il titolo che presento oggi esce, invece, fuori da schemi sussiegosi riuscendo al tempo stesso ad essere un saggio colto e birichino, proponendo ai lettori un viaggio particolare nell’opera dantesca.
Questo eccellente volume è pubblicato dalla casa editrice Carocci.
Titolo: Cerbero e gli altri I mostri nella Divina Commedia
Autore Lorenzo Montemagno Ciseri.
È docente di scuola secondaria superiore e dottore di ricerca (PhD) in Storia della scienza e della teratologia.
Per Carocci ha già pubblicato Mostri: la storia le storie dove s’apprende, come avverte il quarto di copertina, che cosa accomuna Leonardo da Vinci a X-Files, passando per H. P. Lovecraft, oppure Aristotele a Rabelais e a De André. Sono questi i libri che mi piacciono
In “Cerbero e gli altri” l’autore si fa per noi un Virgilio che da esperta guida turistica conduce chi legge attraverso una metropoli infernale popolata da Erinni e Arpie, Argo e Giganti.
Si finisce poi nella foresta dei meme dove Dante stesso dà nome a un olio “che parla italiano” o è visto come sublime dattilografo oppure, come in uno spot pubblicitario, irrispettosamente colto mentre scrive le ultime parole della Commedia su di un rotolo di carta igienica.
“Tuttavia” – scrive Montemagno Ciseri – “i media che hanno sfruttato forse in modo più completo e poliedrico il capolavoro dantesco, grazie alla sua straordinaria capacità di produrre immagini, sono senza dubbio il cinema e il fumetto”. Seguono poi nel testo esemplificazioni commentate.

Dalla presentazione editoriale
«La strada per l’Inferno, si sa, è lastricata di mostri. E quelli che popolano le prime due cantiche della Commedia sono ben più di semplici comparse scritturate per suscitare paura e meraviglia nel lettore. Al contrario, sono le colonne portanti di una storia che ha definitivamente fissato la concezione dei mondi ultraterreni, specie dell’Inferno, da 700 anni a questa parte. Ma la narrazione dell’aldilà e dei suoi mostruosi abitatori parte da molto più lontano, è antica come l’uomo. Superando ogni barriera spazio-temporale, queste creature del buio e Dante, l’artefice del loro rinnovato splendore, arrivano con straordinaria freschezza simbolica, forza evocativa e agilità narrativa ai giorni nostri. Alcuni sono persino diventati celebrità, cui la cultura pop ha dato nuova linfa vitale. Si sono impadroniti di ogni ambito della comunicazione, dalla letteratura alla pubblicità, dal cinema ai videogiochi, dai fumetti alla televisione. Tutto si tiene, e tutto ci parla di loro».

Segue ora un incontro con Lorenzo Montemagno Ciseri.


Cerbero e gli altri (2)


«… il mostro non muore mai. Il lupo mannaro, il vampiro, il mangiacadaveri, l’innominabile creatura dei boschi o ghiacciai, Cerbero… il mostro non muore mai».
Stephen King


A Lorenzo Montemagno Ciseri (in foto) ho rivolto alcune domande

Perché la “Commedia” dopo 700 anni è ancora un evergreen?

Non è banale trovare una risposta univoca a questa domanda. Si tratta sicuramente di un successo dovuto ad una serie convergente di aspetti anche molto diversi tra loro. La Commedia ha tutti gli elementi dei grandi capolavori senza tempo, amore, morte, avventura, magia e meraviglia, a cui si aggiunge un viaggio ultramondano unico, mai compiuto in precedenza, che conduce Dante attraverso tutti e tre i luoghi dell’aldilà immaginati al suo tempo. E poi ci sono la chiarezza della lingua, il fascino della poesia, che fanno da cornice ad una sincera tensione spirituale dell’autore e, ovviamente, un sacco di mostri! La Commedia è, in questa prospettiva, una sorta di enciclopedia, medievalmente intesa, in cui tutto si tiene ed a cui ognuno può accedere da una diversa prospettiva. È vero, non tutte le sue parti hanno retto con la stessa brillantezza al passare dei secoli, ma è certo più per colpa della nostra perdita di alcuni riferimenti poetici, filosofici o teologici, che non per qualche mancanza intrinseca dell’opera.

Nell’accingerti a scrivere sui mostri incontrati da Dante qual è stata la cosa che hai deciso assolutamente di fare per prima e quale per prima quella assolutamente da evitare?

Approcciarsi a Dante è come preparare una scalata al monte Everest, per prima cosa devi importi di rispettare la montagna e, contemporaneamente, devi cercare di imparare il più possibile da chi l’ha già scalata, raggiungendo la vetta prima di te. Così ho voluto subito, per correttezza nei confronti del lettore, dichiarare apertamente che la mia sarebbe stata una lettura della Commedia attenta ma non canonica, necessariamente mediata, nell’approccio, nel taglio e nei contenuti, dall’occhio dello storico della scienza e, in particolare, della teratologia. Il mio amore per la divulgazione mi ha portato invece ad evitare quanto più possibile di incorrere in pedanti tecnicismi o lunghe note a piè di pagina, ricercate digressioni filologiche o utilizzo di un lessico e di un linguaggio che forse poco sarebbe piaciuto all’autore del “De vulgari eloquentia”.

I mostri di cui ti occupi avverti che non nascono nella Commedia, ma vengono da lontano. Da dove? Da quando?

La figura del mostro è archetipica, è antica quanto l’uomo, e l’origine di alcuni mostri si perde davvero, come si suol dire, nella notte dei tempi. Ne abbiamo testimonianza sin dai primissimi documenti scritti, dalle primissime fonti storiche a nostra disposizione. Il Medioevo in cui vive Dante è considerato, nel moderno immaginario collettivo, come l’epoca d’oro dei mostri, ma non è esattamente così. Di mostri si è sempre scritto e narrato tanto ed il catalogo a disposizione dell’autore della Commedia era veramente corposo. Egli però compì un’operazione assai originale. Invece di riproporre pedissequamente un arido elenco di figure mostruose che la tradizione poneva nei regni ultraterreni assieme alle anime dei defunti, mescola ed amalgama sapientemente alcuni mostri mitologici di origine pagana (Cerbero, il Minotauro, le Arpie), a mostri di origine cristiana (i Diavoli, Lucifero, la Bestia dell’Apocalisse) ad altri esseri che divengono mostri nelle sue mani, causa contrappasso o personale interpretazione della loro natura (gli indovini, Caco).

L’uso che fa Dante dei mostri ha una funzione di snodo visivo e narratologico oppure possiede anche altre funzioni espressive?

Direi che i mostri nella Commedia assolvono ad una complessa rete di funzioni che non si limitano a quelle strettamente narrative. Possiamo leggerci funzioni simboliche ovviamente, ma anche strutturali dell’opera stessa (molti mostri “reggono” i gironi di cui sono guardiani) o dimostrative dell’effettivo passaggio nell’aldilà del poeta. Mi spiego. Come ho anche accennato nel libro, alcuni mostri incontrati da Dante, in special modo nell’inferno, “dovevano” esserci poiché la tradizione letteraria classica, così come quella contemporanea, lo imponevano. Non si poteva prescindere dal pensiero di un inferno senza mostri come Caronte, Cerbero o Lucifero. Passare da quei mondi e non vederli sarebbe stato per il Poeta e per l’opera, seppur nell’ovvia sospensione dell'incredulità, una sorta di perdita di veridicità. Come sarebbe per noi raccontare di esser stati a Parigi senza aver visto la torre Eiffel o a Roma senza aver ammirato il Colosseo.

Nonostante segnali il gravosissimo impegno (e, forse, l’inutilità) di tracciare le ricadute dei mostri danteschi nei secoli che ci separano dall’opera, non ti sottrai a un “abbozzo per una teoria del mostro come meme”. Come hai risolto quell’impegno?

L’inutilità di stilare un lungo e tedioso elenco di citazioni e ricadute dei mostri danteschi in questi 700 anni, non significa non poter tentare di analizzare i meccanismi attraverso i quali queste figure, come trasportati in una macchina del tempo, hanno brillantemente superato le diverse epoche ed il mutare dei gusti narrativi. Come ho accennato in precedenza, a mio avviso, uno dei motori principali del loro inesauribile successo, che li consegna ai moderni mezzi di comunicazione con una potenza ed una freschezza straordinarie, è la loro struttura culturale “memetica”. I mostri della Commedia, ma è una mia personalissima interpretazione, non sono altro che dei “memi”, nell’accezione primigenia data da Richard Dawkins nel suo fondamentale saggio del 1976 “Il gene egoista”. Questi mostri sono a loro volta inseriti in un’opera che potremmo definire come un “super-meme”, ovvero una magnifica super-unità culturale, una mirabile composizione di tutti quegli elementi che si replicano attraverso mezzi non genetici, per sopravvivere e diffondersi attraverso le diverse epoche e le diverse culture.

Animazioni cinematografiche, videogiochi, teatro tecno-sensoriale, arti visive realizzate con modalità elettroniche fino all’Intelligenza Artificiale: in questi nuovi strumenti post-letterari chi (o che cosa) è diventato il Mostro di quest’epoca? Ha solo nuove fattezze oppure ha assunto una nuova natura?

Tutti questi elementi a mio avviso possono ambire al ruolo di mostro contemporaneo ma, allo stesso tempo, non è detto che lo diventino. Cerco di esser più chiaro. Ognuno di questi strumenti, o i loro contenuti, possono sì divenire mostri, ma dipende sempre e comunque da chi li manovra. L’unico che forse, in prospettiva, più mi spaventa è l’Intelligenza Artificiale, e non tanto come possibile mostro alla Matrix, ma come qualcosa di più simile all’idea di Tempi Moderni di Chaplin. L’impazzire distruttivo ed autodistruttivo delle macchine, anche pensanti, che appare tragico e comico al tempo stesso. Macchine che nulla concedono al dono dell’emozione, dell’empatia e della complessità del pensiero non lineare, non binario, credo sia ciò che di più mostruoso si possa immaginare. Ma chi ha concepito tutto questo se non noi? Come cercai di evidenziare nel mio primo saggio sui mostri che tu hai ricordato prima (“Mostri: la storia e le storie”, Carocci 2018) ogni tanto è utile cercare di mettersi dalla parte dei mostri, assumere la loro prospettiva per capire, o per scoprire, se i veri mostri possiamo in fondo essere noi stessi.

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Lorenzo Montemagno Ciseri
Cerbero e gli altri
Pagine 168, Euro 15.00
Con 43 tavole a colori e 19 figure b/n
Carocci


Il filo di mezzogiorno

Chi non conoscesse la grande Goliarda Sapienza (Catania, 1924 – Gaeta, 1996) può informarsi QUI.
Per un’intervista nella quale traccia un suo ritrattio iattraverso ricordi della sua vita delicati e spudorati: CLIC.

Ora nell’adattamento scritto da Ippolita di Majo e per la regìa di Mario Martone il suo romanzo “Il filo di mezzogiorno”.conosce il palcoscenico del Teatro India.

Estratto dal comunicato stampa

«Donna fuori da tutti gli schemi e anche dalle ideologie politiche del suo tempo, Goliarda Sapienza ha combattuto la sua battaglia prima partigiana, poi femminista, sempre controcorrente e contro il conformismo che ha fatto con tutti i mezzi che aveva a disposizione, primo fra tutti la scrittura. Il suo romanzo autobiografico e scandaloso, “Il filo di mezzogiorno”, uscito per la prima volta nel 1969 da Garzanti, ora ripubblicato da La nave di Teseo, ripercorre con lucidità e una straordinaria dovizia di particolari il suo percorso psicanalitico vissuto dopo il periodo di depressione.

Ne “Il filo di mezzogiorno” quasi tutto accade nel presente continuo del mondo interno di Goliarda, secondo un modo di raccontare e un uso della dimensione temporale che assomiglia a quello del cinema. Il luogo dell’azione è il tempo dell’analisi, un tempo fatto di mondo interno, di vivi e di morti, di fantasmi, di desideri, di emozioni segrete e alle volte indicibili – riflette Ippolita di Majo – È un luogo nel quale si rincorrono personaggi che appartengono a tempi storici diversi: c’è l’analista, ma c’è anche la madre Maria Giudice, il padre Peppino Sapienza, e poi la sorella Nica, il fratello Ivanoe, e ancora Enzo, e poi Citto e le amiche Titina, Haya, Marilù. Nel mondo dell’analisi, fatto di regressione, rievocazioni, proiezioni, transfert, i vivi e i morti stanno insieme. Sul piano della scrittura questo si traduce nella compresenza di diversi registri temporali: c’è il presente dell’analisi e quello della regressione, ma c’è anche il tempo del racconto dell’analisi al lettore, il presente della scrittura del romanzo.

Dopo le rappresentazioni a Roma lo spettacolo continua la tournée a Milano, al Teatro Franco Parenti dal 1 al 6 giugno; a Napoli, al Teatro Mercadante dal 19 settembre al 10 ottobre; e a Torino, al Teatro Carignano dal 9 al 14 novembre 2021.

Ufficio Stampa Teatro di Roma:
Amelia Realino ufficiostampa@teatrodiroma.net
06.684.000.308 ###### 345.4465117

Teatro India, Roma
Lungotevere Vittorio Gassman
Il filo di mezzogiorno”
di Goliarda Sapienza
adattamento di Ippolita di Majo
Interpreti: Donatella Finocchiaro
Roberto De Francesco
Regìa di Mario Martone
20 – 29 maggio 2021


Nicla Vassallo e Giacomo Marramao


Da qualche tempo la filosofa Nicla Vassallo (QUI un suo profilo) lancia in Rete interventi nei quali riflette su temi critici della nostra società.
Spesso è in compagnia con personaggi dello scenario culturale italiano.
Molto interessante un suo recente incontro con Giacomo Marramao sui plurali femminismi esistenti.

CLIC.per ascoltare le loro voci in questo confronto svoltosi nella sede della Fondazione Lelio e Lisli Basso.


Ei fu (1)

Questo 2021 è ricco di ricorrenze che riguardano episodi e personaggi famosi, zompano fuori dalla carta stampata, dalla radio, dalla tv, dal web, perché, si sa, per i media sono prelibate ghiottonerie gli anniversari, specie quelli dalle date rotonde, di cui quest’anno .il calendario è particolarmente prodigo.
Chissà al 31.12.’21 in Italia chi vincerà la classifica delle citazioni, al momento, però, appaiono pressoché imbattibili i 700 anni della morte di Dante che dovrebbero aggiudicarsi lo scudetto.
Intendiamoci, altre importanti occasioni non mancano, si pensi, ad esempio, solo per citarne un'altra di non poco momento: quella domenica dell’11 novembre 1821 in cui nacque Dostoevskij.
Solo, però, forse un altro sarà capace di contendere la vittoria finale a Dante.
Nato di sabato a Ferragosto del 1769 (già infaticabile con quella nascita ferragostana prefigurando che mai avrebbe praticato ferie se non costretto da un esilio) e che morirà quando il calendario indicava che si era al 5 maggio 1821, insomma l’avete capito: Napoleone Bonaparte.
In tanti a ricordarlo con mostre (dalla Venaria Reale alla Pinacoteca di Portoferraio, passando per altre località), servizi giornalistici e molte pubblicazioni librarie.
Fra queste ne ho scelta una pubblicata dalla casa editrice il Mulino.
Titolo: Ei fu La morte di Napoleone.
L’autore è Vittorio Criscuolo.
Insegna Storia moderna e Storia dell’età dell’Illuminismo e delle Rivoluzioni nell’Università Statale di Milano. Tra i suoi libri: «Il giacobino Pietro Custodi» (Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1987), «Albori di democrazia nell’Italia in rivoluzione (1792-1802)» (Angeli, 2006).
Con il Mulino ha pubblicato Napoleone e.Il Congresso di Vienna.

Perché mi è particolarmente piaciuto questo volume? Principalmente per due ragioni
La prima: in un momento in cui c’è l’alluvione di biografie romanzate, Criscuolo, riesce a rendere appassionanti le sue pagine pur seguendo una rigorosa ricostruzione storica, insomma senza fare romanzerie.
La seconda: pur essendo degli ultimi anni di Bonaparte una cronaca biografica, ricorrenti sono giudizi e ipotesi di critica storica.
Ce ne sarebbe una terza che può sembrare un’ovvietà, purtroppo non è così: è un libro scritto bene, senza gli stereotipi giornalistici, senza anglicismi, senza noiose lungaggini, leggetelo e mi darete ragione.

Dalla presentazione editoriale.

«Napoleone morì il 5 maggio 1821 a Sant’Elena, isoletta sperduta nell’Atlantico dove gli inglesi lo avevano confinato sei anni prima. La notizia della sua morte giunse in Europa a luglio, suscitando vasta emozione e dando occasione a poesie, canzoni, opuscoli, stampe che celebravano la sua straordinaria vicenda. Il clima oscurantista della Restaurazione aveva riguadagnato molte simpatie allo sconfitto imperatore, ma poi il «Memoriale» pubblicato da Las Cases nel 1823 sulla base di riflessioni e ricordi di Napoleone, presentandolo come il difensore dei principi liberali e nazionali, ne rafforzò il mito che trovò la sua apoteosi nella grandiosa cerimonia del ritorno delle ceneri a Parigi nel 1840. A partire dal racconto dei giorni estremi di Napoleone a Sant’Elena, il volume segue la successiva costruzione della leggenda napoleonica che ha segnato nel profondo l’immaginario ben oltre l’Ottocento».

.Segue ora un incontro con Vittorio Criscuolo.


Ei fu (2)


A Vittorio Criscuolo (in foto) ho rivolto alcune domande.

Partiamo dal titolo manzoniano che ha voluto dare al suo libro.
Come leggiamo, Manzoni temeva che la sua ode ‘Ei fu’ venisse censurata

Sì, sappiamo che Manzoni ricevette in modo informale da un funzionario dell’ufficio di censura il consiglio di non pubblicare la poesia perché non sarebbe stata accettata. Per questo motivo Manzoni non presentò una richiesta formale all’ufficio di censura. Decise perciò di preparare con l’aiuto degli amici una diffusione clandestina dell’opera attraverso copie manoscritte.

Sottotitolo del suo “Ei fu” è ‘La morte di Napoleone’.
In tanti hanno sospettato che Bonaparte sia stato avvelenato con l’arsenico.
Possiamo escluderlo? In base a quali elementi
?

La tesi dell’avvelenamento, più volte avanzata già dai contemporanei, fu di fatto messa a tacere dalla pubblicazione dell’autopsia eseguita dal medico corso Antonmarchi alla presenza di diversi medici inglesi, documento dal quale risultava in modo incontrovertibile che il decesso era dovuto ad una perforazione allo stomaco: all’epoca non si era ancora stabilita la distinzione fra ulcera e cancro, per cui non era possibile essere più precisi. La tesi dell’avvelenamento è stata ripresa negli anni ’60 del Novecento sulla base del ritrovamento di una significativa quantità di arsenico in un capello di Napoleone. Da allora sono state eseguite molte analisi su capelli di Napoleone, con tecniche sempre più raffinate e con esiti diversi, ma in ogni caso gli studiosi non hanno mai raggiunto conclusioni certe sulle cause e sulle conseguenze di questa presenza di arsenico. Restano del tutto fantasiose le ipotesi sui modi con i quali sarebbe stato eventualmente somministrato del veleno a Napoleone, anche perché Bertrand garantì che egli aveva adottato a Sant’Elena le stesse precauzioni previste a Parigi. Quanto al presunto responsabile, le accuse si sono concentrate su Montholon, ma senza alcuna convincente indicazione del movente. La tesi dell’avvelenamento è priva di solide fondamenta.

Napoleone morì ateo oppure agnostico?

Tutte le testimonianze dimostrano che Napoleone non era credente. Considerò sempre la religione dal punto di vista politico, come un indispensabile strumento di governo, e predilesse il cattolicesimo rispetto alle religioni protestanti proprio per la sua capacità di rafforzare nei fedeli il rispetto delle leggi e l’obbedienza alle autorità. Tuttavia, allevato nella religione cattolica, non era insensibile all’importanza delle funzioni religiose nella vita di una comunità. Sappiamo che negli ultimi istanti ricevette l’estrema unzione e rimase solo per qualche tempo con il canonico Vignali, ma non è possibile dire se ricevette il sacramento della confessione. Le testimonianze pervenuteci dimostrano per altro che durante l’esilio a Sant’Elena, di fronte al pensiero della morte ormai non lontana, meditò più volte sulla sorte degli uomini dopo la conclusione della loro esistenza e sulla consolazione che l’idea di una vita ultraterrena è in grado di dare.

Le due sconfitte che subì prima a Lipsia poi a Waterloo sono da attribuire a suoi errori oppure a quelli di suoi ufficiali?

Per quanto concerne Lipsia, fu costretto a dividere le sue forze, notevolmente inferiori a quelle degli alleati (circa la metà), in tre gruppi di attacco affidati a Davout, a Ney e a se stesso. Mentre egli riuscì a fermare il nemico a Dresda (26-28 agosto 1813), Davout e Ney furono battuti. Pesò qui soprattutto la scarsa capacità dei suoi generali di prendere iniziative autonome: essi erano abituati ad un’obbedienza passiva agli ordini del capo. Nello scontro decisivo a Lipsia (16-19 ottobre 1813 i rapporti di forza erano ancora più sfavorevoli ai francesi; in questo caso si è discussa soprattutto la passività di Napoleone, il quale il giorno 17, prima dello scontro finale, mantenne la sua armata inattiva. Probabilmente sapeva di non essere in condizione di ingaggiare una battaglia offensiva.
Per quanto concerne Waterloo, è noto che Napoleone, dopo avere battuto i prussiani di Blücher, mandò al loro inseguimento il generale Grouchy. I prussiani però riuscirono a sganciarsi e la loro irruzione sul campo di battaglia nel tardo pomeriggio decise le sorti della giornata rimaste fino ad allora incerte. Anche in questo caso fu decisiva l’irresolutezza di Grouchy che, pur avendo sentito da lontano l’eco della battaglia, non prese la decisione di contravvenire agli ordini ricevuti e di puntare direttamente sulla piana di Waterloo.

Quale fu il rapporto che Bonaparte ebbe con gli ideali della Rivoluzione?

Fu un rapporto complesso, non privo di ambiguità. Napoleone fu certamente figlio della rivoluzione perché da essa ricevette lo strumento dei suoi trionfi, le armate rivoluzionarie che si erano formate con la grande leva di massa degli anni 1793-1794. Dopo la conquista del potere, egli si presentò come restauratore dell’ordine e della pace: la sua capacità di chiudere la rivoluzione gli guadagnò il consenso di larga parte della popolazione, stanca di dieci anni di guerre civili. In seguito, Napoleone, stabilendo l’Impero ereditario, volle dare al suo regime una forma monarchica, anche se diversa da quella di antico regime, e fece rinascere in forme nuove anche la nobiltà. Queste decisioni lo staccavano certo dall’eredità della rivoluzione, ma egli sapeva che il suo Impero era nato e si manteneva in quanto garante dei principi affermati dalla rivoluzione, e infatti diffuse quei principi in tutti i territori conquistati dalle sue armate. Anche a Sant’Elena si mostrò ben consapevole che l’odio dei sovrani assoluti nei suoi confronti era dovuto proprio al fatto che essi vedevano in lui l’erede della rivoluzione. Nelle memorie raccolte da Las Cases egli stesso accentuò questo motivo, giustificando l’autoritarismo del suo regime come una necessità imposta dalle circostanze, e si presentò alla pubblica opinione mondiale come un fautore dei principi di libertà e di nazionalità che erano stati ignorati dal congresso di Vienna.

In parecchi affermano: ottimo generale ma pessimo politico.
Le cose stanno così o in modo diverso? Qual è il suo pensiero
?

Napoleone agli inizi della sua carriera militare sostenne il governo della Montagna e fu amico del fratello minore di Robespierre, Augustin, ma in seguito, sotto il regime del Direttorio, seppe muoversi con abilità negli ambienti parigini allo scopo di far dimenticare quei suoi trascorsi rivoluzionari. Nella prima campagna d’Italia (1796-1797) egli agì con spregiudicatezza, non rispettando gli ordini di Parigi che intendevano sfruttare i territori conquistati e farne merce di scambio al momento della pace. Fondando in Italia alcune repubbliche, contro la volontà del Direttorio, fece della penisola la base della sua ascesa politica. Una volta conquistato il potere, dimostrò sempre grande lucidità politica; anche a Sant’Elena le sue valutazioni, raccolte da Las Cses e dagli altri suoi compagni di esilio, dimostrano una straordinaria capacità di comprendere i nodi di fondo della situazione politica europea.

Quando su questo sito incontro uno storico, concludo con la stessa domanda.

- Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".

“La Rivoluzione liberale”, 1924.

- Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".

“Le avventure del cuore”, 1945

- Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".

“La tortura delle mosche”, 1992.

E per Vittorio Criscuolo la Storia che cos'è
?

Riprendo una frase di George Santayana (1863-1952), che vale per gli individui ma anche per i popoli: “Chi non ricorda il proprio passato è condannato a riviverlo”.

…………………………..

Vittorio Criscuolo
Ei fu
Pagine 232, Euro 16.00
e-book € 11,99
Formato: ePub, Kindle
il Mulino


Il pianoforte di Einstein


La casa editrice Hoepli ha pubblicato un libro che racconta un’appassionante storia, realmente accaduta, che vede tra i protagonisti una celebre figura del secolo scorso.
Titolo del volune: Il pianoforte di Einstein Vita e storie in bilico tra Firenze, Europa e America.
Ne sono autori Marco Ciardi e Antonella Gasperini.
Ciardi è professore ordinario di Storia della scienza e delle tecniche all'Università di Firenze. Conta oltre 200 pubblicazioni, in Italia e all'estero.
Su questo sito è già intervenuto in occasione del suo Il mistero degli antichi astronauti e Frankenstein (quest’ultimo scritto con Pier Luigi Gaspa).
Per Hoepli ha pubblicato Marie Curie (2017), Il segreto degli elementi (2019) e Breve storia delle pseudoscienze .

Gasperini è responsabile del Servizio Biblioteche, Musei e Terza Missione dell'Istituto Nazionale di Astrofisica ed è autrice di pubblicazioni sulla storia dell'astronomia. Collabora alle attività di disseminazione della cultura scientifica dell'Osservatorio Astrofisico di Arcetri.

QUI pagine estratte da “Il pianoforte di Einstein”.

Ai due autori.ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia a bordo di Cosmotaxi.

Com’è nato questo libro ?

Grazie alla generosità di Angela e Jacopo Staude, dalla primavera del 2016 l’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, struttura di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), custodisce un pianoforte Blüthner, numero di matricola 51833, costruito a Lipsia nel 1899 e appartenuto a loro padre Hans Joachim. Uno strumento «particolare», con una storia e un passato unici. Lo strumento si trova ad Arcetri grazie all’interessamento di Francesco Palla, direttore dell’Osservatorio dal 2005 al 2011. Venuto casualmente a conoscenza dell’esistenza del Blüthner, Francesco Palla si appassionò alle sue vicende e a quelle dei personaggi che vi si riunivano intorno, favorendone l’arrivo all’Osservatorio ed i primi studi furono fatti appunti da lui. La sua prematura scomparsa all’inizio del 2016 non gli ha consentito di poter approfondire le storie legate allo strumento. Il Bluthner era stato donato nel 1931 da Albert Einstein alla sorella Maja che viveva nella campagna tra Firenze e Sesto Fiorentino ed era rimasto presso di lei fino al 1939 anno in cui dovette emigrare negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali. In quell’occasione era stato affidato ad Hans Joachim Staude e presso di lui rimarrà fino alla sua morte, per poi passare ai figli e dal 2016 all’Osservatorio di Arcetri. Negli ultimi anni sono stati organizzati concerti/eventi che coniugassero la scienza alla musica e che facessero conoscere la particolare storia del pianoforte. Spinti da un comune interesse ed entusiasmo, nel corso del 2018 abbiamo cominciato a pensare alla possibilità di dare una forma più strutturata alle informazioni che avevamo fino a quel momento ed abbiamo deciso di provare a sviluppare la rete di storie che si muovevano intorno al Bluthner.

Quanto tempo avete impiegato fra ricerche e stesura del testo?

Abbiamo cominciato a lavorarci sul serio nel 2019, purtroppo mai a tempo pieno, ma incastrando lo studio e la ricerca fra gli impegni lavorativi e di didattica. Fondamentali sono state le lunghe conversazioni con Jacopo e Angela Staude che hanno condiviso in più momenti i loro ricordi ed aperto i loro archivi. In particolar modo, siamo riconoscenti a Jacopo per la pazienza avuta nei nostri confronti, per le lunghe chiacchierate, e per averci aiutato a leggere e tradurre dal tedesco lettere spesso poco significative. La pandemia non ci ha certo facilitato il compito. Ma bisogna dire che ormai le risorse in rete sono straordinarie e tutte le istituzioni italiane e straniere alle quali abbiamo richiesto materiale hanno risposto prontamente e sempre con la massima disponibilità.

Chi vi ha più aiutato nel vostro lavoro?

La pandemia ha reso l’accesso a biblioteche e archivi più difficile, soprattutto perché la chiusura degli istituti culturali è avvenuta proprio nel momento in cui eravamo nel vivo della scrittura del testo. Rimarrà però indelebile nella nostra memoria il giorno in cui siamo riusciti ad accedere alla sala manoscritti della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze dopo mesi di chiusura. Nonostante la difficoltà generale esterna abbiamo trovato sempre molta disponibilità, in particolare modo ci preme ricordare il personale della Biblioteca provinciale dei frati minori e del Convento di San Francesco di Fiesole che ci hanno consentito di accedere non soltanto ai documenti conservati ma anche di sedere sul “sasso di Einstein”.

Come avete integrato il lavoro fra voi due?

Abbiamo sempre lavorato in sinergia, nel rispetto delle competenze di ognuno, condividendo fin da subito l’impostazione e l’entusiasmo che si rafforzava man mano che trovavamo nuovi fili che contribuivano alla costruzione della trama della storia.

Quale influenza hanno avuto gli anni del nazifascismo sulla storia del pianoforte?

Sono stati determinanti ai fini della storia narrata nel libro. Se non ci fossero state le leggi razziali che costrinsero Maja Einstein a dover lasciare l’Italia all’inizio del 1939 per recarsi dal fratello Albert a Princeton, il pianoforte sarebbe probabilmente rimasto nella casa di Maja e Paul Winteler nella campagna vicino a Firenze ed avrebbe avuto una sorte diversa. Alla partenza per gli Stati Uniti Maja decise di affidare lo strumento a lei tanto caro al giovane amico pittore Hans-Joachim Staude, soprannominato “Anzio”, un tedesco che, come lei, aveva scelto Firenze come luogo di elezione. Con Anzio Maja era solita suonare pezzi a quattro mani e condividere la passione per la musica. Maja parte per gli Stati Uniti con l’idea che presto sarebbe tornata in Italia. Purtroppo, nonostante i tentativi di un possibile rientro dopo la fine della guerra, Maja non tornerà più in Europa e morirà a Princeton nel 1951.
Nel libro si intersecano alla vicenda dei protagonisti storie di persecuzioni razziali, di esilio e di morte di donne e uomini, musicisti, scienziati e artisti, che vengono toccati, e talvolta travolti, dalla tragedia del nazifascismo e della seconda guerra mondiale. In particolare, nel volume vengono dedicate delle pagine a quella che è conosciuta come la “strage del Focardo” un episodio di efferata crudeltà avvenuta nell’agosto del 1944 nei confronti della famiglia di Robert Einstein, cugino di Albert che viveva nella campagna toscana.

Romanzieri di ieri e di oggi hanno sostenuto che gli oggetti parlano.
Immaginate che cosa potrebbe dire quel pianoforte
...

Molte cose potrebbe dire il Bluthner 51833 da quando è uscito dalla fabbrica di Lipsia nel 1899… niente sappiamo del suo destino fino al 1931, quando comprato da Albert Einstein è stato fatto spedire in Italia per far risuonare le sue note all’ombra di ulivi e cipressi. Sappiamo che poi ha incontrato persone, che ha condiviso emozioni e sentimenti, che ha vissuto nelle case come un oggetto di famiglia…ma forse ci vuol semplicemente dire che il potere della musica è talmente forte che è in grado di sopravvivere ad ogni male… o forse piace pensarlo a noi.

……………………...…….…………..

Marco Ciardi – Antonella Gasperini
Il pianoforte di Einstein
Pagine XXII - 266, Euro 22.00
con 41 illustrazioni
Hoepli


La mia storia suona il rock (1)


Ha scritto Marcel Proust: “Le canzonette, la musica da ballo, servono a conservare la memoria del passato, più della musica colta, per quanto sia bella”.
Giusta riflessione che investe ragione e sentimenti. Poi, quando la cultura sarà analizzata “come complesso di fenomeni sociali di cui fan parte a pari titolo l’arte come lo sport” (Umberto Eco), si avrà una benvenuta posizione nettamente alternativa rispetto ai principî della filosofia idealistica. Si capirà che proprio attraverso momenti del nostro consumo quotidiano, prima considerati minori, c’è la possibilità di rintracciare segni, tic, tabù, percorsi, che veicolano la Storia, permettendoci di capire la società che ci circonda.
Fra quei segni: le canzoni. Che non sono solo canzonette.
Un magnifico libro che conferma quanto prima ho scritto è stato pubblicato dalla casa editrice Tempesta. S’intitola La mia storia suona il rock Da Elvis ai dj set: suoni, musiche e canzoni tra mode e movimenti.
Ne è autore Luca Pollini. Già altre volte gradito ospite di questo sito.
Giornalista e saggista, cresce e si forma nella Milano degli anni Settanta. È autore di reading teatrali e saggi di storia contemporanea.
Ha scritto: La musica è cambiata; Ordine compagni; Woodstock non è mai finito. Per Tempesta Editore ha pubblicato.Gianni Sassi il provocatore.

Dalla presentazione editoriale.

«Più di mezzo secolo di musica, dagli anni Sessanta a oggi, che s’intreccia inevitabilmente alla storia, che muta con il passare del tempo, delle mode, delle generazioni; ascoltata alla radio e su un giradischi, suonata durante un’occupazione, una manifestazione o all’interno di un palasport, copiata su una musicassetta o un cd-rom, duplicata su un file, vista sul monitor di uno smartphone. Oltre che un percorso storico, questo libro vuole essere anche un omaggio alla musica, linguaggio universale che tutti sono in grado di comprendere».

QUI l’attore Marco Paoli legge un importante passaggio del libro di Luca Pollini.

Ancora una cosa. Nell’ultima pagina l’editore fornisce la notizia che segue.
“La prima copia di questo libro è stata stampata il 3 aprile del 2021. In questo stesso giorno del 1973 Martin Cooper effettua la prima telefonata con un telefono cellulare portatile”,
Ecco un’idea che mi piacerebbe vedere imitata: agli altri editori in fondo non dovrebbe essere difficile perché qualcosa è successa, bella o brutta che sia, in ogni data nella storia di noi umani.

Segue ora un incontro con Luca Pollini.


La mia storia suona il rock (2)


A Luca Pollini (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come ho ricordato prima, altri tuoi libri precedono questa pubblicazione. Che cosa ti ha portato proprio adesso a scrivere “La mia storia suona il rock”?

La musica leggera è lo specchio più immediato e reale di quello che è un momento storico, la forma d’arte che più di ogni altra rappresenta i sentimenti della gente. È dopo essermi occupato degli anni Sessanta e Settanta, volevo fare una sorta di riassunto degli ultimi cinquant’anni di Storia (con la S maiuscola). Non è un’autobiografia, è solo un percorso storico e sociologico, ovviamente anche musicale - soggettivo: il mio, quello dei miei anni. La colonna sonora della mia storia, fatta non solo di rock e buona musica italiana, perché nelle mie orecchie è entrato di tutto: dal rock sopraffino al tormentone estivo; dalla discomusic alla canzone politica. Ho sempre pensato che il rapporto tra musica e memoria sia molto stretto e che si svolga non solo sul piano personale, ma anche su quello collettivo così, seguendo questa traccia, ho preso in esame la cronaca e la mutazione dei costumi di cinquant’anni e l’evoluzione della musica.

La metà degli anni Settanta nei quali sei cresciuto e formato hanno visto l’esplosione di nuova espressività nelle arti visive, nel teatro, nella grafica, nel cinema underground. Perché proprio la musica è quella che più ha segnato il tuo, e non soltanto tuo, tracciato di esistenza e di memoria?

Per quelli della mia generazione la musica era tutto, spero lo sia anche per i millennial e per i giovani che verranno perché possiede un potere eccezionale: è in grado di raggiungere chiunque bypassando ogni barriera, sia essa fisica o culturale. Canzoni, suoni e musiche fanno parte del patrimonio culturale di generazioni e aiutano a ricordare - e forse a conoscere meglio - la Storia, mantenendo vivi quei sentimenti che hanno determinato la volontà di agire.

Giugno 1976. Che cosa significa il Parco Lambro nella scena musicale e politica di allora?

Negli anni Settanta il Festival di Re Nudo rappresenta uno degli appuntamenti fondamentali per la controcultura proponendo per i giovani di sinistra un’alternativa alla sclerotizzata Festa de L’Unità. È il periodo in cui anche i concerti rock iniziano ad acquistare importanza sociale, svolgono una funzione aggregativa e di rafforzamento degli ideali. L’edizione del Festival del 1976 non è più solo un appuntamento dei giovani di sinistra, perché all’interno del Parco Lambro di Milano circolano tutti, dagli indiani metropolitani agli spacciatori, dai semplici teppisti agli studenti, dagli autonomi e persino qualche fiancheggiatore della lotta armata. Le migliaia di polli surgelati, rubati dalle celle frigorifere degli stand e gettati in un fosso del Parco Lambro assieme alle immondizie, simboleggiano la drammatica fine della gioia e della condivisione. la fotografia di una generazione allo sbando. È il momento più negativo della controcultura, che segna l’inizio di un lungo periodo di stasi nella musica e che pochi anni più tardi sfocerà nella Milano da bere.

Il rock anni ’60, il punk anni ’70, l’house anni ’80, la techno anni ’90, che cosa ti dice questo percorso musicale dello scenario sociale che lo connota?

La musica non è solo ballo, spettacolo, e divertimento, ma esprime in una serie di azioni comunicative e culturali. E dagli anni Sessanta diventa simbolo d’identità e, grazie ai concerti, rito di aggregazione. Con lo scorrere dei decenni si trasforma in un linguaggio attraverso il quale le generazioni comunicano e si trasforma in strumento di protesta, lotta e denuncia sociale. Prima negli Stati Uniti, poi in Europa, i giovani scendono in piazza per ribellarsi a un sistema che gli va ormai stretto e lo fanno urlando e, soprattutto, suonando e cantando, trasformando così la musica in grande collante della contestazione. Libertà e affermazione sono il comune denominatore di quasi tutti i movimenti giovanili che si sono alternati nei vari decenni, dai Sessanta in poi. Nell’arco di cinquant’anni si è passati dal rock alla disco, dal punk alla techno, dai rave ai dj set, canzoni e suoni che nascondono tra le loro tracce proteste, emancipazioni, conquiste, messaggi e che raccontano avvenimenti, diffondono ideologie, pensieri, idee di rivolta, di ribellione di giovani che - attraverso le nuove “musiche” - si identificano e distinguono il “proprio” territorio con quello del nemico. Musica e canzoni si sono trasformate in un salvagente a cui aggrapparsi.

La musica negli anni Settanta e dintorni ha avuto un marcato segno politico. Perché oggi è raro, se non rarissimo, quel tipo di segno?

La canzone ha segnato la Storia, ha accompagnato guerre, momenti di gloria, di conquiste sociali. Non sono sempre state solo canzonette, anzi. «In qualsiasi società ben fatta – cito Mario Baroni, direttore del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’università di Bologna - se la musica serve a qualcosa deve servire a parlare agli uomini lì presenti. Le canzoni lo fanno, e per questo hanno una funzione fondamentale nella vita della nostra società». Ecco, lo stato attuale della nostra canzone – e non lo dico io che non sono un critico e nemmeno un giornalista musicale, ma artisti, addetti ai lavori, esperti in materia - versa ai minimi storici. I testi odierni - tranne rare eccezioni - non spiegano il mondo e la realtà, nella migliore delle ipotesi, è un elenco di luoghi comuni che vorrebbero fustigare la società, ma che sono poco più che didascalie. Viviamo un periodo di decadenza: morale, culturale ed economica. Sono convinto che rimarrà ben poco di quello che oggi viene prodotto in campo musicale e non solo. Non è colpa di nessuno: come negli anni Sessanta e Settanta la spinta ideologica e sociale ha enormemente contribuito alla creazione di grandi capolavori, l’odierna mancanza di ideali scaturisce purtroppo l’effetto contrario. Il momento storico predilige infatti l’approccio “usa e getta”, sia dal punto di vista della produzione, sia per quanto riguarda l’utilizzo del lavoro completato. E l’opera musicale non fa eccezione. Si è imposto un nuovo sistema di fruizione della musica legato più alle nuove tecnologie penalizzando il contatto - fondamentale per un artista: è necessario ritrovarsi in uno studio di registrazione o confrontarsi con il pubblico in un piccolo club.
Tutti sanno come stare su un palco, davanti a una telecamera, magari sono pure capaci di suonare - ci sono ragazzi preparati e virtuosi nello strumento musicale - non sono progredite invece le composizioni musicali. Mentre la tesi del critico musicale Michele Monina è molto più lapidaria: «La musica pop è lo specchio di una società e una società in crisi non può che avere una musica di merda».

Fra molte polemiche e contrapposizioni, ci sono alcuni che sostengono essere la musica trap la nuova carica d’opposizione radicale socio-musicale. Tu che ne pensi?

Mah, non sono molto d’accordo. La Trap House, che assume il significato di appartamenti abbandonati e richiama gli appartamenti in cui gli spacciatori di Atlanta erano soliti ritrovarsi. Nasce quindi con un preciso riferimento all’ambiente in cui si sviluppa e la conferma la si ha dai testi, i soggetti trattati riguardano prettamente tematiche quali droga, sesso, successo, fama e soldi. Tutti argomenti legati in qualche modo a contesti di degrado, criminalità e disagio. Mi sembra che tutto ciò non c’entra nulla con proteste politiche e opposizioni sociali.

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Luca Pollini
La mia storia suona il rock
Prefazione di Carlo Massarini
Pagine 340, Euro 22.00
Con inserto fotografico b/n
Tempesta Editore


L'uomo col cappello di feltro


Cent’anni fa nasceva un protagonista dell'arte del XX secolo: Joseph Beuys (Krefeld 12.5.1921 – Düsseldorf 23.1.1986).
Nel secondo conflitto mondiale, mitragliere della Luftwaffe, precipitò in una località dove, come racconta, lo salvò una tribù di Tartari cospargendolo di grasso e feltro, elementi che ritroveremo spesso nelle sue opere.
Su quella storia non pochi nutrono dubbi. Racconto vero? Falso? Chissà.
L’episodio dà lo spunto QUI all’impagabile Sergio Messina per una riflessione su Beuys e sull’arte.
Vicino al movimento “Fluxus” dal 1962, Beuys organizzò numerosi happenings, (tra i quali la memorabile II edizione del Festival “Festum Fluxorum Fluxus”, 1963) all’Accademia di Düsseldorf, dove insegnò dal 1962 al 1972 anno in cui fu espulso per aver sostenuto l’occupazione studentesca.
Sosteneva che in ogni uomo c’è un artista… mah!… qualora avesse incontrato, ad esempio, Calenda, Renzi, La Russa, l’avrei vista dura per lui.
Altra impresa artistica famosa la compì a “Documenta VII” dove effettuò un’azione di rimboschimento con settemila querce.
“Servirebbe molto spazio” – scrive Per Luigi Masini – “per descrivere Joseph Beuys, intellettuale raffinato e sensibile, amante del pensiero di Søren Kierkegaard e della musica di Richard Strauss ed Erik Satie (…) Artista e performer che nel 1974, a New York, si fece chiudere per tre giorni e tre notti in una gabbia con un coyote. Soli lui e l’animale che incarna il mito dei Nativi americani, lui e una coperta di feltro, un bastone da sciamano e molte copie del “Wall Street Journal” (non per leggerle); «Volevo isolarmi, non vedere nient’altro che il coyote». Troverà un modo di convivere con l’animale selvatico e quella gabbia sarà l’unica America che vedrà, insieme alla New York che gli scorrerà dal finestrino del taxi che l’aveva portato lì dall’aeroporto”.

In Italia il centenario della nascita è stato ricordato con un film trasmesso da Sky Arte, mentre una mostra di lunga durata è visitabile a Napoli presso casa Morra.
A Milano sono programmati una serie di indovinati appuntamenti al Teatro Out Off. Fra questi di particolare interesse una mostra a cura di Patrizio Peterlini con opere e documenti dalla Collezione Luigi Bonotto, mostra che con elogiabile intuito cita il famoso manifesto di Beuys del 1985: “Le cose iniziano ad andare male quando qualcuno va a comprare un telaio e una tela”.


Sapori della mente


“Ludolinguistica” è una voce che troviamo registrata per la prima volta sullo Zingarelli 1998 – che la definisce “branca della linguistica che si occupa di giochi di parole”, definizione giusta ma parecchio restrittiva perché a quell’area alcuni assegnano (forse discutibilmente) perfino quel capolavoro di Raymond Queneau Centomila miliardi di poesie.
Purtroppo, sono in molti a considerare il gioco una vacanza, una pausa nella vita vera, sono quelli che ci ammorbano l’esistenza. Perché il gioco lo spiegò bene Johan Huizinga in quel suo famoso libro del 1940 “Homo ludens” è la cosa sicuramente più vera che esista e scrisse: “Il gioco è innegabile. Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito, Dio. Si può negare la serietà. Ma non il gioco”.
Se poi il gioco è praticato sulle parole, cioè sul primo strumento di comunicazione fra gli umani, ecco che assume la dimensione di una vertigine fra disvelamenti ed epifanie, memoria e premonizioni.

Già altre volte su questo sito ho scritto sull’Oplepo vispo gemello bionico del sito Oulipo che storicizza, spiega e connota quel grande movimento che freme nell’acrobatica letteratura potenziale.
L’Oplepo oltre a organizzare convegni animati in più giornate, incontri con autori e mostre, pubblica deliziosi librini, ma pure corposi tomi che portano aria finalmente respirabile nella soporifera atmosfera delle lettere italiane.
Un volume che raccomando alla lettura è, per esempio, Sapori della mente Dizionario di Gastronomia Potenziale (in foto la copertina) pubblicato dalle edizioni in riga.
Autore di molti testi contenuti nel volume e curatore del libro tutto è Raffaele Aragona tra i fondatori dell’Oplepo e suo inesauribile carburante.
Così scrive concludendo la prefazione: Il volume, con un rapido accenno alla storia e alle tematiche della letteratura à contrainte, contiene testi di carattere gastronomico: i laboratori dell'Oulipo e dell'Oplepo, però, non producono nuovi prodotti gastronomici né diverse procedure culinarie, bensì assemblaggi, combinazioni il cui legame non è necessariamente quello del gusto e dei sapori ma un nesso d'altro tipo. Vengono così fuori storie gastronomiche e menu caratterizzati esclusivamente da una unicità cromatica, da riferimenti letterari o cinematografici, dal rispetto di regole che non hanno a che fare con la cucina ma con la retorica, non con i fornelli ma con la combinatoria, non con i tempi di cottura ma con la metrica, non grammi ma lipogrammi, non crostacei ma acrostici, non pasticci ma bisticci, non glasse ma glosse, non ossibuchi ma ossimòri. Del resto lo stesso "D'une théorie culinaire" di Noël Arnaud poneva l'attenzione su tutto quanto vi fosse di commestibile nell'universo incommestibile, esaltando una cucina di eccezioni. Non è detto, però, che le pietanze, esito di queste strane ricette o elencate nei sorprendenti menu potenziali, non siano immediatamente edibili né che non lo diventino col tempo; resterà in ogni caso il piacere di leggere nuove combinazioni di alimenti atti a suscitare la nostra fantasia e che, eventualmente, saranno anche da gustare.

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OPLEPO
Opificio di Letteratura Potenziale
Piazza dei Martiri 30, 80121 Napoli
info@oplepo.com
tel. +39 081 764.2888
fax +39 081 764.3760


Gli specialisti dell'odio (1)


La casa editrice Giuntina ha pubblicato un importante libro intitolato Gli specialisti dell’odio Delazioni, arresti, deportazioni di ebrei italiani.
Ne è autore un grande studioso: Amedeo Osti Guerrazzi collaboratore con la Fondazione Museo della Shoah.
Tra le sue pubblicazioni: “Caino a Roma. I complici romani della Shoah”, Cooper, Roma, 2006; “Gli italiani e le leggi razziali”, in Liana Novelli Glaab; “Ebraismo e antisemitismo nella società italiana. Una storia discontinua”, Frankfurt am Main, Biblioteca italiana, 2018; ”La persecuzione degli ebrei a Roma. Carnefici e vittime”, in Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia (a cura di); “Dopo il 16 ottobre. Gli ebrei a Roma tra occupazione, resistenza, accoglienza e delazioni (1943-1944)”, Roma, Viella, 2017; “L’Historiographie de la Shoah en Italie. 1995-2015”, in “Revue d’histoire de la Shoah”, n° 206, Mémorial de la Shoah, 2017.

Dalla presentazione editoriale

«Durante l’occupazione nazista dell’Italia, tra il settembre 1943 e il maggio 1945, migliaia di ebrei italiani furono traditi, arrestati e deportati nei campi di sterminio. Chi furono i responsabili di questo crimine? Quali furono i rapporti tra nazisti e fascisti nella persecuzione degli ebrei? Quali procedure misero in atto questi “specialisti dell’odio”? Basandosi su materiale d’archivio in gran parte inedito e sulle acquisizioni della storiografia italiana e straniera più recenti, questo libro ricostruisce la prassi della persecuzione e le dinamiche di collaborazione che le forze d’occupazione tedesche instaurarono con gli apparati fascisti. Lo studio, prendendo in considerazione alcune zone specifiche – Roma, Milano, Torino, Genova, Firenze, Bologna, Trieste e le due province al confine di Como e Varese –, mette anche in luce il contributo che non pochi cittadini italiani comuni diedero, attraverso delazioni, tradimenti e violenze, al piano nazista di sterminio».

Segue ora un incontro con Amedeo Osti Guerrazzi


Gli specialisti dell'odio


Ad Amedeo Osti Guerrazzi, (in foto), ho rivolto alcune domande.

Fra ricerche in archivi, letture di testi, stesura del saggio, quanto tempo hai speso?

Sono circa venti anni che lavoro su questo argomento. Certo non tutti spesi solo su questa ricerca, ma ho cominciato all'inizio di questo secolo.

Nell’accingerti a scrivere questo libro qual è la cosa che hai deciso di praticare assolutamente per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Ho sempre cercato riscontri ai tanti miti e alle tante leggende sull'argomento. E quindi ho sempre cercato di evitare di farmi fuorviare dalle storie che avevo sentito raccontare a dalle tante immagini mentali che si accumulano in ognuno di noi

Quale fu la reazione di noi italiani alle leggi antisemite promulgate a partire dal 1938? Adesione? Indignazione? Indifferenza?

In gran parte indifferenza. Teniamo conto anche che gli ebrei in Italia erano, e sono, una minuscola minoranza, e pertanto per la stragrande maggioranza degli italiani erano dei perfetti sconosciuti. Ci furono anche molti che ne approfittarono, per la carriera, per eliminare dei concorrenti scomodi. Ad esempio molti commercianti.

Mussolini sapeva o non sapeva cosa stavano combinando i nazisti con gli ebrei ?

Mussolini sapeva tutto fin dal 1942. Sapeva degli stermini, sapeva della violenza. La sera del 15 ottobre 1943 diede udienza a Karl Wolff, il comandante delle SS in Italia, e al console Moellhausen, che era contrario alla razzia. Non esiste un protocollo di quella riunione, ma è praticamente certo che ne abbiano parlato

La RSI dichiarata Stato indipendente lo era? Oppure dipendeva da Hitler? Se sì in quale misura?

La RSI dipendeva in tutto e per tutto dai nazisti. Senza il loro apparato militare non sarebbe durata neanche un mese

La Resistenza si legge in una tua pagina “non ha fatto nulla per colpire i meccanismi della Shoah”. A che cosa attribuisci quel comportamento?

Sicuramente la Resistenza voleva risolvere il problema in maniera radicale, cioè cacciando i nazisti. Ma c'era anche tanta, troppa indifferenza pure nella Resistenza nei confronti degli ebrei.

I delatori che denunciavano ebrei e antifascisti alla polizia tedesca e italiana lo facevano per motivi ideologici o solo per denaro?

In gran parte lo facevano per denaro oppure per un guadagno personale. Ad esempio saccheggiandone le case. Furono molto pochi quelli che lo facevano perché convinti ideologicamente

Traccia un sintetico profilo di uno specialista dell’odio

Un uomo che è cresciuto in un clima antisemita, che è convinto che soltanto eliminando gli ebrei la sua nazione possa raggiungere quella compattezza razziale che porta, a sua volta, alla grandezza. Un fanatico e un criminale.

Quando su questo sito ospito uno storico, l’incontro si conclude sempre con la stessa domanda.

- Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924.

- Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945

- Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992.

E per Amedeo Osti Guerrazzi la Storia che cos'è
?

La storia, parafrasando Hosbawm, è ciò che i popoli vogliono dimenticare, e che lo storico deve far loro ricordare.

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Amedeo Osti Guerrazzi
Gli specialisti dell’odio
Pagine: 352, Euro 17.10
Giuntina


Al rogo!!Al rogo!


10 maggio 1933: nella piazza del Teatro dell'Opera di Berlino i nazisti in un grande rogo diedero alle fiamme i libri che contrastavano la loro ideologia.
Contemporaneamente anche in altre città si ebbero altre pire.
Il ministro della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels alla radio pronunciò un violento discorso, dicendo: “Studenti, uomini e donne tedesche, l’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi. Vogliamo educare i giovani ad avere il coraggio di guardare direttamente gli occhi impietosi della vita. Vogliamo educare i giovani a ripudiare la paura della morte allo scopo di condurli a rispettare la morte. Questa è la missione del giovane e pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato. È un’impresa forte, grande e simbolica, un’impresa che proverà al mondo intero che le basi intellettuali della repubblica di novembre si sono sgretolate, ma anche che dalle loro rovine sorgerà vittorioso il padrone di un nuovo spirito”.

Non era la prima volta nella storia di noi umani che dei libri venivano inceneriti.
QUI un parziale riassunto nei secoli di quell’infamia. Riassunto non esaustivo perché, per dirne una mica da poco, ho notato che non è ricordata la “Rivoluzione culturale” maoista durante la quale furono dati alle fiamme milioni di libri “borghesi e imperialisti”. I comunisti russi, anni prima, erano stati più efficaci colpendo fisicamente alcuni artisti e intellettuali e terrorizzando quanti non si allineavano alle direttive kominterniste fino ad arrivare anni dopo alle cosiddette purghe staliniste dove trovarono la morte tanti fra narratori, poeti, pittori, musicisti.
E ancora: in Polonia, pochi anni fa, preti cattolici hanno dato alle fiamme libri considerati blasfemi.
Insomma, i libri li bruciano tutti quelli che credono in un pensiero unico e quando in un paese si afferma un governo totalitario, di qualunque colore sia dipinto, i volumi ad esso contrario corrono gravi rischi e, subito dopo o subito prima, i loro autori.

Sul 10 maggio 1933 esiste una buona documentazione in Rete, ho scelto il filmato che segue perché mi è sembrata una trasmissione ben condotta, troverete giovani studiosi, un affermato saggista, foto e filmati d’epoca. CLIC!


Claretta l'hitleriana (1)

La casa editrice Longanesi ha pubblicato Claretta l’hitleriana Storia della donna che non morì per amore di Mussolini.
L’autrice è Mirella Serri.
Docente di Letteratura moderna e contemporanea, collabora al quotidiano La Stampa, TTL, Rai Storia e Rai Cultura. Presso Corbaccio ha pubblicato nel 2005 I redenti.
Con Longanesi, nel 2012, Sorvegliati speciali, seguiranno poi Un amore partigiano. Gianna e Neri, eroi scomodi della Resistenza, Gli invisibili, Bambini in fuga, Gli irriducibili.

Di un ritratto della Petacci proprio da Mirella Serri ne avevamo avuto già un felice anticipo nello splendido “Gianna e Neri. Un amore partigiano”,

Dalla presentazione editoriale di “Claretta l’hitleriana”.
«Di lei hanno detto di tutto: che era una ragazza semplice e un po’ folle; che fu il suo amore cieco per Mussolini (da cui la separava una differenza d’età di quasi trent’anni) a condurla alla morte; che era una fanatica esaltata; che era tanto bella quanto insidiosa. Ma si tratta di una Storia scritta dagli uomini. La nuova indagine di Mirella Serri offre un’immagine differente, restituendo a Claretta Petacci il vero ruolo politico da lei giocato sullo scenario degli eventi che condussero il leader del partito fascista dalla gloria indiscussa alla sconfitta. Non una sciocca, non soltanto una delle «mantenute di Stato» – le amanti del Duce che percepivano uno stipendio dal regime – ma un’abile e astuta calcolatrice. Pronta ad avvalersi delle informazioni riservate di cui era depositaria per gestire attività ad altissimo livello (antisemita convinta diede il suo apporto al traffico di certificati falsi da vendere alle famiglie ebree più facoltose; cercò di avviare accordi per l’estrazione di petrolio in Romania). Avveduta e intrigante, a Salò sposò la causa del Reich e tentò di porsi come diretta interlocutrice di Hitler.
Claretta Petacci, una delle protagoniste del Novecento, emblema femminile del volto buio e tragico del secolo passato, rivive in queste pagine con la sua avidità, i suoi errori, la sua sensualità e le sue astuzie, finalmente libera dagli stereotipi con cui è stata finora raccontata».

Segue ore un incontro con Mirella Serri.


Claretta l'hitleriana (2)


A Mirella Serri (in foto) ho rivolto alcune domande.

Qual è stata la prima cosa che ti sei proposta nel tracciare la figura di Claretta Petacci?

Claretta Petacci è diventata l’incarnazione molto nota anche a livello internazionale del connubio tra amore e morte. La sua fama nasce dall’identificazione della sua immagine con quella della vittima sacrificale, della donna che con grande generosità s’immola sull’altare del sentimento per un uomo. La sua eredità sembra essere nella frase pronunciata prima di morire: «No, ammazzate me al posto suo» (e` difficile, pero`, verificare se l’abbia realmente formulata), rivolta agli uomini della Resistenza in procinto di giustiziare il despota che per vent’anni aveva sottomesso e governato l’Italia. Studiando la vicenda di Claretta ho capito che esiste un pregiudizio maschile nei confronti di questo personaggio. E cioè che il valore di una donna si possa giudicare dal suo rapporto con un uomo. Che si possa giudicare proprio dal suo sacrificio per un uomo. Cosa che ha fatto di Claretta una vittima innocente, una quasi eroina che si è sacrificata sull’altare dell’amore: un gesto di valore il suo anche se questo uomo era un despota sanguinario (non dimentichiamo le leggi razziali, i delitti di Stato compiuti da Mussolini da Giacomo Matteotti a Piero Gobetti a Giovanni Amendola ai fratelli Rosselli ad Antonio Gramsci). Claretta invece va giudicata per quello che è stata. Una donna intelligente e astuta, capace di guidare tutta la famiglia verso posizioni di potere. Il punto di vista femminile in questa storia è stato fondamentale.

Hitleriana. Definizione che hai voluto già nel titolo. Fu più nazista che fascista?

Fu fascista convinta e nazista altrettanto convinta. Le due cose non sono per nulla in opposizione, al contrario cono complementari. Hitler ha sempre guardato con ammirazione e riconoscenza a Mussolini e lo chiamava il “Creatore” dell’Idea. Clara nella Rsi si dedica al mito di Hitler che sostituisce quello del Duce in declino. Consegna, per esempio, all’ambasciatore Rahn massima autorità della Rsi le fotografie delle lettere di Mussolini. Mette il suo amante e i suoi segreti nelle mani del suo peggior nemico. E il Duce per questo fu in procinto di farla arrestare. Di prove del suo filohitlerismo ve ne sono molti altri. Ma non vorrei raccontarli tutti…

Claretta riuscì ad ottenere per la sua famiglia benefici da Mussolini?

Claretta riuscì a ottenere riconoscimenti e guadagni per se´ e per la sua famiglia nella corsa degli anni Trenta ai privilegi di un’inedita «casta» – all’epoca venne usato questo termine poi tornato in voga – composta da gerarchi, funzionari di partito, podestà, federali, ministri, deputati. Il fratello Marcello supportato da Claretta si applicò con spietatezza e disumanità allo sfruttamento delle leggi razziali per ricattare e ricevere quattrini, favori e regali dalle vittime, i cittadini ebrei. La villa alla Camilluccia dei Petacci fu costruita grazie ai favori di Mussolini (terreno, prestiti bancari ecc). Clara riceveva uno stipendio mensile dal ministro dell’Interno. Quando fuggì da Milano portava con sé 8 milioni di lire circa. Che non venivano dal patrimonio personale di Mussolini ma dalle tasche degli italiani. Mussolini trovò impieghi a tutta la famiglia. Fece fare un brillante carriera al fratello e al padre….

Si può immaginare che Mussolini sia morto accanto a una donna che più non amava?

Le lettere che i due amanti si scambiarono nel periodo della Rsi testimoniano che erano ai ferri corti. Ma la situazione era molto difficile e non è detto che non si amassero più. Clara era convinta che all’estero Mussolini avrebbe lasciato la moglie e che lei sarebbe divenuta la moglie ufficiale. Era il suo sogno.

Com’è stato possibile che una fredda calcolatrice, alla quale siano andati male i calcoli, sia diventata in molta parte nell’immaginario popolare italiano una sorta di eroina morta per amore?

Anche a Mussolini sono andati male i calcoli. Pensava forse di essere catturato dai partigiani? Per nulla. E nemmeno Claretta lo pensava. Stavano fuggendo, è andata male poteva andargli bene. Nel libro racconto come l’immagine di Claretta dopo i terribili fatti di piazzale Loreto – io penso che sia lei che Mussolini avrebbero dovuto avere una loro Norimberga, un giusto processo – sia cambiata. I partigiani che hanno proceduto alla sua esecuzione erano a conoscenza dei suoi rapporti con i nazisti. Nel dopoguerra gli stessi partigiani preferirono sposare la versione di Claretta che con il suo corpo aveva difeso il Duce per non incorrere nei numerosi processi che costituivano in quegli anni un pesante attacco alla Resistenza.

Perché il Pci fin dall’immediato dopoguerra non si oppose alla trasformazione della Petacci nell’immagine di donna che si sacrifica per amore?

Come dicevo prima perché la Resistenza era sotto attacco e addebitarsi l’uccisione di una donna senza processo era molto pericoloso. E la reazione attaccava la lotta di Liberazione.
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Mirella Serri
Claretta l’hitleriana
Pagine 300; Euro 19.00
Longanesi


Ritratti di autoritratti


Una nuova rivista semestrale si affaccia sullo scenario editoriale italiano: Senza Titolo.
Nasce ideata dall’artista Piero Varroni che guida Eos Edizioni.
Così presenta la neonata creatura di cellulosa che nel primo numero è dedicata a "Ritratti di autoritratti.".

«"Ritratti di autoritratti" sono gli estremi di un racconto: da una parte gli autori ai quali si è chiesto di rappresentare se stessi, mediante immagini e testi in cui maggiormente si riconoscono, per descriversi come artisti poeti e scrittori; dall’altra la rapprersentazione-ritratto, concentrata in quattro pagine per ognuno, ottenuta con il materiale ricevuto, ricomponendo alcune tessere, a volte stravolgendo le priorità per crearne delle nuove, svelando lati ignoti all’autore stesso, lavorando sulle consonanze e sulle divergenze: una riscrittura con nuove prospettive di senso, provando a esplorare l’inesplorato, a togliere i vincoli dell’autoreferenzialità all’autoritratto e renderlo narrativo, conferendogli concettualmente le fattezze del ritratto.
Il florilegio è qui, affidato alla carta della rivista, sotto i vostri occhi».

In pratica, una raffinata operazione artistica condotta da Varroni sui materiali inviati dagli artisti invitati in questo primo numero della rivista: J. M. Calleja – Gea Casolaro – Klaus Peter Dencker – Elmerindo Fiore – Giovanni Fontana – Anna Guillot – Lamberto Pignotti – Franca Rovigatti – Carlo Sperduti – Sergio Zuccaro.

Studio Varroni
Via Saturnia 55, 00183 Roma
info@eosedizioni.it
06 – 881 22 98
348 – 73 47 243


L'eredità spirituale degli indiani d'America


Tra le più grandi mistificazioni operate sulla verità storica, poche possono essere paragonate a quelle che Hollywood ha praticato sui nativi americani, da noi, soprattutto anni fa, chiamati “pellerossa” o sbrigativamente “gli indiani”; pochi, infatti, aggiungevano “indiani d’America”.
Venivano presentati come cattivoni, torturatori, nemici implacabili dei bianchi, dei soldati, guidati da John Wayne, che dovevano difendersi da insidiosi agguati, da micidiali trappole che quei selvaggi tendevano loro.
Un rovesciamento della verità che portava le vittime (cioè gli indiani), a figurare da carnefici, e gli aggressori (cioè i bianchi) da innocenti visitatori, mancava poco che fossero quasi turisti per caso.
Quanti di quei film bugiardi ho visto da bambino e, vergognandomene ancora oggi, tifando per la cavalleria di John Ford, grandissimo regista, ma non proprio un progressista.
Bisognerà aspettare gli anni ’70 (non a caso anni della contestazione, dell’opposizione alla guerra in Vietnam) per vedere affacciarsi verità con film quali “Il piccolo grande uomo”, “Soldato blu” e qualche buona pellicola meno famosa.
La letteratura documentaristica è, invece, più attenta e onesta dinanzi a quel periodo storico della colonizzazione violenta operata specie dopo il 1870.
Mi piace qui segnalare una tesi di laurea italiana di qualche anno fa che è un lucido testo al proposito partendo dalla constatazione del primo errore che si fa immaginando “gli indiani” con arco, frecce e copricapo di piume mentre inseguono i bisonti "sedimentando uno stereotipo che annullava le diversità, considerandoli un’unica popolazione con caratteristiche culturali, usi, costumi, tradizioni e credenze uguali”.

La casa editrice Lindau ha pubblicato un libro che è uno straordinario documento antropologico. S’intitola L’eredità spirituale degli indiani d’America.
L’autore è Joseph Epes Brown (1920 – 2000).
Grande studioso delle tradizioni native e delle religioni americane , fu uno dei fondatori del primo programma universitario di studi sulle religioni dei popoli nativi, istituito presso l’Università dell’Indiana nel 1970. Tra i suoi libri editi in Italia ricordiamo “La sacra pipa” dedicato ad Alce Nero e ai rituali dei Sioux Oglala. Oggi è sua figlia Malika che continua l’attività di suo padre.
Fondamentale per lo studioso fu la lunga permanenza presso Alce Nero.
Importante esperienza perché in qualche modo atipica in quanto Alce Nero si convertì al cattolicesimo e permise a Brown d’esplorare i possibili nessi (sia pure non da altri antropologi condivisi) fra le religioni dei nativi e altre non solo di radici cristiane.
Questo libro oltre alla prefazione dei curatori Marina Brown - Weatherly, Elenita Brown – Michael Oren Fitzgerald e la prefazione di Åke Hultkrantz, contiene luna dettagliata biografia di Brown e le lettere che scrisse durante il periodo trascorso ospite di Alce Nero, una bibliografia completa dei suoi scritti, le fotografie di guide spirituali degli indiani d’America finora mai pubblicate prima.

Dalla presentazione editoriale.
«Pubblicato originariamente nel 1982, questo volume raccoglie alcuni degli scritti più significativi di Joseph Epes Brown, che dedicò gran parte della propria vita a studiare le tradizioni dei nativi americani, impegnandosi in prima persona a promuoverle e difenderle.
Attratto in particolar modo dalla figura di Alce Nero e di altre guide spirituali indiane, fin dal dopoguerra Brown trascorse lunghi periodi a stretto contatto con loro nelle riserve, raccogliendo testimonianze e ascoltando insegnamenti intesi a preservare un’antica civiltà, sempre più minacciata dalla società dei consumi.
Dalle concezioni religiose ai rituali, i canti e le danze, dalle spedizioni di caccia al patrimonio materiale: in questo volume, arricchito dalle lettere scritte durante la permanenza al fianco di Alce Nero e da alcune fotografie scattate in quel periodo, l’autore descrive un paesaggio culturale che, dalle foreste del Canada fino ai deserti del Sud-Ovest, passando per le Grandi Pianure, non smette di affascinare per la sua ricchezza e costituisce un esempio quanto mai attuale di vita in armonia con la natura».

Joseph Epes Brown
L’eredità spirituale degli indiani d’America
A cura di:
Marina Brown
Weatherly, Elenita Brown
Michael Oren Fitzgerald
Prefazione: Åke Hultkrantz
Traduzione: Carolina Sargian
Con inserto foto b/n
Pagine 234, Euro 24.00
Lindau


Affrontare il disturbo ossessivo compulsivo


Esistono acronimi composti dalle stesse lettere che, però, indicano cose assai diverse.
Ad esempio, Doc.
Può significare Denominazione di Origine Controllata, sigla utilizzata in enologia che certifica la zona di origine e delimitata della raccolta delle uve utilizzate per la produzione del prodotto sul quale è apposto il marchio.
Ma Doc sta pure in psichiatria per Disturbo Ossessivo Compulsivo caratterizzato da pensieri, immagini o impulsi ricorrenti. Questi innescano ansia e impongono a chi ne è affetto ad attuare veri e propri riti, materiali o mentali, ripetitivamente compiuti senza i quali si teme, ad esempio, possano accadere sciagure a se stessi o a persone care.
Chissà quanti che stanno leggendo questa pagina non siano vittime di quella coercizione e stiano proprio adesso compiendo azioni volte a tranquillizzarli: leggere daccapo questa nota una o più volte, contare quante parole contiene e poi ricontare ancora immaginando che un possible errore possa comportare conseguenze negative dagli esiti catastrofici, e via di seguito.
Va ricordato che il Doc non va confuso con il Disturbo ossessivo compulsivo della personalità.
Il Doc è stato trattato in campo artistico su più versanti: al cinema, nei fumetti, .in tv nella famosa serie di Alfred Hitchcock. Ricordo anche (scusate l’autocitazione) che nei primi anni ’90 fui regista a Radiorai di uno sceneggiato in più puntate, autore Giuseppe Lazzari, con il protagonista, interpretato da Fernando Caiati, il quale vedeva sconvolta la sua vita proprio perché affetto da Doc.
Per quanto riguarda la musica, invece, esistono vere e proprie ossessioni musicali testimoniate da.quest'articolo.
Il Doc è un disturb assolutamente da non sottovalutare perché ispessendosi nel tempo può rendere la vita un inferno.

La casa editrice FrancoAngeli ha pubblicato un libro che aiuta a chiarire in che cosa consiste quella sofferenza e quali siano gli strumenti terapeutici per liberarsene.
Il volume, intitolato Affrontare il disturbo ossessivo compulsivo è a cura di Paola Spera e Francesco Mancini.

QUI la biografia di Paola Spera.
QUI quella di Francesco Mancini

QUI un’illustrazione di quel disturbo che rende infelici tanti.

In questo video un illuminante intervento di Francesco Mancini

Dalla presentazione editoriale.

«Il DOC, o Disturbo Ossessivo Compulsivo, è un disturbo che nasconde molte insidie, tanto che può mettere in difficoltà sia i terapeuti alle prime armi sia quelli più esperti. E può capitare che chi soffre di questo disturbo non riceva un trattamento adeguato. Per questo motivo gli autori hanno pensato ad un quaderno di lavoro: uno strumento che possa accompagnare sia il terapeuta sia chi soffre del disturbo, supportando entrambi nel percorso. Il linguaggio usato, semplice e alla portata di tutti, rende infatti il quaderno di lavoro uno strumento facilmente utilizzabile anche da chi soffre di DOC, per capire e affrontare meglio il proprio disturbo anche se non ritiene ancora di dover, o di poter, affrontare una psicoterapia. I capitoli sono costituiti da una breve introduzione teorica e da schede di lavoro utilizzabili sia in seduta sia come homework.
La prima parte aiuterà a conoscere meglio il disturbo spiegandone il funzionamento e a capire come riconoscerlo e ricostruirne lo schema di funzionamento.
La seconda parte permetterà di affrontarlo direttamente, lavorando sulla riduzione della probabilità e della gravità dell'evento temuto e sull'accettazione della minaccia.
La terza parte allarga la prospettiva, indicando come ACT e mindfulness possono essere dei validi aiuti, o come riconoscere e gestire le ricadute.
Viene infine dedicato un capitolo anche ai familiari di chi soffre questo disturbo».

Il volume si avvale d’interventi di Barbara Brancaccia – Barbara Basile – Carlo Buonanno – Brunetto De Sanctis – Andrea Gragnani – Olga Ines Luppino – Francesca Mancini – Claudia Perdighe – Giuseppe Romano – Angelo Maria Saliani – Katia Tenore – Alice Turri.

………………………….…………..


A cura di
Paola Spera – Francesco Mancini
Il disturbo ossessivo compulsivo
Pagine 194, Euro 23.00
FrancoAngeli


Sette lezioni e mezza sul cervello


Il cervello umano ha un volume di 1100 – 1300 cm³ e rappresenta soltanto il 2% dell'intero organismo. Nonostante ciò, utilizza il 20% dell'ossigeno e il 20% di glucosio.
ll peso del cervello di noi umani può arrivare a un massimo di 1,5 kg. Gli uomini possiedono un cervello più pesante rispetto alle donne (1,35 kg contro 1,21 kg), ma ciò non basta a renderli più intelligenti. Il cervello femminile, infatti, contiene un maggior numero di cellule nervose e connettori il che lo rende più efficiente.
Il cervello dell'uomo di Neanderthal aveva un peso maggiore rispetto a quello dell'Homo sapiens sapiens; quello di Einstein pesava 1,23 kg (in linea con le medie del periodo),
Il cervello è composto per l'80% da acqua, per il 10% da lipidi e l'8% da proteine il che gli conferisce una consistenza gelatinosa. Per l'accentuata componente lipidica, è l'organo più grasso del corpo umano. La massa, però, non resta costante: dopo i trent'anni diminuisce di circa 0,25% l'anno.

Dopo aver riassunto da un’enciclopedia scientifica quelle righe di sopra, si può affermare (più o meno solennemente) che del cervello sappiamo… pochissimo, del corpo umano è il luogo di cui meno si sa.
Forse non è un caso che è l’unico organo studiato (o disputato, decidete voi) da ben quattro specialisti: il neurologo, lo psicanalista, lo psichiatra, lo psicologo; qui li ho elencati in ordine alfabetico per allontanare da me sospetti di preferenze scientifiche fra quelle professioni.

La La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato un libro che del cervello illustra la storia evolutiva e le funzioni raggiunte, almeno quelle che ora conosciamo.
Titolo: 7 lezioni e 1⁄2 sul cervello .
L’autrice è Lisa Feldman Barrett (Toronto, 1963).
Professoressa di Psicologia presso la North-eastern University di Boston, dove dirige l’Interdisciplinary Affective Science Laboratory.
È autrice di “How Emotions Are Made” (2017) e di un gran numero di pubblicazioni su ‘Science e Nature’.
Perché il volume è intitolato 7 lezioni ½ e non 8? Perché il saggio d’apertura racconta come si sono evoluti i cervelli, un rapido sguardo a una vasta storia evolutiva e, quindi, la Feldman Barrett preferisce, per eleganza, indicarla come una mezza lezione, i concetti che introduce, però, sono fondamentali per il resto del libro.
Le lezioni che seguono sono strutturate come una serie di articoli apparentemente separati, ma sono tasselli che una volta riuniti rivelano l’unità di un mosaico.
Un mosaico costruito attraverso milioni di anni da quando, come scrive l’autrice, “la Terra era governata da creature senza cervello. Una di queste creature era l’anfiosso, un vermetto (…) popolava gli oceani circa cinquecentocinquanta milioni di anni, non aveva occhi e non poteva percepire i suoni. Il suo scarno sistema nervoso includeva un minuscolo ammasso di cellule che non costituiva un vero e proprio cervello. Un anfiosso, potremmo dire, era uno stomaco su un bastoncino”.
Intendiamoci, ce ne sono ancora molti di anfiossi in giro ma sfuggono all’osservazione di tanti perché, dicono certi maligni, che abbiano assunto un aspetto umano e alcuni di loro governano la Terra o almeno porzioni di essa.
Da quella lontanissima epoca, siamo arrivati oggi all’ipotesi post-umanista di un super cervello artificiale che in un lontano (secondo alcuni meno lontano di quanto possa sembrare) avrà capacità che un tempo erano immaginate soltanto nelle pagine dei romanzi di fantascienza, divenuti – se tutto questo si avvererà, com’è possibile – testi profetici.
Questo territorio avveniristico non è toccato dalla Feldman Barrett che preferisce fermarsi (fermarsi, si fa per dire) su quella che è molto più di un’ipotesi perché ha certificati scientifici della loro vertigine, cioè sul fatto che il cervello può creare, e ricreare, realtà.
Un libro “7 lezioni e 1⁄2 sul cervello” che rappresenta un viaggio dentro noi stessi passando da un colpo di scena a un altro. Tutto questo, però, detto sommessamente, con grande umiltà, perché i saggi non vi dicono che cosa pensare della natura umana, ma vi invitano a riflettere su quale tipo di umani siete o volete essere.

Dalla presentazione editoriale.
«È l’organo che più ci contraddistingue come specie, quello che abbiamo ipersviluppato e che – a torto o a ragione – ci fa sentire superiori agli altri esseri viventi, il fondamento della nostra civiltà e, per alcuni, la sede dell’anima; ma a che cosa serve davvero il nostro cervello, e come funziona?
In 7 lezioni e 1⁄2 sul cervello Lisa Feldman Barrett condensa le più importanti e recenti ricerche scientifiche e svela segreti, meccanismi e curiosità di questo nostro meraviglioso organo: al contrario di quanto si crede, non serve per pensare; è fatto come il cervello di tutti gli altri animali e funziona come una rete; durante la crescita è estremamente plasmabile; prevede (quasi) tutto quello che facciamo e collabora con i cervelli delle altre persone; dà origine a diversi tipi di mente ed è perfino in grado di creare e modificare la realtà in cui viviamo.
Il nostro cervello non è il più grande del regno animale e nemmeno il migliore in assoluto. Ma è straordinariamente flessibile e perfettamente adattato a ricevere e analizzare l’enorme quantità di informazioni che provengono da altri cervelli o dall’esterno per rispondere alle situazioni più diverse – che sia l’approssimarsi di una minaccia, l’emozione trasmessa dal volto di chi ci sta davanti, l’urgente necessità di cibo… o di una dose di caffeina. Rapide e illuminanti, le 7 lezioni e 1⁄2 sul cervello di Lisa Feldman Barrett demoliscono con ironia miti consolidati e dipingono un ritratto inaspettato di quella massa di poco più di un chilo che ci rende unici e umani».

Lisa Feldman Barrett
7 lezioni e 1⁄2 sul cervello
Traduzione di Elisa Faravelli
Pagine 149, Euro 17.00
Il Saggiatore


Muoio per te


Sono tanti gli orrori che insanguinarono l’Italia specie negli anni 1943 – 1945, ma la memoria storica ha talvolta vuoti inspiegabili sicché su certe stragi sono calate tenebre che a lungo ne hanno nascosto il ricordo.
Una di queste accadde a Cavriglia e dintorni in Toscana.
La casa editrice Longanesi ha dedicato a quell’eccidio una quanto mai opportuna pubblicazione: Muoio per te Cavriglia, 4 luglio 1944. Un massacro nazista che l’Italia ha dimenticato.

L’autore del volume è Filippo Boni (1980) laureato in Scienze Politiche all’Università di Firenze con una tesi sui massacri nazisti in Toscana.
Studioso del Novecento e degli anni di piombo, giornalista, ha pubblicato molti saggi sulla Resistenza e sull’età contemporanea.
Di lui Longanesi, oltre al presente libro, ha in catalogo “Gli eroi di via Fani” (2018, Premio Firenze-Europa) e L'ultimo sopravvissuto di Cefalonia(2019).
Questo sito lo ha già avuto gradito ospite proprio in occasione della pubblicazione di Gli eroi di Via Fani dedicato agli agenti caduti durante il rapimento di Aldo Moro.

Anche stavolta a Boni va riconosciuto l’alto profilo morale della sua pubblicazione che ha un merito di non poco momento: ricordare quanto da troppo tempo era nella nebbia di un lontano passato che molto, ancora oggi, ha da insegnarci.

Dalla presentazione editoriale.

«Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine. Moltissimi conoscono i tre principali massacri nazifascisti avvenuti nel nostro paese durante la Seconda guerra mondiale. Nessuno o quasi ha mai sentito parlare del quarto: Cavriglia, nel cuore della Toscana, 192 innocenti massacrati e dimenticati.
Primavera 1996. Giuseppe Boni, settantadue anni, in procinto di morire vinto da un cancro, ha riempito con grande premura molte pagine che ricostruiscono la tragedia di cui è stato testimone. La sua memoria va all’estate del 1944, quando compaesani, amici e parenti vennero rastrellati nelle proprie case, mitragliati e bruciati dai reparti tedeschi della Divisione Hermann Göring. Senza nessuna spiegazione e giustizia. Giuseppe quel giorno si salvò nascondendosi in un bosco, ma suo padre, convinto che il figlio fosse morto, si consegnò ai tedeschi. Lo trovarono ricoperto di sangue, con in tasca la catena di un orologio a cipolla che Giuseppe avrebbe poi custodito per tutta la vita. Le maglie di quella catena gli ricordano ora le tappe che portarono all’eccidio: gli spostamenti dei partigiani, l’arrivo dei tedeschi nelle settimane precedenti il 4 luglio, la pianificazione del massacro e l’inferno di quella mattina. Ma gli ricordano anche le storie incredibili di chi non ebbe neppure il tempo di salutare, di chi offrì la propria vita in cambio di quella degli altri, di chi si salvò in modo rocambolesco e di chi morì tragicamente, per sbaglio, per un colpo di vento, per una finestra chiusa male, per la spiata di un traditore o per un eccesso di buona fede.
Perché il ricordo di tutto quel dolore non svanisse per sempre, Giuseppe ha trasmesso al nipote, l’autore di questo libro, un’accorata testimonianza che ha spinto quest’ultimo a compiere un attento lavoro di ricerca su un atroce massacro di cui pochissimi fino a oggi si sono occupati.».

Elogi agli apparati assai ben curati.

Per leggere le prime pagine:CLIC.

Filippo Boni
Muoio per te
Pagine 372, Euro 19.00
Longanesi


Metodo Effe


L’Associazione culturale Metodo Effe nasce nel 2007 promossa da un gruppo di donne di varia estrazione espressiva. Adesso propone un calendario d’incontri al femminile per creare occasioni di confronto interdisciplinare in sintonia col multicodice che oggi governa arte e ragionamenti.
Curatrice del progetto è l’artista Silvia Fiorentino.
In questo video, illustrata da Valerio Cuccaroni, una sua biografia seguita da una performance di lettura da un suo testo da lei stessa recitato.

Conversazioni Contemporanee - abitare il pensiero, vivere l’arte è il titolo del cartellone d’interventi che, partiti il 30 aprile, arriveranno fino alla fine di maggio.
Sono fruibili ogni venerdì alle 18:00 in diretta sulla rinnovata pagina Facebook e Instagram di “Metodo Effe”.

L’idea creativa e organizzativa di quest’incontri nasce dalla collaborazione tra Fiorentino e Laura Lanari (già coordinatrice dei Musei Civici di Ancona e attualmente docente in formazione), in dialogo con le altre socie fondatrici.
Ogni venerdì – dice Silvia Fiorentino (in foto) – faremo compagnia a coloro che si sintonizzeranno sul canale. “Conversazioni contemporanee”, è uno spazio da costruire insieme, con il pensiero filosofico, politico, estetico, psicanalitico, artistico. In questo momento risentiamo di tante problematicità che stanno attraversando la nostra cultura, una grande crisi del sistema non solo italiano che si esprime su diversi livelli coinvolgendo arte, sociologia, antropologa, economia. Perciò ci è sembrato necessario creare una piattaforma di dialogo per dare spunti, per riflettere, confrontarsi. Non pensiamo di essere esaustive vista la complessità della materia, ma puntiamo a sollevare domande, spunti, riflessioni rivolte a colmare il silenzio di molti.

CLIC per conoscere il calendario e le relatrici:

Avendo notato il nome dell’amica filosofa e scrittrice Brunella Antomarini (in foto in basso a destra) già intervenuta altre volte su questo sito anche in occasione di sue pubblicazioni (L'errore del maestro, Le macchine nubili) l’ho invitata per una corsa su Cosmotaxi e le ho rivolto la domanda che segue.

“Outsider Inside”, questo il titolo che darai al tuo intervento. Di che cosa si tratta?

«Il titolo della conversazione con Silvia Fiorentino letteralmente vuol dire ‘esclusa dentro’, un paradosso che parla del modo sottile, rilevabile solo per indizi e sintomi, di una condizione femminile di esclusione, che però avviene inside, cioè da dentro il sistema che la esclude. È un meccanismo che ogni donna riconosce immediatamente su di sé, ma che non ha modo di dirlo – e per questo c’è bisogno dell’arte – perché non avviene in modo esplicito, tanto più quando a livello istituzionale o giuridico le leggi non sono più discriminanti. È più una questione di consuetudine che accade inconsciamente. In condizioni di competizione professionale, una donna non viene presa in esame perché il conflitto è una guerra di branco, o ci si allea o ci si combatte e non esiste guerra fatta contro o con donne. Diventa anche una questione di percezione: l’immagine femminile si percepisce immediatamente come ‘femmina’, come ’vecchia’ come ‘attraente’ o ‘poco attraente’ e questo giudizio percettivo influisce sulla conversazione, sull’ascolto, sulla decisione. E di conseguenza diventa una forma di auto-percezione e di percezione che le donne hanno di altre donne. Ci si concentra sul proprio corpo e su come appare, forme di auto-riflessione che le impediscono di sentirsi dentro all’ambiente esterno. Restano ancora dentro la membrana della pelle e ci tornano sempre. Sono dei feedback loops che è molto difficile descrivere in particolare. Accadono nell’immediato della vita quotidiana e sono di carattere più profondo di quanto si possa descrivere. È una linea sottilissima che si tira come confine invalicabile o soffitto di vetro che allontana le donne da valutazioni che non siano connotate come ‘femminili’. Non è nemmeno una questione di convenienza – come nel caso degli stipendi più bassi alle donne. Anzi, escludere una donna non conviene a nessuno, ma il meccanismo non si sradica.
Per questo l’idea di Silvia Fiorentino di organizzare nuovi incontri con il suo storico Metodo Effe è molto importante in questo momento, soprattutto partendo dalle arti, che sono sempre in anticipo e trovano modi di espressione che appunto mancano nella comunicazione ordinaria».


La teoria della relatività

Il fisico Carlo Rovelli ha detto: Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear... Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi.

Albert Einstein, considerato il più importante fisico del XX secolo, nacque nella città tedesca di Ulma, il 14 marzo 1879, morirà a Princeton, Stati Uniti, il 18 aprile 1955.
“Una sciocca fede nell’autorità” – scrisse nel 1901 a un amico – “è il peggiore nemico della verità”. Questa sua tendenza a contestare l’autorità e a far valere le proprie idee sulla scienza e sull’Universo non lo rese popolare tra gli insegnanti, ma lo portò alle sue più grandi scoperte. Prima fra tutte: la relatività.
La casa editrice Editoriale Scienza ha dedicato a quella vertiginosa scoperta una maxi-pubblicazione (formato cm: 28 x 37) destinata a ragazzi dagli 11 ai 13 anni. A dire il vero, sfogliando quelle pagine assai ben fatte mi viene voglia di dire che possono essere utili anche a noi adulti, ma non voglio che i miei coetanei si sentano offesi e, quindi, affermo che certamente quel libro può essere utile a me, però, ça va sans dire, in libreria sosterrò che è un acquisto fatto per i miei nipoti.
Titolo del volume La teoria della relatività.
Testo di David Wilgenbus, illustrazioni di James Weston Lewis.

Le ricadute della teoria della relatività nella vita di tutti i giorni sono tantissime: senza relatività non funzionerebbero bene i nostri orologi satellitari, il Gps, diversi strumenti di diagnostica medica, non potremmo fare osservazioni cosmologiche, non avremmo l'energia nucleare e altre centinaia di cose
Perfino quando lanciamo uno sguardo su temi che sfiorano la fantascienza ci sono utili le intuizioni di Einstein. Un esempio? Eccolo: i viaggi nel tempo. Infatti, la teoria della gravità generale prevede che grandi masse, quali possono essere i buchi neri, creino dei grandi avvallamenti nella struttura dello spazio-tempo. Questi potrebbero diventare così grandi da generare veri e propri tunnel spazio-temporali. che permetterebbero i viaggi nel tempo.

QUI un breve video per sfogliare pagine del libro.

Dalla presentazione editoriale.

«Albert Einstein spiegato ai ragazzi in un libro prezioso e di grande formato, per scoprire la teoria della relatività e il percorso che l’ha portato a elaborarla.
Einstein ha cambiato il mondo. Le sue idee hanno rivoluzionato la scienza e mutato il modo di concepire l’Universo. È stato una delle prime celebrità a livello globale, e la sua personalità insolita e ribelle ha segnato l’immaginario collettivo. Scopri il percorso che l’ha portato a scrivere la più famosa equazione della storia e a vincere il Premio Nobel. Un affascinante viaggio nella mente di Albert Einstein, in cui le sue teorie sono spiegate con chiarezza e rese accessibili agli scienziati di domani.
La teoria della relatività è spiegata ai ragazzi partendo dalle conoscenze note al tempo del grande scienziato, per capire tanto le basi da cui è partito quanto la forza dirompente delle sue scoperte».

La teoria della relatività
Testo di David Wilgenbus
Traduzione di Lucia Feoli
Illustrazioni di James Weston Lewis
Pagine 64, Euro 22.90
Editoriale Scienza


Per un museo Fo Rame

La coppia Dario Fo (Sangiano, 24 marzo 1926 – Milano, 13 ottobre 2016) - Franca Rame (Parabiago, 18 luglio 1929 – Milano, 29 maggio 2013) ha scritto uno dei più importanti capitoli della storia del teatro italiano e non solo di quello italiano.
La Fondazione che ha i loro nomi, presidente Mattea Fo, ha l’obiettivo con la campagna Un museo per Dario e Franca di trovare un luogo dove accogliere l'Archivio, dare forma al Museo, e realizzare tutto ciò che era stato promesso a Dario il 23 marzo 2016 con la firma della convenzione con il Ministero della Cultura.
Molto attivo in questo progetto, sul prossimo link giustamente polemico, troviamo anche Jacopo figlio di Dario e Franca.

Non si può chiudere una notizia che riguarda quei due senza riproporli in una delle tante loro irresistibili scene.

Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web:
Fondazione Fo Rame
info@fondazioneforame.org
Frazione Santa Cristina 14
06024 – Gubbio (Pg)


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